6Questo è vero anche per i settori Moda e Lusso4, dove eccellenza qualitativa, creatività
imprenditoriale e flessibilità organizzativa rappresentano aspetti imprescindibili ai fini del successo
competitivo.
Tra i primi venti Gruppi italiani5, ben quattro sono controllati da famiglie proprietarie e operano nei
suddetti settori, seppure in diversi comparti, con ottimi risultati: si tratta di Bulgari, Marzotto,
Benetton, Luxottica.
E accanto a tali casi di imprese quotate, diversificate e con una forte presenza internazionale, ve
ne sono molti altri di aziende talvolta più piccole, talvolta integrate, non quotate, focalizzate in
precise arene di mercato, che ugualmente contribuiscono alla competitività del nostro Sistema
Paese: il Gruppo Max Mara, il Gruppo Ermenegildo Zegna, ma anche le numerosissime imprese
subfornitrici dalle quali dipende la sopravvivenza dei distretti industriali, ne rappresentano alcuni
esempi.
La proprietà familiare consente a tali imprese di sentire la responsabilità sociale per le sorti del
Made in Italy, di comprendere i valori che stanno alla base del Sistema Moda e farli propri, meglio
di quanto riescano a fare aziende non familiari: questa è l’intuizione che ha ispirato la ricerca qui
proposta.
Corrispondenza che non è ignorata dagli imprenditori familiari del settore in questione: così ha
parlato ad esempio Gianni Versace6 a proposito del ruolo della moda per la competitività del
Sistema Italia: “Il made in Italy è Como, Biella, Prato, Roma e Firenze. Sono i comuni e le imprese
familiari della cultura italiana. E’ l’essere italiano,l’essere artigiano, il saper fare.
Proprio tale consapevolezza porta le imprese familiari del Sistema Moda a considerarsi come
missionari di un preciso scopo sociale, custodi di un pezzo importante di identità nazionale: …”La
Gianni Versace non è stata più un lavoro, ma una religione. Una passione di vita. E in effetti è
così in tutte le aziende familiari. Una passione positiva, non distruttiva. Una passione che rispetta il
lavoro”7.
Il tema della proprietà familiare, delle ragioni che spiegano la sua capillare diffusione nella realtà
imprenditoriale italiana, nonché dei vantaggi e degli svantaggi connessi a tale modello di
capitalismo, è stato largamente indagato8, con contributi più o meno recenti, nella letteratura tanto
italiana quanto internazionale.
Tuttavia, nel momento in cui si circoscrive l’analisi alle imprese italiane del Sistema Moda, il
successo internazionale del quale, a partire dagli anni ’70, si deve anche alla piccola dimensione,
4 Come si approfondirà in seguito, per settore “Moda” si intendono entrambi i comparti del tessile-abbigliamento, da un
lato, e calzature-pelle-accessori, dall’altro. Il settore “Lusso” comprende invece il comparto dell’orafo-gioielleria e
quello degli accessori di fascia alta e medio-alta.
5 Guido Corbetta: Prefazione all’edizione italiana di : “Mantenere il successo”, op. Cit.
6
Intervista concessa a Marco Vitale, citata da Santo Versace nell’ambito del Convegno delle Imprese Familiari di cui
sopra.
7 Gianni Versace, intervista citata.
8 Per comprendere la vastità dei contributi accademici in materia di imprese familiari basta consultare la bibliografia del
libro: “Capaci di Crescere”, a cura di Guido Corbetta, op. Cit., o visitare il sito dell’Associazione Italiana delle Imprese
Familiari: www.aidaf.it.
7alla flessibilità organizzativa delle nostre aziende collegate nelle catene del tutto peculiari dei
distretti industriali, l’impressione è che non sia stata dedicata sufficiente attenzione agli
innumerevoli vantaggi che la proprietà familiare, se capace di evolversi e tener fronte alla sfida
internazionale, può dare alle medesime imprese.
Così, ad eccezione di alcuni contributi illuminanti sul tema della relazione tra proprietà familiare e
imprese di moda9, sembra potersi rilevare un’indifferenza di fondo circa tale relazione: se l’impresa
è familiare e non ottiene grandi risultati, la configurazione della proprietà è additata come la
principale causa della scarsa competitività; se, invece, l’azienda si caratterizza per un’eccellente
performance, ed è gestita da una o più famiglie, tale aspetto, lungi dall’essere riguardato come
potenziale fonte di superiore competitività, è talvolta addirittura archiviato come eccezione che
conferma la regola: l’impresa va bene anche se è familiare.
A ciò si aggiunga che la strada aperta negli anni Novanta da Bernard Arnaud con la costituzione
del primo Gruppo internazionale del Lusso, il LVMH, ha fatto emergere un’importante tendenza
che pone le imprese del Made in Italy quasi di fronte ad un aut-aut: il Gruppo multi-business
rappresenta una valida e conveniente alternativa alla proprietà familiare delle aziende italiane?
Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di tale configurazione? A cosa vanno incontro le imprese
italiane che decidono di vendere la proprietà ad un Gruppo internazionale?
Così si è espresso lo stilista Valentino Garavani in occasione di una intervista rilasciata
all’Espresso10: “Oggi la competizione è tra grandi società, tra colossi come il gruppo LVMH, il
gruppo Prada o Gucci. Da soli, ormai, è quasi impossibile sopravvivere. Questa è una delle ragioni
per cui abbiamo venduto la Valentino alla Hdp. Certo mi fa impressione pensare che dei miei rivali
di un tempo, adesso quasi nessuno è ancora alle redini della sua azienda.”
Si tratta di parole che, pronunciate da un “re” incontrastato dell’alta moda, con quarant’anni di
carriera alle spalle, suscitano profonde riflessioni.
Parole che lasciano forse un po’ di amarezza in chi si chiede: ma la strada della cessione è
davvero così inevitabile?
A tali domande si intende dare risposte concrete, sulla base della convinzione che le sorti del
Made in Italy dipendano, se non in tutto, in buona parte dalla capacità delle nostre imprese di
valorizzare quegli elementi di distintività che da sempre le hanno caratterizzate attraverso il
modello proprietario più opportuno.
Il panorama italiano delle Imprese di Moda si divide, oggi, tra aziende che hanno intrapreso la
strada della cessione a grandi Gruppi, come nel caso di Valentino ( Gruppo Marzotto), Fendi
(LVMH), Moschino ( Gruppo AEFFE), imprese che, dotate di una forza economica e finanziaria
molto più elevata hanno acquisito le suddette aziende per diventare Gruppi multi-brand ( basti
pensare ai Gruppi Prada o Gucci ), imprese che non hanno intrapreso nessuna delle due strade, e
9 Si veda a tal proposito l’articolo di Stefania Saviolo: “Servono alla moda italiana i gruppi multibusiness e
multibrand?” in: “Economia & Management”, n°2/2003, o, ancora: Stefania Saviolo, Erica Corbellini: “La scommessa
del Made in Italy”, in particolare pp. 99-119, ed. Etas, Milano,2004.
10
In: Speciale Moda Espresso 2000, su: www.repubblica.espresso.it
8che si configurano, tuttoggi, come entità integrate al loro interno, estremamente focalizzate su
precisi segmenti competitivi e, talvolta, controllate al vertice dalle medesime famiglie proprietarie
che le hanno fondate: Max Mara, Ferragamo, Chanel, Hermés, ne rappresentano alcuni esempi.
L’analisi che qui si propone ruota intorno alla domanda-chiave: la proprietà familiare
rappresenta ancora un motore di crescita per le imprese italiane del Sistema Moda?
Si tratta di un argomento quanto mai attuale, e sul quale, ancora, non esistono risposte univoche
che godano di un consenso unanime.
Così, ad esempio, si sono espressi in proposito alcuni ricercatori dell’Università Bocconi11: “La
forza economica [ dei grandi Gruppi multibrand] permette loro di accaparrarsi le risorse per vincere
anche sul fronte simbolico, e la vittoria sul fronte simbolico impedisce alle risorse che producono
profitto economico di diventare “out”.
La questione che in tale sede si vuole portare all’attenzione, strettamente connessa alla domanda
chiave della ricerca, è: ma è proprio così?
Senza voler nulla togliere alle conclusioni che tale studio metterà in luce, ci si domanda se la
concezione del rapporto grande Gruppo-piccola impresa titolare di un singolo marchio come
relazione di reciproco scambio, vantaggioso e profittevole per entrambi, non sia forse
eccessivamente semplificatrice di una ben più complessa realtà, che merita approfondimenti.
Nel solo terzo trimestre del 1999 sono state contate ben 33 operazioni di finanza straordinaria nel
mondo del fashion-system, e ancora di più nel 2000 e nel 2001.
Si è trattato di un periodo, non ancora concluso, in cui non si faceva in tempo a registrare un patto,
un acquisto o una concentrazione, che immediatamente viene registrata un’altra maxi
operazione12.
E poiché tale aspetto risulta fondamentale per comprendere il valore aggiunto che l’impresa
familiare, che compete con le sue forze e che non cede la proprietà, può ancora avere nell’attuale
Sistema Moda, anche noi tenteremo di approfondirlo.
Il lavoro che si intende presentare si sviluppa in cinque capitoli.
Il primo ed il secondo capitolo sono dedicati all’inquadramento teorico dell’argomento ed agli
aspetti concettuali: sarà indagata l’unità fondamentale di analisi che è l’impresa di Moda a
proprietà familiare.
Il primo capitolo illustra, in particolare, le caratteristiche della proprietà familiare come modello di
capitalismo più diffuso nel nostro paese: sarà fornita una definizione di impresa a proprietà
familiare, saranno argomentati i punti di forza e di debolezza e le peculiarità di tale modello; in ogni
paragrafo gli aspetti più propriamente teorici sono accompagnati da esempi pratici e da citazioni di
importanti imprenditori italiani, che arricchiscono e rendono più concreta e piacevole la trattazione.
Il secondo capitolo è interamente centrato sul Sistema Moda: la struttura della filiera produttiva, le
caratteristiche delle imprese che la compongono, la distinzione tra attività a monte della filiera ed
11
Il riferimento è ancora a Cappetta,Perrone e Ponti: “Competizione economica e competizione simbolica nel Fashion
System”, art. cit.
12 Mario Guarino, Feudora Rugei: “Scandali e segreti della Moda”, Editori Riuniti, Roma, 2001, pag. 52.
9attività a valle; a tali considerazioni introduttive seguirà poi un focus specifico sulle imprese di
abbigliamento, che più interessano per la finalità di tale lavoro: si tratterà, in particolare, della crisi
del Made in Italy, con una distinzione tra cause e possibili soluzioni strategiche.
Anche in tal caso, inoltre, le teorie ed i modelli manageriali sono accompagnati, quanto più
possibile, da esempi, citazioni, affermazioni di manager e proprietari di imprese di Moda,
rintracciati in letteratura nonché in articoli di quotidiani e periodici specializzati nel settore, che
avvalorano ed arricchiscono il significato delle teorie.
Il terzo capitolo si concentrerà sulle alternative alla proprietà familiare: l’acquisizione da parte di un
Gruppo o di un’altra azienda, o la quotazione in borsa; entrambi gli argomenti sono presentati
seguendo uno schema logico che prevede: definizioni ed inquadramento teorico, vantaggi e
svantaggi di ogni singola alternativa; al termine del capitolo sarà poi presentato un caso empirico:
quello del Mariella Burani Fashion Group, che rappresenta, nel panorama della moda italiana, una
delle massime realtà imprenditoriali per la crescita tramite acquisizioni e per la diversificazione di
attività.
Il quarto capitolo illustra le logiche ed il supporto che può essere offerto alle imprese familiari di
Moda dai Fondi di Private Equity: la scelta di dedicare parte del lavoro a tale strumento di
finanziamento per le PMI, ancora poco sfruttato, lungi dall’essere considerata come una
deviazione dal tema principale, risponde invece a quel desiderio di concretezza con cui si intende
rispondere alle domande di ricerca.
In sintesi, ci si chiede:se l’impresa a proprietà familiare rappresenta un tassello fondamentale del
Sistema Moda italiano, quali alternative alla quotazione o alla cessione al Gruppo sono in grado di
offrire gli intermediari finanziari per supportare la crescita delle nostre imprese?
Anche a tal proposito lo schema logico della trattazione è il medesimo: sarà definito il Private
Equity, saranno distinti i diversi comparti di attività che in esso rientrano, e saranno illustrati i
vantaggi e gli svantaggi rispetto all’alternativa della cessione.
A supporto di quanto descritto sarà anche in tale sede riportato un caso concreto: quello del Fondo
Camelot, che è stato fondato nel 2005 da un gruppo di ex-manager di importanti società di
consulenza, ed è interamente dedicato a fornire supporto finanziario e consulenziale a piccole e
medie imprese dei settori Moda e Lusso; con due ristrutturazioni di successo in soli due anni di
attività, ed un team di professionisti specializzati nell’advisory finanziario per stimolare la crescita
delle imprese, il Fondo Camelot fornisce un preziosissimo esempio di come l’alleanza tra impresa
ed intermediari finanziari può avere conseguenze determinanti sulla crescita e sullo sviluppo
futuro, in un paese dove, nella maggior parte dei casi, la competitività internazionale delle aziende
è pesantemente ostacolata dalla loro piccola dimensione.
Il quinto capitolo è, infine, interamente dedicato all’analisi di un’impresa di Moda di piccole
dimensioni, a totale gestione familiare: l’azienda di Marella Ferrera.
Con l’obiettivo di illustrare come gli aspetti più teorici della proprietà familiare e della crescita
trovano un riscontro, con tutte le qualità e le difficoltà precedentemente argomentate, in una realtà
10
concreta di piccole dimensioni come quella dell’atelier di Marella Ferrera, il caso si colloca in una
posizione ideale di sintesi di quanto è stato precedentemente affermato, e fornisce un contributo
ulteriore sul tema della ricerca.
Cosa ha condotto, dunque, la scelta di Marella Ferrera?
Primo fra tutti, la sua rappresentatività nel panorama delle imprese italiane di Moda: le dimensioni
piccole, la proprietà familiare, la strategia interamente influenzata dalle decisioni dei due
proprietari, Marella e suo marito.
L’azienda, in particolare, focalizzata sulla produzione di abiti di Alta Moda, aveva compiuto fin dal
2000 i primi passi verso la managerializzazione e l’aumento dimensionale con la decisione di
cominciare a produrre prét-à-porter, e lo sfruttamento dello strumento del licensing come mezzo
necessario per agevolare il passaggio dalla produzione sartoriale a quella industriale; direzione
che, come vedremo, è stata poi bloccata da una serie di esperienze negative con le realtà
industriali con cui Marella si è trovata ad interagire: nulla meglio che un’esperienza del genere può
dimostrare quanto difficoltosa sia la crescita per tali imprese, quanto facilmente essa possa
arrestarsi alle prime, talvolta inevitabili, criticità.
Ma il caso Marella Ferrera fornisce, tuttavia, un ben più ampio contributo in tema di imprese
familiari di Moda: esso illustra, infatti, quanti significati diversi possa assumere la parola crescita
per tali imprese; se Marella Ferrera rimane, tuttoggi, un’impresa familiare con venti dipendenti, sì
da essere classificata come “piccola” da qualsiasi modello teorico, il contributo che essa da alla
crescita del Sistema, quello nazionale e, più in particolare, quello della realtà in cui si colloca, la
Sicilia, va ben oltre quanto non sia possibile cogliere da modelli basati su cifre finanziarie.
La stilista rappresenta, innanzitutto, come ha recentemente commentato una giornalista13, una
delle poche artiste sulla scena europea che riesce ancora a proporre con successo abiti di alta
moda.
A dispetto del tragico momento che stanno vivendo le maison della haute couture francese, e in
contrasto con la diffusa convinzione circa l’imminente morte dell’alta moda, c’è ancora qualcuno
che, senza rompere con il passato, propone un concetto moderno di lusso nell’abbigliamento,
offrendo quindi un raro esempio di riuscita evoluzione stilistica.
Ma la Moda di Marella, come vedremo, va oltre la semplice interpretazione di temi estetici per
realizzare capi di indiscusso valore artistico: con l’esaltazione costante, nell’identità stilistica ed in
quella d’immagine, del genius loci siciliano, con la realizzazione di abiti che sono stati spesso
oggetto di mostre itineranti in quanto altamente rappresentativi della cultura e della storia del
territorio natale, Marella è stata più volte proclamata ambasciatrice della Sicilia nel mondo.
Le sue esperienze interdisciplinari, che uniscono i contributi di Arte, Moda, teatro e cultura, per dar
luogo a capolavori intrisi di valore emozionale, offrono una nuova prospettiva per analizzare i temi
della diversificazione e della crescita, attraverso lenti che esulano da quelle tradizionalmente
13 Maria Luisa Tregua: “Stilisti di casa nostra”, in : Il quotidiano di Sicilia, 05 Marzo 2006.
11
utilizzate, e pongono inevitabilmente la domanda: cosa significa crescere per imprese,e, potremmo
dire, per imprenditori del genere?
Tali aspetti, insieme a tutti quelli di cui si è precedentemente discusso, rappresentano il substratum
grazie al quale si potrà fornire risposta alla domanda di ricerca: la proprietà familiare rappresenta
ancora un motore di crescita per le imprese italiane di Moda?
La risposta, del tutto personale, sarà fornita nelle Conclusioni.
La finalità più ampia del lavoro è tuttavia quella di portare all’attenzione alcune questioni, teoriche
ed empiriche, sulla base delle quali i lettori possano poi rispondere, ciascuno, a proprio modo.
Un ‘ultima nota va spesa sulla metodologia adottata per portare a compimento la ricerca.
La scelta che è stata operata ha previsto infatti di non concentrare i casi empirici al termine del
lavoro, ma di riportarli, ciascuno, a conclusione dell’argomento cui meglio potessero essere
associati: in tal senso, l’analisi del Mariella Burani Fashion Group si focalizza sulla strategia di
acquisizione e sui vantaggi della quotazione, ed è riportato nel corrispondente capitolo, così come
l’analisi dell’attività del Fondo Camelot arricchisce gli spunti teorici sul Private Equity.
Il caso Marella Ferrera mostra, invece, l’applicazione concreta di tutto quanto è stato affermato a
proposito dell’unità fondamentale d’analisi del lavoro, ossia l’impresa di Moda a proprietà familiare,
e si colloca al termine della ricerca in quanto contributo finale, necessario, per rispondere con
maggiore consapevolezza alla domanda-chiave.
La trattazione degli aspetti teorici relativi agli argomenti di ciascun capitolo deriva dunque
dall’interpretazione critica dei modelli manageriali e delle teorie rintracciabili nella letteratura
nazionale ed internazionale; i tre casi empirici sono stati invece elaborati sulla base di interviste
dirette: alla Dott.sa Daniela Zari, responsabile della comunicazione corporate del Mariella Burani
Fashion Group, al Dott. Massimiliano Sandri, responsabile del Private Equity del Fondo Camelot,
nonché a Marella Ferrera; è anche a queste persone che va, dunque, un doveroso ringraziamento
per il valore aggiunto che hanno reso possibile in tale lavoro.