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CAPITOLO 1
LA MONTAGNA ALPINA NELLA STORIA
Il paesaggio montano ha subito più di qualsiasi altro ambiente fisico e geografico
evoluzioni e trasformazioni radicali nel corso della storia dell’umanità. Questi
cambiamenti hanno riguardato sia l’idea di montagna nell’immaginario comune, sia
le varie tipologie di sfruttamento del suo territorio da parte degli abitanti.
Nonostante la montagna sia un luogo impervio, difficile da raggiungere, dalle
condizioni climatiche estreme nella stagione invernale, ci sono testimonianze che
attestano la presenza umana sull’arco alpino risalenti al mesolitico e al neolitico.
Nel 1985 nel pianoro di Mondeval, nell’alto Cadore, a circa 2150 metri di altitudine
è stata rinvenuta una sepoltura risalente a circa 7500 anni fa. Si tratta dello scheletro
di un cacciatore ben conservato e corredato da una grande quantità di oggetti in
pietra scheggiata, utensili e ornamenti in osso e denti di cervo. Probabilmente
l’inumato praticava il nomadismo stagionale, frequentando i territori di alta
montagna d’estate per procacciarsi la selvaggina e riscendendo nei ricoveri del
fondovalle durante l’inverno. Il sito archeologico del Mondeval rappresenta ad oggi
l’unico esempio di sepoltura mesolitica situata ad alta quota.
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Di portata molto più ampia è stata la notizia del ritrovamento nel 1991 da parte di
una coppia di escursionisti tedeschi di una mummia sulle Alpi Venoste, in Alto
Adige, al confine con l’Austria. Scoperta ad oltre 3000 metri di altitudine nel
ghiacciaio del Similaun è stata all’inizio contesa tra i due stati, successivamente
considerata rinvenuta completamente in territorio italiano e quindi trasportata a
Bolzano nel Museo Archeologico dell’Alto Adige. La mummia ha mantenuto però
il nome “Oetzi”, che deriva dal nome della valle austriaca, l’Oetztal, che ne
rivendicava la paternità.
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Bortolo De Vido, L’uomo di Mondeval. in Dolomiti.org 2006
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Il corpo, perfettamente conservatosi grazie alle particolari condizioni chimico-
fisiche all’interno del ghiacciaio, risale ad un’epoca compresa tra il 3300 e il 3200
a.C. Anche se le ipotesi sono molteplici, si pensa che Oetzi sia stato un pastore che
portava i suoi animali al pascolo durante gli spostamenti stagionali.
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Furono quindi
motivazioni di carattere puramente economico e di sussistenza, come la caccia e
l’allevamento, che spinsero i primi uomini a risalire dalle pianure e dai fondovalle
verso le quote più elevate.
Numerose popolazioni barbariche si stabilirono nei territori montani dell’arco
Alpino e le ripetute migrazioni di queste genti contribuirono al mescolarsi di molte
etnie diverse.
Popolazioni nomadi provenienti dalla Mesopotamia puntarono lungo due direttrici:
una verso il mare della Grecia e dell’Asia Minore, e l’altra verso nord raggiungendo
l’Europa centrale. Queste genti venivano chiamate dai Greci “Oi Keltoi”, tradotto
con il nome di Celti.
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Fin dal XIII secolo a.C. si era sviluppata nel cuore dell’Europa la “cultura di
Hallstatt” dal nome di un importante sito archeologico austriaco nelle vicinanze di
Salisburgo. Questa civiltà fornì le basi per la cultura celtica classica che andò
espandendosi in tutto il continente dal V secolo a.C. diversificandosi in molteplici
tribù. La cultura di Hallstatt era dominata da una classe di guerrieri che si dedicava
all’agricoltura e all’estrazione di salgemma nelle miniere limitrofe. Sono attestati
numerosi scambi commerciali con le colonie greche dell’Europa occidentale, con
gli Sciti e gli Etruschi.
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La zona Alpina divenne dunque territorio dove si stabilirono molte tribù di Celti,
chiuse e strette a tenaglia a nord dai Germani e a sud dai Romani.
L’espansione romana in queste aree era spesso preceduta da accordi di tipo
federativo con le popolazioni locali. Lo scopo ultimo era quello di controllare i
transiti, fondare colonie strategiche e difendere il territorio dalle incursioni
barbariche provenienti da nord.
2
Andrea Bettini, Nei vestiti il mistero di Oetzi ”era un pastore”.”magari un capo”. Scienza e tecnologia, in
repubblica.it, 2008
3
Alfio Englaro. Paluzza in Carnia, Chei di Somaville, 2002
4
Peter Berresford Ellis, L’impero dei Celti, Il Mulino, Bologna, 1997
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Tito Livio nel racconto del passaggio di Annibale sulle Alpi descriveva quei
territori come “ripidi e stretti sentieri di terribili pareti di roccia”, “rozze capanne in
bilico sulle rupi”, abitati da “uomini barbuti e irsuti, esseri animati e inanimati
irrigiditi nel ghiaccio”, il tutto “più orrendo alla vista che nei racconti”.
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Durante tutto il periodo imperiale la zona Alpina fu una fondamentale area
commerciale e i propri valichi erano buone vie di comunicazione, consolidate dal
potenziamento dell’apparato stradale romano, che collegavano la penisola con il
resto d’Europa.
All’inizio del V secolo d.C. quasi 600 anni dopo l’impresa di Annibale, fu Alarico,
il re dei Visigoti, a valicare le Alpi per dirigersi verso il cuore dell’impero romano
d’Occidente giungendo nel 410 a Roma. Crollava così quel sistema di sicurezza
italico che era costituito dalla catena montuosa alpina che costituiva una barriera
naturale a garanzia della pretesa perennità politico-ideologica di Roma. L’impianto
teorico della città eterna, per i romani, aveva individuato nelle Alpi una soglia limite
oltre la quale diventava sacrilegio spingersi avendo intenzioni ostili contro l’impero.
Le esigenze politiche, strategiche e commerciali della Roma imperiale non potevano
prescinderne l’attraversamento e il controllo dell’arco alpino che costituiva la prima
protezione verso nord dagli attacchi esterni. Nonostante la frequentazione di queste
zone, la diffidenza, il sentimento di timore verso la natura non modificata dall’uomo
e la valutazione dei disagi e i pericoli ambientali continuavano a restare ben radicate
nell’immaginario popolare.
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Nel mondo romano era inoltre presente una convinzione: ovvero la stretta
connessione tra i fattori climatici e i tratti etnici. La scarsa antropizzazione dei
territori montani, la ferocia dei propri abitanti, la loro struttura fisica e il loro
carattere bellicoso venivano letti come conseguenza dell’asprezza dei luoghi in cui
vivevano, della durezza del clima e della povertà dei suoli.
Questo pensiero rispecchiava il concetto di determinismo ambientale, per il quale
mano a mano che ci si allontanava dal “centro del mondo” ovvero Roma, sia verso
5
Tito Livio, Ab Urbe condita, passim
6
Sergio Roda, Introduzione, Gli antichi e la montagna, Celid, Torino, 2001
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nord che verso sud, si incontravano prima civiltà soltanto agricole, poi nomadi e per
finire popolazioni che vivevano in uno stato selvaggio.
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La qualità della vita era determinata sulla base di un modello che poneva a livello
del mare le realizzazioni più compiute di civiltà: in questa ottica le montagne
rendevano impossibili condizioni di vita decorose impedendo la creazione di presidi
urbani e determinando l’inciviltà dei suoi abitanti.
La natura e i monti venivano anche messi in corrispondenza con il divino e le
difficoltà che si riscontravano nel raggiungere certi luoghi, suprando prove fisiche
difficili, manifestavano ancora di più la presenza del sovrannaturale. Per vincere
questo timore del divino e superare l’orrore che le montagne evocavano negli
uomini del tempo, non vi era di meglio che popolarle di entità mistiche, superiori e
provvidenti.
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Dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d.C. le Alpi smisero di essere
frequentate come vie di passaggio a causa della contrazione degli scambi
commerciali che vide la penisola italiana soccombere a favore della parte orientale
dell’Impero .
Fu soltanto dal XIII secolo che le aree alpine tornarono ad essere centrali nei traffici
tra l’Italia e il centro Europa e ad essere attraversate per necessità dai viandanti.
Sulla sommità dei passi alpini si diffusero conventi religiosi e ospizi dei monaci, gli
unici rifugi per i viaggiatori che avevano esigenza di interrompere il proprio
cammino durante la notte.
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Nel Medioevo e fino a tutto il ‘500 la montagna era vista ancora come un luogo
selvaggio, spaventoso, popolato da mostri, streghe e demoni. Mercanti, pellegrini,
soldati ed artisti oltrepassavano i valichi lasciandosi alle spalle rapidamente quei
luoghi così cupi e per niente ospitali.
Con il Rinascimento italiano la natura e la montagna iniziarono ad essere fonti di
documentazione scientifica. Il naturalista svizzero Corrado Gessner si accinse a
scalare la cima alpina del Pilatus, nel 1555, per definirne con precisione la
morfologia e fisionomia. Nel 1574 il parroco zurighese Josias Simler scrisse un
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Pietro Li Causi, Le immagini dell’altro a Roma, Corrao, Trapani, 2008
8
Silvia Giorcelli Bersani, Gli antichi e la montagna, Celid, Torino, 2001
9
Patrizia Battilani, Vacanze di pochi vacanze di tutti, Il Mulino, Bologna, 2001
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prontuario di indicazioni e consigli pratici per coloro che fossero interessati all’alta
montagna sotto il profilo escursionistico. Queste iniziative erano tuttavia ancora
sporadiche e considerate all’avanguardia per quel periodo.
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L’immagine negativa della montagna continuò ad essere radicata nell’uomo per
tutto il 1600, dominato dalla perfezione delle forme del classicismo, che si
opponeva diametralmente alla visione caotica e informe che i paesaggi alpini
suscitavano.
Un punto di svolta si ebbe nel XVIII secolo, e si incominciò a guardare le montagne
con interessi nuovi. La nascita degli Stati moderni portò a considerare le Alpi e i
Pirenei come frontiere naturali. L’interesse militare fu accompagnato dall’ausilio di
geografi, cartografi e ingegnieri che permisero le realizzazioni di strade e
fortificazioni favorendo dei primi timidi avvicinamenti verso le cime.
Il cambiamento radicale nella cultura europea si ebbe in concomitanza della crisi
del classicismo e quindi l’affermarsi dell’illuminismo e successivamente del
romanticismo.
La rivoluzione scientifica culminata nel XVIII secolo trasformò le montagne in un
vero e proprio laboratorio a cielo aperto, un luogo adatto per gli esperimenti, le
osservazioni e lo studio della natura.
In questi anni mutò anche l’immagine degli abitanti delle zone montane da sempre
descritti con sfumature negative sia sul piano morale che fisico.
Il mito del “buon selvaggio” predicato da Jean Jacques Rousseau
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mirava ad
esaltare la semplicità dei modi, l’esistenza pura e non corrotta dell’uomo che viveva
a più stretto contatto con la natura. La diseguaglianza tra gli uomini nacque solo nel
momento in cui l’uomo iniziò ad allontanarsi dalla sua condizione naturale per
fondare la società civile.
Il culto della natura venne approfondito da Rousseau in Giulia o la Nuova Eloisa; in
quest’opera aveva messo in risalto la filosofia della natura, fornendo anche una
10
http://www.ariolocci.it/?p=630#more-630
11
Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, 1755,
passim
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nuova immagine della montagna, dove l’aria pura e rarefatta delle cime rafforzava
le sensazioni, acuiva i sensi e metteva a contatto con l’immenso.
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La visione romantica, l’amore per il sublime e il pittoresco, il superamento della
secolare immagine negativa dei monti, la voglia di fuggire dalle città e la rinata
sensibilità per la natura modificarono le vie consolidate del Grand Tour europeo.
Adesso le Alpi non rappresentavano più soltanto un ostacolo da dover superare
velocemente per raggiungere le mete prescelte nella penisola, ma diventarono un
fattore di attrazione per i ricchi signori, soprattutto inglesi e nord europei, che
intraprendevano questo lungo viaggio attraverso il vecchio continente.
Andare in montagna divenne una sorta di preghiera, un viaggio sacro e purificante.
Le montagne dei viaggiatori romantici entrarono nella letteratura e nell’arte del
tempo. Dipinti, romanzi e articoli riguardanti queste zone ebbero l’importante ruolo
di divulgare e promuovere il nascente turismo montano.
Soprattutto le Alpi si trasformarono in una meta di viaggio pittoresco, una ricerca
del selvaggio e una prima forma moderna di evasione da parte dei cittadini dal loro
habitat comune.
Questi primi ricchi turisti determinarono il fondamentale processo di
modernizzazione dell’economia dei territori alpini, storicamente ancorati alle
attività agricole e pastorali.
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Asterio Savelli, Sociologia del turismo, Franco Angeli, Milano, 1989