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Stimolati dall’esigenza di esaminare le variabili e le dinamiche insite nel fenomeno
turistico-culturale, ci pare opportuno richiamare alcuni aspetti centrali, focalizzati sulle
dottrine economiche e sui comportamenti in tema di consumi e di domanda turistica.
L’esame teorico svolto, diviene l’essenziale substrato su cui muoverci per meglio
comprendere ed analizzare la realtà che ci circonda. Proprio con riguardo a questo
obiettivo, scegliamo la provincia di Vicenza come caso specifico di studio, anche
considerando le potenziali doti imprenditoriali locali che troverebbero un soddisfacente
sbocco professionale nell’ambito di un sistema di beni culturali, consistenti sia per
quantità sia per qualità, e peraltro ignorato e poco rivalutato dalle autorità vicentine.
Vicenza, «città del Palladio» e patrimonio mondiale dell’umanità tutelato
dall’UNESCO, è a nostro avviso, un efficace disegno della realtà odierna, sottoposta
alla forte dicotomia tra settore terziario e secondario, ma rappresenta anche una sfida
per chi, come noi, crede nella cultura come elemento di crescita prima sociale e poi
economica.
1
CAPITOLO I
I BENI CULTURALI
1.1 ASPETTI INTRODUTTIVI
Il connubio tra economia, arte e cultura, compare già verso la metà del 1800 in
un’opera di Ruskin (
1
) ma, in realtà, sull’argomento, permane un forte scetticismo
negli ambienti accademici fino agli anni Sessanta del secolo scorso. In questi anni,
uno studio di Baumol e Bowen (
2
) sul problema dell’inarrestabile crescita dei costi di
produzione degli spettacoli dal vivo, riporta sul tavolo di economisti e studiosi le
complesse dinamiche dei mercati e dei mondi dell’arte. Il susseguirsi di interventi,
conferenze e pubblicazioni in materia, segna l’affermarsi di una nuova branca
dell’economia moderna: l’economia dell’arte.
La delimitazione delle competenze e del raggio d’azione di tale comparto non è
immediata, a causa, in particolar modo, delle difficoltà che emergono nel voler
definire i beni artistici e culturali, oggetti di studio degli Art Economists. Se, infatti,
sosteniamo che
(
1
) Cfr. Ruskin (1857).
(
2
) Il «Dilemma» qui richiamato, che prende anche il nome di Baumol’s desease, si riferisce alla
“malattia dei costi” di cui è vittima il settore dello spettacolo dal vivo, che si manifesta con una «crescita
inarrestabile del costo per rappresentazione e forbice crescente tra costo unitario di tale comparto e quello
manifatturiero» (Santagata, 1998, p. 169). L’analisi di Baumol e Bowen (1966) parte dal presupposto che
l’economia sia costituita da settori progressivi (con produttività crescente) e stagnanti (con produttività
marginale uguale a zero) e che, nei paesi avanzati, l’impegno politico e la contrattazione collettiva
favoriscano la crescita degli stipendi di tutti i lavoratori. Il settore progressivo, infatti, forte di una
crescente produttività, può aumentare i salari mantenendo costante il Clup (Costo del lavoro per unità di
prodotto), ma questo si riflette sul settore stagnante in cui l’incremento del costo del lavoro si trasmette
negativamente sul Clup stesso.
2
«la chiave interpretativa per lo studio dei diversi mondi dello scambio di opere d’arte sia la
loro doppia natura, allo stesso tempo simbolica e mercantile» (Santagata, 1998),
allora, sorge il problema di dover separare queste due caratteristiche essenziali, e
apparentemente inscindibili, per poterne esaminare quasi esclusivamente la seconda.
I beni artistici, definiti semiofori (
3
), sono contemporaneamente segno e oggetto,
simbolo e merce (
4
). La prevalenza di uno o dell’altro elemento duale, determina il
valore di scambio del bene stesso e, quindi, la possibilità di divenire o meno oggetto
di negoziazione nel mercato. Più un bene è simbolico, infatti, meno è utile, e, come
tale non ha prezzo finché non avviene un cambiamento, culturale o storico, che ne
modifichi l’equilibrio tra l’essere segno e l’essere oggetto.
La semioforicità è propria anche dei beni culturali, di cui ci occupiamo in questa
sede. La loro nozione è maturata recentemente nella civiltà occidentale ed è ancora in
evoluzione, nel tentativo di ricondurla più strettamente alle diverse problematiche ad
essa correlate.
L’odierna accezione è fortemente connessa, in primo luogo, al concetto di cultura,
comprensivo di tutte le manifestazioni proprie dell’uomo; inoltre, il bene culturale
definito dalla Commissione Franceschini, nel 1967, come tutto ciò che costituisce
«testimonianza materiale avente valore di civiltà»,
si riempie di un valore intrinseco che supera ogni aspetto economico a vantaggio di
quelli sociologici e, per così dire, affettivi della comunità dalla quale nasce.
(
3
) Dal greco semeîon «segno» e dal tema di phéro «portare».
(
4
) Si veda a proposito Santagata, 1998, p. 21 e segg..
3
La società contemporanea, infatti, riconosce nel bene culturale l’immagine
concreta della propria identità storica e l’asse portante della sua continuità e
sopravvivenza attraverso il tempo. È a partire da questo presupposto che la realtà dei
beni culturali si intreccia con quella economica, giuridica e politica dei giorni nostri,
divenendo oggetto di numerose questioni, che vanno sicuramente oltre quella
artistica. Tra le altre, si distinguono quelle di gestione e di tutela, e ancora quelle di
promozione, conservazione e valorizzazione. Da qui nasce l’interesse nei confronti di
un immenso patrimonio artistico che pervade la nostra penisola in ogni dove.
L’attenzione verso i beni culturali compare nel nostro sistema non solo in ambito
politico, come a prima vista può sembrare, ma soprattutto dalla linea di pensiero
divulgata, supportata e finanziata da grandi multinazionali, da enti e fondazioni
pubbliche e private. Si crea così un quadro di spiccato coinvolgimento ad ogni livello.
I beni culturali non sono più solo un patrimonio da conservare, ma sono considerati
come una fonte incommensurabile di sviluppo e di crescita, in un’ottica sia sociale sia
economica. L’interesse comune, tra l’altro, porta progressivamente ad un'intensa
cooperazione tra istituzioni e soggetti economici prima molto lontani tra loro. Così
multinazionali quali la Philip Morris, l’ENEL, la Pirelli, o fondazioni illustri come la
Peggy Guggenheim, solo per citarne alcune, si trovano fianco a fianco con le
Università, la Chiesa e lo Stato, lavorando con l’ammirevole obiettivo di fare e
diffondere cultura (
5
).
(
5
) Nel 2000 solo le 89 fondazioni bancarie presenti sul territorio nazionale, erogano 180 milioni di
euro tramite 6.500 interventi per il solo settore della cultura. Il 98,4% dei fondi è destinato al Centro-
Nord, il restante 1,6% al Sud Italia. Nonostante le cifre siano cospicue, il Governo cerca di incrementare i
finanziamenti alla cultura da parte dei privati con la Finanziaria del 2000 (Legge n. 340/2000).
L’applicazione dell’art. 38 della stessa, che consente la totale deducibilità dei redditi d’impresa per
erogazioni liberali nei settori dei beni culturali e dello spettacolo, non sta dando i risultati sperati: nel
2000 le richieste di deduzione IRPEG si attestano attorno ai 17 milioni di euro, contro i 139 previsti dal
Governo (Cfr. Trupiano, 2002). L’eccessiva burocrazia e le numerose clausole rendono di fatto limitato
l’utilizzo di tali incentivi fiscali.
4
La rilevanza che il sistema dei beni culturali acquisisce specificatamente in Italia,
trova le sue basi su presupposti profondamente diversi rispetto a quelli degli altri
Paesi europei e, ancor di più, rispetto a quelli statunitensi (
6
). Le caratteristiche
peculiari del nostro patrimonio artistico e culturale, infatti, sono l’ubiquità e la
capillarità di diffusione dei beni. Mentre l’assetto del patrimonio culturale, comune a
molte nazioni occidentali, è basato soprattutto su imponenti riserve museali e su
relativamente pochi grandi complessi monumentali, l’Italia vanta un insieme di
insediamenti e di edifici storici sparso in tutto il territorio. Simile paesaggio
costituisce, senza dubbio, un forte potenziale di sviluppo per l’economia locale e
nazionale.
La diffusione e la consistenza del patrimonio culturale italiano è ben evidenziato
da una recente indagine condotta da Primicerio, ripresa e commentata da Emiliani
(1998, p.160), la quale accerta 2.100 fra siti e monumenti archeologici, 3.554 musei
esistenti in Italia, di cui più di 1.500 civici e quindi, fra comunali e provinciali, una
«galassia straordinaria». Inoltre,
«le chiese rappresentano una componente fondamentale e strategica del patrimonio storico-
artistico italiano che si sostanzia in circa 100.000 fra chiese e cappelle, 1.500 monasteri,
3.000 tra palazzi vescovili, santuari, sacrimonti, ecc., in 5.500 biblioteche, in 28.000 archivi
parrocchiali, più quelli vescovili, di seminari e cattedrali (altri 1.500) o di confraternite
(1.200). Si calcola che tuttora, nonostante i musei siano più di 3.500, il 75-80% del
patrimonio storico-artistico nazionale sia ancora in chiese, conventi, monasteri, santuari, ecc.
[...] e ancora, ci sono 40.00 fra rocche e castelli con arredi, quadri, affreschi, circa 4.500
dimore e ville storiche con alti patrimoni e migliaia di borghi e centri storici bellissimi»
(Emiliani, 1998, pp.160-161).
(
6
) Un confronto diretto viene affrontato da Settis, direttore del Getty Research Institute for the
History of Art and Humanities di Los Angeles, in un suo intervento al Convegno del «Premio Philip
Morris per il Marketing» dal tema: La gestione dei beni artistici e culturali nell’ottica del mercato e
tenutosi a Roma il 14 maggio 1998. Nel discorso, egli pone l’accento sulle diversità esistenti tra il sistema
dei beni culturali italiani e stranieri, in particolare statunitensi, rilevando come il background culturale
dell’Italia crei l’impossibilità di applicare il meccanismo di gestione proprio degli Usa. Le logiche di
globalizzazione e di privatizzazione presenti nei modelli di amministrazione d’oltre oceano non sono
adottabili nel nostro Paese in modo immediato. Settis sostiene, infatti, l’esistenza di un’unicità italiana da
coltivare e rafforzare.
5
A partire da questi sintetici dati, si può ben comprendere la vastità di problematiche e
di interessi connessi ai beni culturali italiani. La questione è oggigiorno ancora più
complessa che in passato a causa dell’aumento delle parti in causa e dei diversi
obiettivi da raggiungere; inoltre, l’ottica di mercato e la progressiva globalizzazione
creano non pochi squilibri sia a livello centrale che locale e rendono ancora più
difficoltoso intraprendere la via della massima cooperazione.
6
1.2 IL PROCESSO TERMINOLOGICO DEI BENI CULTURALI
I beni culturali sono frequentemente definiti beni pubblici impuri o club goods (
7
).
Diversamente dai beni pubblici puri (
8
), per i club goods è possibile il verificarsi di
fenomeni di rivalità e di escludibilità. Dal punto di vista del mercato queste
caratteristiche costituiscono un problema piuttosto rilevante. I beni pubblici, infatti,
hanno un costo opportunità marginale pari a zero, di conseguenza, il prezzo per la loro
fruizione dovrebbe essere nullo. Il costo di produzione, però, è positivo: nessuna
impresa, quindi, avrà interesse a produrre per poi offrire al mercato gratuitamente.
Sussisterebbe, così, una situazione di inefficienza, in quanto tali beni non verrebbero
forniti, privando la collettività dei vantaggi derivanti dalla loro fruizione; in alternativa
si dovrebbe consentire al produttore di vendere ad un prezzo positivo, togliendo ad
alcuni individui la possibilità di utilizzare un bene che, invece, in quanto pubblico, non
dovrebbe essere escludibile.
(
7
) La teoria dei club, sviluppata da Buchanan (1965), «sfrutta» l’analogia tra un club e un governo
locale, per spiegare, da un punto di vista economico, il funzionamento di istituzioni, formate da gruppi di
individui accomunati dalle stesse preferenze per particolari attività, sportive, culturali o ricreative, le quali
mettono a disposizione dei membri un certo insieme di servizi.
Uno dei problemi principali consiste nella determinazione del livello ottimale della dimensione del
governo locale (o club), tenendo presente che questa dipende da due variabili: la popolazione della
comunità e la quantità di servizio prodotta. Una volta fissato il livello di attività e per date caratteristiche
della funzione di produzione del servizio, il costo pro capite di quest’ultimo risulta tanto più basso
quanto maggiore è il numero dei cittadini della comunità. D’altra parte all’aumentare della popolazione
possono manifestarsi fenomeni di congestione che creano disutilità.
La teoria, quindi, sostiene che per definire la dimensione ottimale di un ente locale è necessario
determinare simultaneamente sia il livello della popolazione sia di attività, realizzando un compromesso
tra di essi.
(
8
) Cfr. nota 7.
7
Se, tuttavia, si accettasse quest’ultima soluzione, non mancherebbero altri ostacoli
nel raggiungere l’ottimo paretiano (
9
). Il prezzo del bene, infatti, dovrebbe
corrispondere alla valutazione marginale di ciascun individuo (Totola, 2000, p.140 e
segg.), ma i soggetti tendono a comportarsi da free riders, dichiarando valori inferiori a
quelli reali. In questo modo, il consumatore consegue un’utilità marginale superiore al
costo marginale. La presenza di situazioni di asimmetria informativa (
10
), quindi,
provoca delle distorsioni tali da generare inevitabilmente fallimenti del mercato (
11
).
Per i club goods, la rilevanza dei free riders risulta ridimensionata dall’osservanza,
da parte dei soggetti, di norme basilari di comportamento radicate negli appartenenti
alla società; nonostante la minor diffusione di comportamenti legati al moral hazard da
parte dei consumatori, il fenomeno, tuttavia, non risulta del tutto eliminabile.
(
9
) L’ottimo paretiano viene individuato nel punto di equilibrio ottimale in termini di benessere
sociale; qualsiasi discostamento da tale situazione comporterebbe un peggioramento delle condizioni di
almeno uno dei soggetti in esame. Il punto di ottimo viene determinato considerando gli effetti, provocati
dal consumo, sulla collettività. Le variabili esaminate sono di tipo economico ma anche sociale dove,
quest’ultimo viene espresso sotto forma di benessere attribuito al soggetto consumatore e al resto degli
individui. La condizione pareto efficiente è quella in cui tutti gli individui godono del massimo benessere
relativo, rapportato cioè, a quello collettivo.
(
10
) Condizioni di asimmetria informativa evidenziano la presenza nel mercato di due soggetti in
possesso di un diverso grado informativo: di norma, l’agente (A) possiede maggiori informazioni private
rispetto al principale (P) e fa gravare su quest’ultimo i danni dell’asimmetria. Il fenomeno comporta
fallimenti di mercato del tipo adverse selection o moral hazard, di cui i mercati assicurativi sono un caso
esemplare. Il primo si riferisce ad una situazione di asimmetria informativa in cui P non è in grado di
conoscere alcune caratteristiche di A. Un esempio di questo genere è quello riguardante i contratti
assicurativi nel ramo vita, in cui la caratteristica qualificativa dell’agente potrebbe essere il suo stato di
salute. Il moral hazard invece può verificarsi quando la presenza di asimmetria genera una situazione in
cui P non ha il controllo completo di un’azione di A, connessa alla prestazione contrattuale. Il riferimento
è alle assicurazioni contro il furto o l’incendio; il moral hazard, invece, potrebbe essere rappresentato
dalla sollecitudine che A mette nell’evitare che si verifichi l’evento assicurato.
(
11
) Il mercato fallisce quando il punto di equilibrio tra domanda e offerta non coincide con l’ottimo
paretiano. In termini generali, le cause di fallimento possono essere ricondotte a tre categorie: difficoltà
per le parti che operano nel mercato, di trovare un accordo per uno scambio, nonostante fosse
potenzialmente vantaggioso (es. situazioni di monopolio); mancanza di controllo pieno sui beni o sulle
risorse e sui modi di utilizzarle (es. presenza di esternalità); assenza o incompletezza delle informazioni
necessarie allo scambio, o presenza di costi per ottenerle (es. esistenza di asimmetrie informative).