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INTRODUZIONE
L’esperienza dei soldati che ritornano dalla guerra è universale. Di fatto da quando la guerra è diventata
una pratica diffusa tra gli esseri umani, ogni società ha dovuto fronteggiare il difficile compito di
reintegrare i suoi “guerrieri” all’interno della comunità (Shay 2002).
Nel passato, il maggior problema associato al ritorno dei reduci era costituito dalle menomazioni fisiche
causate dalle ferite riportate in guerra che compromettevano in modo irreversibile la loro capacità di
riprendere una vita normale. I reduci invalidi erano spesso costretti all’accattonaggio, a vivere nei ricoveri
di mendicità, nei monasteri oppure a rubare per poter sopravvivere (Gerber 2000).
Due delle prime istituzioni residenziali per i reduci disabili: “L’Hotel des Invalides” in Francia (1633) e il
“Chelsea Hospital” in Gran Bretagna (1685) furono costruiti con l’intento principale di togliere queste
persone dalla strada poiché si riteneva che rappresentassero un pericolo per la sicurezza pubblica. Si
cercava inoltre di tener nascosto il più possibile il terribile spettacolo dei loro corpi deformi e straziati dalle
ferite (Gerber 2000).
Alcuni racconti scritti alla fine della prima e della seconda guerra mondiale come ad esempio “La via del
ritorno” di Erich Maria Remarque oppure “That winter” di Merle Miller descrivevano già da allora le
sofferenze fisiche e mentali dei reduci di guerra, rappresentandoli come personalità instabili, con molti
problemi psichici, potenzialmente violenti e candidati con ogni probabilità al suicidio o all’omicidio (Gerber
2000).
Risulta evidente che le sofferenze dovute al trauma psicologico della guerra erano già presenti nel passato
ma all’epoca venivano considerate come una delle tante manifestazioni di disagio prodotte
dall’esperienza bellica insieme ad una serie infinita di altri problemi di tipo fisico causati dalla
deprivazione, dalle ferite e dalle malattie.
Dal ventesimo secolo le condizioni di salute delle truppe sono notevolmente migliorate così come le
condizioni igieniche e l’alimentazione; i soldati sono molto meglio equipaggiati, l’assistenza sanitaria è
garantita sia in patria che durante le missioni all’estero ed ora la guerra rappresenta sempre meno un
pericolo per la salute fisica e sempre di più una minaccia per la salute mentale dei soldati.
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Questa nuova attenzione nei confronti dei traumi psicologici a cui sono esposti i soldati probabilmente è il
riflesso di una nuova e più ampia attenzione nei confronti del benessere psicologico considerato una parte
integrante del benessere generale di un individuo. La definizione di salute formulata dall’OMS nel 1948
come di “uno stato di completo benessere, fisico, mentale e sociale e non semplicemente di assenza di
malattia o infermità ” evidenzia il cambiamento nel modo in cui gli esseri umani percepiscono i concetti di
salute e malattia.
La sofferenza e il dolore, una volta considerati una condizione quasi inevitabile, sono ora diventati
inaccettabili. Nella definizione dell’OMS, il concetto di salute viene praticamente a coincidere con il
concetto di felicità. Per essere considerati in salute gli individui devono essere felici, produttivi e realizzati.
Se guardiamo alle guerre del passato, anche a quelle più recenti come la prima e la seconda guerra
mondiale, possiamo ipotizzare che i soldati che hanno combattuto in quel periodo sentissero meno
intensamente il divario tra le condizioni di vita nel mondo civile e le condizioni di vita durante la guerra
rispetto ai soldati contemporanei. Nel passato infatti le condizioni di vita della maggior parte della
popolazione erano comunque estremamente dure anche nella vita civile, molto più difficili rispetto a
quelle a cui siamo abituati ora. Per questo, oggi, la distanza tra la normale vita di qualsiasi civile e
l’esperienza di chi partecipa ad una guerra è ancora più profonda che nel passato.
Viviamo in una società contraddittoria in cui è imperativo essere sani, felici e al sicuro, dove possiamo
guardare le grandi tragedie che travolgono il mondo sullo schermo di una TV, dove grazie ai progressi della
medicina si possono tenere in vita persone orami ridotte ad uno stato vegetativo, dove è possibile
partorire neonati molto prematuri con buone speranze di vita, dove siamo disposti a pagare complicate
operazioni per guarire cani e gatti e contemporaneamente mandiamo ragazzi giovani e sani a rischiare la
loro vita a migliaia di kilometri di distanza da casa. E, ancora più sorprendentemente, ci sono ragazzi e
ragazze giovani e sani disposti a farlo.
Chi sono questi giovani? E perché hanno scelto il “Mestiere delle Armi” piuttosto che un’occupazione più
tranquilla vicino alla propria casa e alla propria famiglia? Che tipo di relazione esiste tra soldati e
popolazione civile? Come sono accolti o rifiutati quando ritornano da una zona di guerra riportando come
minimo “qualche graffio nella mente” (Marlowe 2001) e qualche volta profonde ferite fisiche o
psicologiche che hanno effetti indelebili nella loro vita? Quali sono i loro desideri, i problemi e le paure?
Che cosa sappiamo davvero di loro? Probabilmente non molto.
Con la fine della leva praticamente in ogni società occidentale, “fare il soldato” è diventata una scelta
personale, un contratto privato tra un cittadino e lo Stato, un servizio professionale in cambio di uno
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stipendio. Tutti i cittadini che non hanno voglia di uccidere o rischiare di essere uccisi possono stare
tranquilli e sicuri a casa loro. La guerra, per la maggior parte della popolazione, è soltanto qualcosa da
guardare alla TV, niente che possa influire sulla quotidianità.
Ci sono “quei ragazzi” solitamente i più poveri, i meno qualificati, quelli non abbastanza dotati per lo
studio, che adesso come allora sono disposti a combattere. Portare l’uniforme, gli anfibi e il fucile è stata
una loro scelta. L’hanno deciso loro e quindi è un loro problema (D.S Paulson, S. Krippner 2007)
Questa indifferenza e disaffezione crea una distanza emotiva tra i soldati e i civili che rende molto difficile
il loro reinserimento all’interno della comunità. In generale la gente comune non si preoccupa più di tanto
del destino di questi ragazzi pagati per uccidere ed essere uccisi. In fondo rappresentano qualcosa di
remoto, misterioso e oscuro. In qualche modo forse ancora pensiamo a loro come ai “cattivi ragazzi”,
cresciuti per strada, senza nessuna voglia di studiare e senza futuro eccetto forse la possibilità di “far
carriera” nel mondo criminale.
Se fare il soldato diventa un affare privato possiamo anche permetterci di non interessarci di ciò che
accade ai nostri militari, a chi torna da una guerra e delle loro sofferenze. Avrebbero dovuto sapere cosa
aspettarsi quando si sono offerti volontari. Avrebbero dovuto sapere che c’era un prezzo da pagare (D.S
Paulson, S. Krippner 2007).
E dopo tutto non ci sono molte possibilità di conoscerli davvero: il mondo militare è un’organizzazione
estremamente chiusa, se ne stanno sempre tra di loro all’interno delle loro basi distribuite qua e là sul
territorio e non stanno mai nello stesso posto per molto tempo. A meno di avere qualche amico o parente
nelle forze armate è molto probabile che non conosceremo mai molto della loro vita e delle ragioni per cui
hanno scelto di indossare la divisa.
Ci possono essere molte ragioni per cui si sceglie diventare soldati ma ciò che accomuna chi entra a far
parte del mondo militare è il fatto che tutti questi “individui” dopo l’iniziale periodo di addestramento
sono forgiati in un “corpo” unico, il loro lavoro diventa un modo di vivere, la base militare la loro casa e i
compagni d’armi la loro famiglia. Dopo questa esperienza non saranno mai più gli stessi ragazzi che hanno
lasciato casa per arruolarsi nell’esercito, nella marina o nell’aeronautica. E quando viene il momento di
congedarsi non è infrequente che possano soffrire di qualche problema di riadattamento provocato dalla
mancanza del costante supporto che l’ambiente militare ha fornito loro per anni e dall’incapacità di
ritornare a far parte pienamente del mondo civile.
Oltre a ciò, coloro che hanno partecipato a missioni in zone di guerra rischiano di sviluppare seri problemi
psicologici a causa delle esperienze potenzialmente traumatiche a cui sono stati esposti. “Pochi eventi
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sono più stressanti della guerra” e sebbene la maggior parte dei soldati siano in grado di “resistere e
andare avanti” non c’è dubbio che “la perdita dei compagni, l’esperienza del dolore, il ricordo della paura,
della deprivazione, della fame, della sete e della morte rimarrà per sempre”. (Marlowe 2001, xvii)
Quasi tutto il materiale che ho utilizzato per la stesura di questo lavoro è di provenienza anglosassone, per
il semplice motivo che non esiste in Italia una letteratura significativa su questo argomento e soprattutto
non ci sono ricerche e statistiche aggiornate e rilevanti a cui fare riferimento. Mentre un po’ ovunque in
America e in Europa si sta sviluppando una crescente attenzione nei confronti dei problemi psico-sociali
dei soldati e del disagio che spesso vivono le loro famiglie, in Italia questo problema sembra essere ancora
largamente sottovalutato.
Il riferimento alla letteratura e all’esperienza anglosassone è stato quindi inevitabile. In questo elaborato si
parlerà spesso di guerra e di combattimento e di ciò che provocano nella psiche dei soldati; questo potrà
sembrare non pertinente alla situazione dell’Italia, la cui Costituzione impedisce di partecipare alla guerra
e consente l’invio di truppe solo per le missioni di PSO (operazioni di supporto alla pace). In realtà come fa
notare il Generale Mini (Mini 2003, 144), anche le missioni di pace “se richiedono l’uso delle armi e della
forza, presentano tutti i rischi della guerra”. Quindi non è fuori luogo parlare di traumi psicologici della
guerra anche per i soldati italiani, soprattutto se consideriamo il numero non trascurabile dei caduti nelle
due più recenti “missioni di pace”. Per quanto riguarda la missione in Iraq, l’Italia si colloca infatti al terzo
posto all’interno della coalizione come numero di caduti preceduta solo da USA e Gran Bretagna, in
Afghanistan all’ottavo posto.
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Il “Mestiere delle Armi” è dunque un compito difficile, che presenta molti aspetti contradditori e che
risulta spesso oscuro a chi lo guarda dall’esterno. La mancanza di una vera comunicazione tra mondo civile
e militare porta ad avere un’opinione sui soldati basata spesso su pregiudizi, su luoghi comuni,
sull’immagine rappresentata dai media, che a volta li dipingono come eroi a volte come esaltati squilibrati
dediti a ogni tipo di nefandezza. Tra questi due estremi si colloca la maggior parte delle persone che ha
scelto di indossare la divisa. “La maggioranza dei tutti i soldati di tutte le armi, dei generali e degli
ammiragli è fatta di persone rispettosa delle leggi, con saldi valori umani e istituzionali, preparate,
modeste, dedicate, intelligenti e oneste. Sfortunatamente la minoranza fatta di felloni, zerbini, faziosi e
disonesti riesce a dar corpo e fondamento alla percezione che quello dei soldati è sempre di più un altro
mondo, non solo separato e inesplicabile, ma scontento, violento e pericolosamente ostile” (Mini 2008,
125)
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Per maggiori dettagli vedere allegato 6
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Proprio per cercare di conoscerli meglio, ho progettato questa tesi come un “viaggio” nella vita dei soldati,
dal momento del loro arruolamento fino al loro ritorno a casa dopo l’esperienza della guerra, con l’intento
di capire la specificità delle loro condizioni di vita e come queste particolari condizioni possono influenzare
il loro equilibrio emotivo e psicologico, quali sono i problemi che si trovano ad affrontare e quale sarà la
reazione che probabilmente incontreranno nel mondo civile una volta tornati a casa.
Il primo capitolo descrive che cosa significa “diventare un soldato”, una scelta che non si limita alla sfera
meramente professionale ma che coinvolge ogni aspetto della loro vita. I ragazzi si arruolano per diverse
ragioni: per sperimentare il piacere del cameratismo e per l’avventura, per pilotare un aereo o per guidare
un carro armato, per esibirsi nel loro spettacolo personale e sentirsi protagonisti della loro vita ad un’età in
cui i loro coetanei stanno ancora seduti sui banchi di scuola (Jolly 1996)
“Il pericolo fa parte del pacchetto” (Jolly 1996, 1). Nel corso della loro carriera essi potrebbero trovarsi a
dover uccidere o essere uccisi. Naturalmente nessuno pensa che potrebbe davvero succedere a loro. Ciò
nonostante l’idea della morte e della disabilità è un pensiero che essi cominciano a considerare molto
presto nella vita, qualcosa che li distingue dai loro coetanei “civili” e che segna la distanza tra loro e il
resto della società. In nessun’altra occupazione nel mondo civile si chiede ad un lavoratore di accettare la
morte come rischio professionale.
Cercheremo inoltre di capire cosa succede durante l’iniziazione di una recluta al mondo militare, i suoi riti,
i suoi simboli, il forte legame tra compagni d’armi, il grande senso di appartenenza che accompagna i
soldati durante la loro carriera e il senso di perdita, anche di identità, che segna il momento del congedo.
Nel secondo capitolo esploreremo la complessa realtà della guerra: il suo orrore ma anche il suo fascino
oscuro, le sue contraddizioni e il suo significato archetipico, il trauma, la morte, le sofferenze ma anche
l’eccitazione, l’adrenalina, “l’amore” che unisce i soldati tra loro fino al punto che essi sono letteralmente
disposti a dare la vita per i propri compagni.
Nel terzo capitolo descriveremo “la lunga strada verso casa”: le difficoltà, i problemi, le sofferenze dei
reduci che tornano a casa dalla guerra. La fatica di trovare un lavoro nel mondo civile dove essi vengono
considerati “manodopera non qualificata”, i problemi all’interno della famiglia che deve affrontare lo
stress di missioni prolungate, lunghi periodi di separazione, continui cambi di residenza che sempre più
frequentemente causano separazioni e divorzi. Considereremo poi il problema dell’abuso di alcol e droga
che rappresenta un modo piuttosto comune tra i soldati di mettere a tacere la sofferenza psicologica e che
spesso è causa di ulteriori problemi come ad esempio quello di ritrovarsi a vivere per strada diventando
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dei “senza tetto” oppure, quando la disperazione diventa insopportabile il commettere suicidio come
unico modo per fuggire ad un dolore che non lascia vie d’uscita.
Avremo modo di analizzare criticamente il complesso concetto di DPTS (disturbo post-traumatico da
stress) prendendo in esame sia la prospettiva degli studiosi che la considerano una diagnosi universale che
può essere applicata senza tener conto delle differenze culturali e spazio-temporali sia la prospettiva di
chi ritiene il DPTS una costruzione socio-culturale. Infine ci soffermeremo sull’importanza di una società
civile matura e sensibile ai problemi dei soldati che possa facilitare la reintegrazione dei reduci.
Nel quarto capitolo, esamineremo la complessità e la contraddittorietà del ruolo dei nuovi “soldati di
pace”. La crescente popolarità delle missioni di “peacekeeping” ha costretto i soldati a modificare la loro
identità tradizionale per far fronte alle nuove esigenze di mantenimento della pace, dando origine così ad
un professionista “ibrido” che potremmo definire “guerriero umanitario”. I soldati di pace rappresentano
una dimensione del mondo militare che rimane per certi versi ancora molto incerta e coloro che hanno
deciso di arruolarsi per essere pronti a combattere potrebbero sperimentare un profondo conflitto
d’identità quando vengono chiamati a svolgere compiti a metà tra quelli di polizia e di operatori umanitari.
Inoltre, come è stato dimostrato anche nelle recenti missioni di peacekeeping, i soldati che si trovano ad
operare in zona di guerra, sono comunque sottoposti a gravi pericoli, a dispetto del nome rassicurante
queste missioni “di pace” causano morti e feriti e questi eventi traumatici hanno lo stesso potere
distruttivo sulla psiche dei soldati che hanno le guerre tradizionali. I militari coinvolti nelle missioni di pace
sono a rischio di riportare gravissime conseguenze psicologiche che in Italia non siamo ancora pronti ad
accettare e non siamo sufficientemente preparati ad affrontare.
Infine nel quinto capitolo elaborerò un progetto personale per la creazione del primo centro in Italia di
ricerca e di assistenza psicologica per i soldati e i reduci che hanno partecipato a missioni operative in zone
in guerra. Partendo dalla considerazione dell’assoluta mancanza di un servizio di questo tipo in Italia ed
analizzando la realtà di altri paesi, in particolare la Gran Bretagna dove da molti anni si studiano le
conseguenza della guerra sulla salute mentale dei soldati e si sono creati servizi ad hoc per questa
particolare fascia d’utenza, proverò a delineare un progetto di intervento che possa essere un primo
iniziale contributo per lo sviluppo di una rete di servizi di supporto psico-sociale per i militari italiani e le
loro famiglie.