XII
The Karlsruhe model represents one of the recent most incisive novelties in
the public transport modes, not only as a meaningful step towards the
integration of two culturally parallel worlds, but above all as a proposal
able to give an answer to a not-yet-satisfied mobility demand.
The deep relationship traced between the tram-train and the multiform
suburban landscape known as sprawl, however, overcomes the technical
and economical opportunity analysis, summoning a deeper and, at the
same time, urgent demand; considering the still evolving architectural and
sociological reflection, it seems possible to use what is often regarded as
an obstacle – the tramway strong morphogenical role – as an opportunity
to characterize an ignored landscape. Such an approach implies that the
most visible component – the vehicle – becomes the very symbol of the
change, giving clues about a new territory and therefore about an
expression of its own identity.
Through a wide analysis of all the competitiveness factors, both
functional and communicative, for a tram-train service in the suburban
scenery, the work comes to verify all the obstacles still to be overcome,
mostly about the vehicle. The design proposal to overcome the limits set to
the full expression of the system potentialities – drafted after a careful
comparison between functional analysis and market offer – gives an
opportunity to materialise the assumed train-territory relation.
The integration of new standards of passive safety in a light rail product
family becomes the search for an architecture concerning the vehicle
heads, such as to reconcile deep formal customization and strong, lifecycle
costs curbing. The design of a variable geometry door system, as a
solution to gain safe and easy access in the difficult layout of a multimode
route, is also a way to link functional efficiency with the eloquence of a
new movement arrangement.
The necessary design focus on a logic of product family, peculiar of
any sector operating on orders, prevents the work from reaching a
complete definition, whereas it renders it subject to many different local
design processes: coherently with the analysis results, the arranged
solutions become conditions for a full, potential exploitation of the hinge
element of a tram-train transport system.
XIII
- Introduzione -
Il 25 settembre 1992 il primo vero sistema tram-treno al mondo entra in servizio a
Karlsruhe, nel sud della Germania: collegare la regione del Baden-Wuttemberg mediante
l’uso combinato di rete tranviaria urbana e ferrovia, condivise da treni e veicoli tranviari
bimodali, avrebbe costituito l’origine di una effettiva rivoluzione nella progettazione del
trasporto suburbano.
Dopo solo tre giorni dall’entrata in servizio la nuova linea per Bretten, fino ad allora
faticosamente mantenuta sul livello di mille passeggeri al giorno, supera quota diecimila
utenti: per accompagnare l’incredibile e continuo aumento della domanda locale, la rete
continua ad espandersi incessantemente, fino a raggiungere Forchbach, ad 80 km di
distanza nel cuore della Foresta Nera.
Oggi la rete regionale supera i 400 km di estensione e realizza cinque milioni di km-treno
all’anno: mentre nel resto della Germania e dell’Europa le statistiche di traffico mostrano
una preoccupante tendenza alla stagnazione, il numero di utenti del trasporto pubblico nella
regione di Karlsruhe continua ad aumentare a ritmi sorprendenti, dai 100 milioni di
passeggeri del 1995 ai 150 milioni del 2001, mantenendo al contempo un ottimo livello di
remuneratività.
L’origine del progetto può essere ricondotta ad uno scenario di mobilità comune e
delineatosi fin dagli anni cinquanta: oltre un terzo delle auto bloccate nelle vie di Karlsruhe
provenivano dai più lontani sobborghi della regione ed i loro occupanti, in genere, non
erano disposti ad arrivare in treno nella decentrata stazione e poi salire sul tram. L’unica
speranza per trattenere queste auto fuori dalla città risiedeva nell’eliminare il fastidioso
trasbordo: in altri termini, il tram doveva essere capace di andare a raccogliere passeggeri
proprio in prossimità delle loro case, anche nel bel mezzo della campagna, e portarli il più
vicino possibile alla loro destinazione, lavorativa o di svago, nel centro cittadino.
Da questa necessità, straordinariamente diversa rispetto a quanto fino ad oggi contemplato
nella progettazione dei trasporti pubblici ma allo stesso tempo profondamente attuale,nasce
l’invenzione del tram bitensione; dopo numerose difficoltà, tecniche ma soprattutto
normative, i tram bitensione gialli e rossi di Karlsruhe giungono nel 1992 alla piena
operatività ed, allo stesso tempo, all’attenzione di tutta l’Europa. La flotta dei veicoli
bitensione, articolati di tre casse su quattro carrelli, è passata nel tempo da dieci unità ad
oltre un centinaio, tra cui i curiosi veicoli Bistrot dotati di servizi di caffetteria a bordo, ed
attraversa con successo le campagne attorno a Karlsruhe: oltre il 40% degli attuali utenti
dichiara di aver preferito coscientemente l’utilizzo del tram a quello della propria auto.
Eliminare il trasbordo fra treno e tram non rappresenta però l’unico vantaggio di un
sistema tram-treno: il peso contenuto del materiale rotabile garantisce prestazioni molto
elevate sia in accelerazione che in frenatura, permettendo di ottenere un gran numero di
fermate lungo il percorso mantenendo tempi di percorrenza competitivi col trasporto
individuale.
Le stesse strutture di fermata, di tipologia tranviaria e non ferroviaria, sono semplici da
XIV
realizzare quindi collocabili liberamente lungo tutto il percorso, in prossimità dei bacini di
utenza, rendendo il servizio molto attraente; il costo dei veicoli, di molto inferiore a quello
di piccoli convogli ferroviari, rende infine possibile mantenere una buona frequenza di
servizio con investimenti compatibili con la reale disponibilità di centri di piccole
dimensioni. La fortissima competitività del modello Karlsruhe può essere meglio espressa
dalla cronaca del recente arrivo del servizio a Heilbronn: progettata per attestarsi nella
stazione della Deutsche Bahn, la linea verrà invece estesa fin nel cuore del centro storico,
dietro fortissima domanda degli stessi abitanti, riportando dopo decenni i binari nelle strade
cittadine.
La reale competitività del servizio tram-treno, dimostrata anche dalla sua più recente
applicazione alle reti di Saarbrücken e Kassel, lo rende oggetto di doverosa attenzione ed
interesse, soprattutto nell’attuale fase di riflessione strategica sul ruolo della mobilità; il
valore del modello Karlsruhe è inoltre confermato dall’attenzione che stampa, grandi
gestori di rete e soprattutto il mercato stanno dimostrando verso questa storia di successo.
Oltre al valore insito nel riavvicinamento, tecnico e culturale, di due mondi paralleli come
ferrovia e tranvia, il tram-treno costituisce anche una visione radicalmente nuova della
potenzialità della tanto desiderata cura del ferro: esso si va a confrontare con lo scenario
principe della crisi della mobilità, quello suburbano, fino ad oggi affrontato con poca
incisività, operando sul piano di una effettiva competitività in termini economici e di qualità
del servizio.
Un’analisi dello stato dell’arte nei sistemi tram-treno non può quindi trascurare la sua
importanza come soluzione di valore all’interno del più ampio dibattito sulla gestione delle
aree suburbane; il governo delle mega urban regions, entità di difficile definizione ma allo
stesso tempo sempre più importanti nell’economia territoriale europea, trova infatti uno dei
suoi cardini proprio nella gestione del sistema della mobilità, elemento fondante ed allo
stesso tempo forte generatore di criticità funzionali, ambientali e sociologiche.
Definire il tram-treno attraverso una rapida analisi della natura delle aree suburbane
significa verificare il reale valore del legame tra sistema di trasporto e scenario, indagando
sulla presenza, accanto al valore funzionale, di altre e più profonde corrispondenze;
riconoscere un valore meta-funzionale all’impianto di una soluzione di trasporto pubblico
vuol dire prendere semplicemente atto del suo effetto su un panorama estremamente
delicato ed ancora poco definito, quello che va sotto il nome di città diffusa.
1
II. Il panorama diffuso
Il concetto di città rappresenta un paradigma di base nella descrizione dello spazio umano:
un territorio o luogo organizzato artificialmente in funzioni abitative e comunitarie,
strutturato secondo proprie complesse regole sociali, la cui evoluzione è intimamente e
profondamente connessa con la storia della civiltà. Il mondo odierno è, senza possibilità di
dubbio, un mondo urbanizzato: i tre quarti della popolazione dei paesi economicamente
sviluppati di occidente ed oriente vivono nelle città, mentre anche il resto del mondo sembra
inesorabilmente avviato verso lo stesso destino.
Accanto alla fortissima esplosione urbana dei paesi in via di sviluppo, di cui Bairoch ha
espresso dimensioni e drammaticità, esiste però anche un continuo e significativo processo
evolutivo in atto nei territori già urbani, segno della vivacità ed irrequietezza insite nella
radice stessa della forma principe della società umana.
I.1. La città postmoderna verso la diffusione
Il primo modello di aggregazione classificabile come proto-urbana fa la sua comparsa con
la rivoluzione agricola del neolitico, in tempi e modi diversi nelle varie regioni del mondo,
ma quasi sempre come invenzione autonoma e quasi ineluttabilmente legata ad un nuovo
assetto economico[1].
L’urbanizzazione vera e propria ha invece origine, come ormai largamente accettato[2],
con le grandi civiltà antiche: lo scarto tra i villaggi neolitici e le prime città della
Mesopotamia, frutto di ciò che Childe definisce rivoluzione urbana, è forte e si manifesta in
maggiori dimensioni, artigianato elaborato e forme di governo evolute.
Da Ur e Pergamo fino a tutto il diciassettesimo secolo la diffusione del fenomeno urbano
cresce parallelamente allo sviluppo civile ed economico, attraverso diversi modelli e stadi di
evoluzione, come la polis greca, i comuni nell’Italia e nella Germania del duecento o le
sperimentazioni negli insediamenti coloniali in America ed Africa.
Lo sviluppo sociale, economico e culturale di un’area e la sua tendenza all’urbanizzazione,
ovvero alla strutturazione del territorio in agglomerati organizzati di diverse dimensioni,
sembrano legati da un costante parallelismo; la presenza di una struttura sociale, di
organizzazione funzionale e di economie di aggregazione rende la città una realtà efficiente,
capace non solo di garantire standard di vita migliori, ma anche di dare vita a relazioni
sociali complesse: solo una certa divisione dei compiti, ad esempio, può creare le risorse per
attività culturali ed artistiche.
Una prima definizione del concetto di organismo urbano può essere trovata nella teoria
delle tre città[3]; essa postula l’esistenza di tre diverse, anche se contestuali, funzioni nel
2sistema urbano:
1. la città di pietra, fisica e materica, la più alta espressione di una collettività capace di
"organizzare spazio" in funzione delle proprie esigenze e dei propri obiettivi che si
evolvono nel tempo;
2. la città delle relazioni, luogo di massima concentrazione di funzioni e di relazioni, in
cui i livelli di intensità e di velocità degli "scambi" raggiungono valori sempre più
elevati;
3. la città del vissuto, spazio semantico privilegiato del rapporto psico-percettivo tra
l’uomo ed il suo habitat.
Altri tratti emergono osservando le più antiche rappresentazioni conosciute del concetto di
organismo urbano, come ad esempio quella Egizia: essa pone in risalto la sua natura di
aggregato definito, altro rispetto allo spazio circostante, ma vivente di relazioni che si
concretizzano in vie di comunicazione di cui esso è punto nodale. Per giungere al concetto
moderno di città, ovvero al paradigma riconoscibile ancora oggi alla base delle diverse
forme urbane, è però necessaria una grande cesura storica, facilmente identificabile con la
rivoluzione industriale.
Così come alla base del fenomeno urbano neolitico è possibile rintracciare una rivoluzione
agricola, anche nel caso del grande mutamento nello sviluppo urbano che subito precede la
rivoluzione industriale fondamentale è il fattore produttività: la stessa esistenza di un
organismo urbano dipende infatti dalla disponibilità, in primo luogo, di risorse alimentari
sufficienti; l’aumento di produttività del terreno, nel neolitico come nell’anno mille, fa sì
che nel raggio d’azione del sistema di approvvigionamento cittadino siano prodotte risorse
per un sempre crescente numero di abitanti. Dalla eccezionalità della rivoluzione agricola
del diciassettesimo secolo deriva quindi il grande scarto evolutivo urbano dell’era moderna,
riassumibile nell’aumento progressivo della dimensione media dei centri abitati, nella
diffusione delle prime città ultramilionarie e nell’affermazione del modello industriale
1
.
Una così forte crescita demografica dei centri urbani comporta chiaramente un
profondo mutamento nella stessa struttura morfologica e funzionale della città, chiamata ora
a confrontarsi con nuove dinamiche sociali; grande esigenza di abitazioni e produzione in
serie, ad esempio, danno vita ai primi esempi di progettazione pianificata ed edilizia di
massa. Lentamente il legame che fino ad allora aveva unito un nucleo familiare alla propria
abitazione, spesso dimora di più generazioni, si va spezzando a favore dello status di bene
strumentale: il costante flusso immigratorio elabassa crescita interna
2
aumentano infatti il
tasso di rotazione nell’occupazione delle abitazioni.
1
la rivoluzione industriale si innesta su un terreno di crescente urbanizzazione e, benché nata e sviluppatasi in aree
periferiche o quasi rurali vicine ai bacini di materie prime, vede proprio nelle grandi città il maggior sostegno, non
solo economico, all’affermazione del sistema di produzione di massa. Col diffondersi del fenomeno industriale una
lunga serie di nuovi organismi urbani crescono, si sviluppano e raggiungono rapidamente dimensioni notevoli, come
Glasgow o Manchester, grazie alla concentrazione geografica della richiesta di manodopera ed al conseguente flusso
immigratorio dalle campagne;
2
i nuovi ritmi di lavoro peggiorano le condizioni di vita, quindi i valori medi relativi a mortalità infantile ed
aspettativa di vita, da sempre inferiori rispetto all’area rurale;
3
La coketown di Dickens (Figura 1) è forse l’immagine più efficace delle conseguenze
dell’esplosione urbana sotto il profilo architettonico ed urbanistico, evidenziando la
deficienza semantica di nuovi panorami urbani cresciuti troppo in fretta; abbandonato lo
status di luogo del vissuto per adeguarsi alle esigenze del nuovo sistema economico, la città
diviene l’ennesimo compito lavorativo e la fabbrica elemento strutturante del territorio.
Figura 1: William Wild, Veduta di Manchester, 1851
Se la prima industrializzazione vede il principio industriale divenire elemento strutturante
del sistema sociale, col diciannovesimo secolo esso irrompe anche nello scenario della vita
comune: mediante il diffondersi della tecnica nel quotidiano, il paradigma di città moderna
non ha più solo carattere dimensionale, ma soprattutto funzionale e qualitativo, esso crea un
panorama unico e profondamente diverso dall’ambiente rurale, con differenti stili di vita e
costumi.
Basti come esempio ricordare l’avvento dell’illuminazione pubblica, capace d’un tratto di
trasformare il volto notturno delle vie cittadine, rendendole sicure e soprattutto ricche di
fascino e magia, o la meccanizzazione della percezione spaziale:imezziditrasporto
pubblico e privato interrompono lo stretto legame tra la visione dello spazio urbano ed una
velocità di spostamento generata e controllata dal singolo.
Figura 2: New York fotografata nel 1935
4La morfologia urbana, complice una crescita che si sta facendo più organica e sicura, trova
nuova coerenza dando vita a grandi progetti di riordino dell’assetto planimetrico, con grandi
arterie e complessi monumentali, ed a nuove tipologie di spazi: attraverso stazioni,
passeggiate, gallerie o passages la nuova città moltiplica le sue funzioni ed i suoi luoghi,
conquistando una nuova identità. Il novecento consegna poi i primi grattacieli, le reti
metropolitane, l’automobile; New York (Figura 2) raggiunge i dieci milioni di abitanti e,
prima fra le grandi città, inventa con le cartoline il city marketing: immagini che viaggiano
nel mondo narrando di luci, grattacieli e meraviglie della vita moderna conferiscono
carattere mitologico ai panorami metropolitani.
Accanto ad evoluzioni così profonde il tasso di variazione dell’urbanizzazione rimane
costantemente positivo, quasi a confermare la città come luogo principe del moderno,
sebbene legato alle sorti di un’economia sempre più transnazionale: forte arresto nel primo
dopoguerra, ripresa negli anni trenta quindi la grande esplosione della ricostruzione.
Negli ultimi trenta anni del ventesimo secolo, per la prima volta dalla rivoluzione
industriale, si è però assistito ad un sensibile rallentamento del processo di urbanizzazione
nelle aree più sviluppate del pianeta
3
; crisi dei grandi poli industriali, trasferimento della
manodopera verso il settore dei servizi, diffusione capillare di mezzi di comunicazione ed
intrattenimento e soprattutto crescente capacità di mobilità individuale pongono le basi per
la prima grande inversione di tendenza, oramai consolidata. Traffico, inquinamento e scarsa
sicurezza, ora che la presenza in città non più condizione necessaria per il lavoro, spingono
una sempre maggiore percentuale della popolazione fuori dalla cinta urbana: prende avvio
la contro-urbanizzazione. Il mutamento nei trend di immigrazione risulta particolarmente
evidente nel Nord America ed attorno alle grandi città Europee, ma esiste anche in centri di
dimensioni medio grandi, con variazioni percentuali ancora più significative.
La natura di questo fenomeno è però lontana da un semplice ritorno alla campagna o
totale abbandono delle città: si tratta piuttosto di un trasferimento dal centro ad alta densità
abitativa a piccoli agglomerati in una cintura urbana troppo lontana e discontinua per
essere definita periferia. Lavorare nella città, vivere delle sue opportunità ed allo stesso
tempo evitarne il degrado e la congestione sono gli obiettivi di questo processo [4], tra le
cui concause è possibile ascrivere il nuovo modello di lavoro autonomo di seconda
generazione
4
e la distorta dinamica spaziale figlia della rivoluzione dell’informazione
5
.
Perso il vincolo della prossimità come condizione per l’appartenenza all’organismo urbano,
le dinamiche di insediamento assumono modelli caratterizzati dalla ricerca di maggiore
qualità spaziale: popolamento di aree a bassa densità nella cintura suburbana o, anche se in
misura statisticamente meno significativa, il particolare processo di riconversione abitativa
di aree urbane residuali noto come gentryzzazione
6
.
3
parallelamente ad una crescita quasi nulla del tasso di urbanizzazione si assiste anche ad una diminuzione della
percentuale di popolazione addetta al settore primario; cfr. Onu, World Urbanization Prospects 1990, New York,
1991, cit. in [1]
4
grazie a nuovi modi di lavoro e sistemi di comunicazione in tempo reale l’individuo svolge le sue mansioni secondo
proprie logiche ed in contatto con diverse realtà produttive ed economiche, senza possedere più vincoli di prossimità
fisica caratteristici della rivoluzione industriale;
5
la diffusione di strumenti di comunicazione avanzati rende, banalmente, un ufficio di Milano più vicino alla sala
contrattazioni di Wall Street che non al ristorante al piano inferiore; cfr. [5]
6
processo di riqualificazione di grandi spazi abitativi o industriali in disuso tramite grandi interventi architettonici
5
Si tratta, nella diffusione così come nella gentryzzazione, di una chiara domanda di non-
città, della ricerca di un paradigma abitativo non urbano, caratterizzata anche da una certa
vena individualista; accompagnata da periodi di insicurezza economica, dalla ricerca quindi
di soluzioni abitative più economiche rispetto a centri sempre più storici e direzionali,la
crescita di centri satellite e degli insediamenti fuori dal tessuto urbano è costante, in Italia
come nel resto dell’occidente, per tutta la seconda metà del ventesimo secolo.
Nuovi insediamenti proliferano lungo le direttrici di traffico, vicino ai nodi di interscambio
o semplicemente si sviluppano attorno a piccoli nuclei storici, creando un tessuto di abitato
a bassa densità ed a matrice continua, quello che generalmente viene definito città diffusa.
La crescente importanza quantitativa di questa realtà porta con se forti criticità, sia per la
disorganicità legata a dinamiche evolutive spontanee e caratterizzate da logiche speculative,
sia per la congenita dipendenza del sistema da nodi presenti sul territorio, siano essi grandi
città o nuclei a forte concentrazione di servizi.
I.2. Caratteri del tessuto abitativo continuo
"La vita sconvolge puntualmente i progetti degli urbanisti"
(N.A.Miljutin,1930)
La tendenza alla forte concentrazione in grandi megalopoli, a cui l’immaginario collettivo
di inizio Novecento aveva condannato i paesi a più elevata industrializzazione, sembra oggi
presente solo in nazioni dall’economia debole, conseguenza di squilibri demografici e causa
di forti tensioni sociali. Europa e Stati Uniti sembrano invece aver abbandonato da tempo
questa strada grazie a modelli di diffusione della popolazione sul territorio di natura nuova,
inaspettata ed ancora poco chiara, classificati come sprawl, periurbain o città diramata.
Questo comportamento ha radici di carattere sia sociologico che economico, ma vede
alla base, secondo Martinotti, il fenomeno classificato come esplosione della fabbrica,
ovvero la scomparsa di legame geografico tra lavoratore e sito produttivo: il territorio
appare quindi caratterizzato dalla presenza di sistemi urbani a diversa complessità, basati su
reti di città medie e piccole o su regioni dalla densità abitativa praticamente omogenea.
L’assetto economico ed il relativo sistema di rapporti operano principalmente su una scala
regionale, privi di una forte struttura gerarchica e con una configurazione simile, piuttosto,
ad un fitto arcipelago di nuclei dotati di forti competenze e di grande vivacità: poli di
attrazione turistica, aree con filiere industriali specializzate, bacini della ricerca e della
volto alla creazione di quartieri interni al tessuto metropolitano ma caratterizzati da uno status di isole protette; i
Docks o i Marais sono esempi di ripopolamento di quartieri abbandonati che ora offrono ad individui di reddito
medio alto i vantaggi della grande città e la qualità di vita di aree isolate, aggiungendo solitamente valore dello spazio
architettonico e fascino della memoria storica; una nuova fuga, quindi, verso uno spazio percepibile ed identificabile,
tendenza in realtà più vicina alla di quartieri a tema o in stile, tipici degli sprawl statunitensi, piuttosto che alla ricerca
di prospettive urbane perdute.
6formazione o nodi funzionali, tutti fortemente interconnessi e dipendenti
7
. Tale assetto è
conseguenza di un lento e costante processo di metropolizzazione a carattere diffuso, partito
dalle grandi città ma trasferitosi poi su tutto il territorio; in Italia si possono ricordare il
rapporto tra Napoli ed i comuni costieri della provincia o l’assetto territoriale dell’asse
centrale del Veneto. Sul territorio nazionale la metropolizzazione diffusa ha però assunto,
causa la lunga esperienza urbana, una forma meglio definibile come città diramata:la
presenza di moltissimi centri abitati di piccole e medie dimensioni dispersi su tutto il
territorio nazionale ha avuto funzione di guida alla dispersione.
La localizzazione delle nuove strutture abitative rispetta quindi linee guida derivanti dalla
morfologia del territorio o dalla struttura dei centri preesistenti; non mancano in ogni caso
esempi di crescita assolutamente disorganica, mentre rimane come fattore negativo
comune, peculiare della realtà nazionale, un fortissimo sbilanciamento del sistema di
mobilità a favore del trasporto individuale.
Secondo l’analisi di Secchi [6], l’urbanizzazione diffusa sul territorio nazionale è stata
favorita da una politica implicita di mobilitazione individualistica
8
: essa, avvallata da un
cospicuo e rischioso ricorso alla deregolamentazione, ha da un lato consentito l’emergere di
condizioni del mercato edilizio e del lavoro tali da rendere gli individui sempre più
disponibili, per convenienza economica, al trasferimento verso aree marginali, dall’altro
non è stata però capace di fornire alcun tipo di guida nella nascita di un sistema troppo
complesso per riuscire a regolarsi autonomamente.
Riguardo al simile assetto territoriale diffuso nel territorio Nordamericano, lo sprawl,
Sudjic evidenzia come sia errato parlare di tali aree sia come semplici propaggini passive
delle grandi città sia come comunità a sé stanti, anche se morfologicamente inorganiche
[7]: la natura e l’intensità delle relazioni che si creano tra i diversi punti di questa rete dalla
maglia molto larga sono infatti estremamente variabili e discontinue. Il progressivo
affrancamento da logiche di dipendenza gerarchica delle aree di città diffusa ne ha
sottolineato la grande dinamicità culturale ed economica, rendendole luogo di evoluzione
indipendente: dal punto di vista della morfologia fisica esse presentano strutture per i
trasporti, i servizi ed il commercio spesso totalmente nuove nei loro caratteri o nella loro
funzione sul territorio. Rispetto alla morfologia sociale esse sono invece il luogo di uno stile
di vita post-moderno, basato ad esempio su un’abitazione non più fulcro della vita ma
campo-base, caratterizzato da uno spazio di relazioni che ha perso il carattere fisico della
distanza e che opera, quindi, su concetti di prossimità diversi da individuo a individuo.
Si tratta, in sintesi, di un modello di città completamente nuovo che, abbandonato il
principio di densità e di organizzazione nucleare, pone all’origine della propria coesione
un’intensa rete di rapporti estesa attraverso un’area discontinua di dimensioni rilevanti
7
spesso centri abitati medi e piccoli giungono ad istituzionalizzare tali rapporti creando reti di città a forte sinergia
funzionale, relativamente a cultura, servizi o infrastrutture, pur mantenendo una propria identità. Secondo questo
approccio la Presidenza Italiana al Comitato per lo sviluppo spaziale dell’Unione Europea descrive il territorio
nazionale attraverso quattro modelli insediativi: la città-regione, il sistema metropolitano policentrico, l’area
metropolitana lineare costiera e l’area metropolitana monocentrica; cfr. Camagni et al., 1996
8
la dispersione enorme degli insediamenti produttivi e residenziali, che a partire dagli anni settanta ha dato vita alla
città diramata ed al radicale mutamento dello stile di vita di molti italiani, origina da una politica orientata a sfruttare
i disagi esistenti in città per mobilitare il singolo individuo a trovare, autonomamente ed in un nuovo contesto
abitativo, la soluzione ai propri problemi;
7
(Figura 3): si assiste qui, probabilmente, al principio del processo evolutivo che andrà a
creare l’erede della città industriale, modello ormai in inesorabile declino.
Figura 3: tipica configurazione dello sprawl - Kipling Heights, San Francisco (CA) negli anni '60
L’avvento di tecnologie di trasporto veloci, la diffusione dell’auto e le nuove dinamiche di
comunicazione hanno certamente agito da enabling technologies in grado di liberare
progressivamente le scelte insediative dai vincoli della distanza e delle economie di
agglomerazione, ma per attivare tale potenziale centrifugo è stata necessaria una profonda
evoluzione dello stile di vita e dei consumi: la crescente domanda di varietà nell’impiego
del tempo libero ha reso infatti progressivamente sempre più grande l’area interessata da
azioni e relazioni del cittadino medio.
La nascita di centri economici, funzionali e di servizi dispersi su tutto il territorio ha allo stesso
tempo rotto gli equilibri gerarchici preesistenti tra centro e periferia, caratterizzati da linee di
spostamento radiali, rafforzando l’entità degli spostamenti tangenziali e distribuendo in maniera
praticamente omogenea gli itinerari: se agli albori il fenomeno della dispersione era stato
salutato come una possibile fuga dalla congestione dei centri urbani, esso si è invece rivelato
come un sistema ad altissima domanda di mobilità. In presenza di qualsiasi tipo di
organizzazione territoriale infatti, negli ultimi cinquant’anni gli spostamenti sono in media
aumentati ed interessano aree sempre più vaste, secondo un modello di rete che muta
progressivamente da maglia policentrica a rizoma: nella realtà la diffusione sul territorio ha
portato al trasferimento della congestione urbana in un’area ancora più ampia, mettendo in crisi
la mobilità, ovvero la componente fisica alla base dello stesso sistema di relazioni.
Un territorio formatosi proprio grazie allo straordinario incremento prestazionale del sistema
della mobilità, e che da esso deriva gran parte della sua dinamicità, rischia quindi di essere
travolto dalla sua drammatica inefficienza; una tale condizione si deve sicuramente ad
un’effettiva alta domanda di mobilità, ma anche e soprattutto alle scelte operate riguardo ad
organizzazione funzionale del territorio e sistema dei trasporti. Nella fase costitutiva del
modello diffuso il disegno del sistema di mobilità regionale, aiutato anche dalla congiuntura
8storica favorevole, ha infatti eletto a suo unico metro il trasporto privato: sebbene teoricamente
capace di assolvere in pieno ed al meglio le esigenze di mobilità del panorama suburbano,
l’automobile ha però strutturato il territorio ingigantendo, causa la sua bassa efficienza in
termini di sfruttamento del suolo, la mole delle infrastrutture ed aumentando ancor di più le
distanze tra i differenti blocchi funzionali.
I.3. Morfologia del territorio e analisi architettonica
Le conseguenze di una tale configurazione funzionale del territorio e del sistema dei
trasporti, sostrato essenziale del sistema di relazioni e quindi della stessa entità urbana,
vanno però oltre il semplice decremento di efficienza: natura e tipologia delle infrastrutture
segnano profondamente la morfologia degli agglomerati, l’architettura dei nuovi
insediamenti e, soprattutto, i caratteri sociologici della nuova entità urbana. La città diffusa,
attraversata da grandi assi viari invalicabili, sedi stradali sopraelevate o separate, appare un
arcipelago di tante piccole entità spaziali disgiunte ed immerse nella reciproca indifferenza,
ben lontano dal principio organico e relazionale del paradigma urbano: lo spazio abitato,
qualora percepibile, sembra divenire un vuoto da percorrere rapidamente tra origine e
destinazione.
La riflessione architettonica contemporanea si è spesso confrontata con questo difficile
tema, senza giungere a conclusioni univoche ma evidenziando sempre nei nuovi panorami
suburbani una grave deficienza semantica; conseguenza di peculiari meccanismi insediativi,
questa diffusa condizione appare sempre più critica dal punto di vista sociologico,maanche
biunivocamente legata alla natura sia materica che funzionale del sistema della mobilità.
Quando, nel secondo dopoguerra, la scuola urbanistica europea analizzava criticamente
lo sviluppo suburbano degli Stati Uniti accusando il modello della casa unifamiliare di
essere frutto di un diffuso atteggiamento asociale, tale tendenza veniva contrapposta alla
conservazione del modello tradizionale di città europea, ritenuto sociologicamente più
corretto. Nei decenni successivi il meccanismo di metropolizzazione diffusa ha invece
coinvolto tutta l’Europa, nelle aree attorno alle grandi città come nel resto del territorio,
qualificandosi forse come ineluttabile destino del sistema urbano ma rendendo ancora più
manifesti, in terre dense di storia della città, la diffusa deficienza spaziale e semantica
9
.
Questa città diffusa, città diramata o città regione appare oggi un contesto non organico,
privo di un linguaggio riconoscibile, di un disegno a priori o di un progetto diffuso:
cresciuta come semplice somma di singoli manufatti, l’urbs suburbana sembra aver perso la
capacità di essere luogo portatore di identità per la propria civitas. La sua natura originaria è
dopotutto proprio quella di area residuale, quasi una non-area, zona sottratta al continuum
dello spazio rurale per ospitare isole ad alta vivibilità per cittadini in cerca di una non-città.
9
esistono chiaramente profonde differenze tra lo sprawl statunitense e le logiche di urbanizzazione diffusa in Europa,
così come esistono differenti forme del fenomeno in ogni singola regione del continente. Sono però allo stesso tempo
riscontrabili forti tratti comuni, dovuti da un lato alla crescente uniformità di costumi e stili di vita, una volta
organizzabili su base geografica ed oggi comuni all’interno di realtà sociologicamente simili, dall’altro alla perdita di
una forte matrice culturale locale.
9
La radice di una tale domanda, cioè della
crisi nei rapporti tra cittadino ed
organismo urbano, può essere
storicamente fatta risalire al disinnesco
del processo dialettico, individuato già da
Hegel come origine del senso estetico
stesso, che caratterizzava i rapporti tra
periferia e centro nella città tardo-
industriale: la dottrina architettonica,
posta di fronte all’incontrollabile
espansione urbana del diciannovesimo
secolo, assume un atteggiamento di
rischiosa ambivalenza.
Mentre il centro storico viene eletto a
custode di valori e bellezza, la periferia viene abbandonata ed assume i connotati del brutto
custode dell’indispensabile negatività: sia la cultura piccolo-borghese che quella rurale
mantengono in questo modo la capacità di rapportarsi con l’organismo urbano, quindi con
la comunità ed implicitamente con l’altro da sé, perché sia il muto sobborgo quotidiano che
il centro ricco di storia e simboli restano parte della propria percezione del territorio.
Il progressivo inaridirsi di questo fragile rapporto suscita la chiusura in un proprio
microcosmo, in un mondo privato ed immutabile, incarnato poi nel novecento dal mito della
“casa unifamiliare con piccola pertinenza a giardino”: questa tipologia edilizia, alla base
dell’urbanizzazione diffusa, è il motivo dominante nello sviluppo del mercato immobiliare
Statunitense, ed in seguito anche Europeo, per tutta la seconda metà del ventesimo secolo.
Come ben illustrato nella produzione pubblicitaria del primo dopoguerra, la casa
unifamiliare si propone come soluzione per una vita individuale, come sede delle funzioni
abitative e di quelle di leisure, come possibilità reale di vivere appieno evitando il contatto
conilmondoaltro.
Ancora oggi la realizzazione di complessi residenziali si configura come creazione di
piccole isole di alta qualità spaziale, in relazione con i tanti e lontani centri di interesse dei
propri abitanti ma per questo splendidamente lontane le une dalle altre. Isolamento
funzionale, architettonico, spaziale ma anche fisico: non sono rari i casi di quartieri-
fortezza, negli Stati Uniti come a Milano e Zurigo, cinti da una linea perimetrale difensiva,
dotati di accesso controllato e di personale di sicurezza interno (Figura 4).
La mancata o tarda comprensione del fenomeno suburbano ha condotto a classificarne
l’esistenza come mera aberrazione del concetto urbano, evitando il confronto e quindi
mancando di dare una risposta ad una effettiva ed ineludibile domanda di non-città. Gli
unici interventi relativi alla ricerca di nuove dimensioni abitative al di fuori del tessuto
urbano nascono nell’Europa della ricostruzione: si tratta dei grand ensambles francesi o
delle new towns inglesi, ovvero di sistemi suburbani ad alta densità. Anche quando dotati di
grande valore culturale ed architettonico, come nel caso dei progetti di Le Corbusier o di
Friedman, l’esito di tali interventi non può però essere giudicato che fallimentare.
Unico modello dominante rimane allora un’intensiva costruzione di abitazioni,
unifamiliari o a schiera, non progettate ma eseguite, con un approccio totalmente avulso da
logiche di contesto: anche il territorio italiano mostra innumerevoli aree dalla drammatica
assenza di paesaggio, che si trasformano in un habitat solo parzialmente esplorabile, in cui
Figura 4: un esempio di quartiere ad accesso
controllato presso San Diego (CA)
10
frequentatori anche quotidiani si trovano a tracciare sentieri attraverso una dimensione
ignota [8]. In un territorio così segnato dalla discontinuità i tessuti compatti mostrano
improvvisi vuoti, luoghi tradizionalmente ricchi di significati rimangono improvvisamente
deserti, ma allo stesso tempo frammenti spaziali dotati di un’autonomia sorprendente
possono generare modelli di fruizione dello spazio completamente nuovi
10
.La
comprensione delle regole di un tale panorama urbano è complessa, la sua stessa percezione
è sempre più difficile a chi non vive con esso l’intimità quotidiana, faticosa se non per,
come dice Aldo Rossi, “specialisti dei suoi arcani, surfisti in grado di amarne i ritmi, di
apprezzarne la diversità”.
La città diffusa è difficile da comprendere perché contraddittoria, in continuo
mutamento ed allo stesso tempo segnata da tipizzazione e ripetizione, mediamente vuota di
elementi caratterizzanti, visivamente muta in una diffusa mediocrità; la totale assenza di
rapporti tra i vari elementi, di un linguaggio o di una dialettica orientati secondo tradizione
e cultura, rende totalmente disconnessi i segni sul territorio di cui anche la città diffusa,in
quanto spazio abitato, è ricca. Ora che questi centri si rivelano dotati di una propria grande
forza propositiva, si avverte ancor più la mancanza del paradigma d’identità tra spazio
abitato ed organismo urbano.
L’estetica di un sistema urbano, o di uno spazio abitato in genere, è invece ancora una
condizione essenziale per l’uomo nella sua accezione moderna di gnoseologia inferior,di
conoscenza sensibile [9]; essa rappresenta il principio che, attraverso un linguaggio
singolare, crea ciò che Benjamin definisce aura: una sorta di sintesi, percepibile anche
empaticamente, di elementi distintivi che evidenziano la personalità di un luogo, la sua
esistenza unica e irripetibile.
La deficienza semantica diffusa nel periurbain èinognicasounproblema
difficilmente risolvibile attraverso grandi interventi architettonici: storicamente i grandi
progetti urbani hanno trovato applicazione solo in poche realizzazioni sperimentali del
rinascimento, del primo socialismo utopistico o, in altro senso, negli insediamenti
Nordamericani di sette protestanti quali gli Shakers.
Nonostante ciò, ancora oggi la ricerca di una soluzione allo sprawl ed alla sua mediocrità
stimola la creatività progettuale di architetti ed urbanisti: basti citare l’esempio, potente
nella sua singolarità, degli Arcosanti di Paolo Soleri.
Altrettanto limitato appare il ricorso ad interventi di carattere correttivo, frequenti nelle
grandi e piccole città europee
11
fin dal tredicesimo secolo sotto forma di legislazioni
urbanistiche e vincoli planimetrici: il loro effetto appare, al confronto con la realtà costruita,
secondario. La coerenza espressiva nasce infatti altrove, in un contesto dialettico in cui la
gran parte della cittadinanza ancora concepisce l’abitazione come manifestazione della
propria singolarità e del proprio gusto, dove la libertà espressiva prevale sul rispetto del
vincolo, dove gli stessi piani nella pratica rincorrono la realtà per adeguarsi ai mutamenti
dell’organismo urbano.
10
proprio qui emerge anche un differente modello sociale, sempre più basato sull’affermazione delle differenze, in
palese disagio all’interno della città moderna ma ancor più estraneo all’uniformante ideale razionalista;
11
i piani ottocenteschi su Parigi, Londra o Vienna o quelli che più recentemente hanno interessato Roma; o Berlino
sono esempi eclatanti di come ogni municipalità matura abbia esercitato un ruolo organicizzante sulla propria città
attraverso piani regolatori, edilizia pubblica ed arredo urbano;
11
La radice della coerenza nel linguaggio formale manifesta in numerose città storiche, capaci
di mostrare con efficacia ancora oggi una propria identità e bellezza, non è quindi dovuta
alla presenza di una volontà progettuale apriori. Tale capacità nasce, piuttosto, da un
meccanismo informale intrinseco per molti secoli alla stessa vita urbana, il quale, mettendo
in relazione ogni intervento ed il suo committente con la comunità, giunge a far coincidere
coerenza linguistica e diritto di appartenenza. Libertà espressiva ed originalità assumono
valore nel riuscire ad esprimere un gusto singolare ed essere allo stesso tempo accettate: è
da questa continua dialettica tra espressione del singolo e rapporto con la comunità cittadina
che, secondo Romano [10], nasce ciò che il visitatore occasionale può descrivere come stile,
coerenza o bellezza di una città
12
.
Questo modello di costruzione dialettica dell’identità urbana viene messo in crisi in
modo sistematico nella rilettura illuminista e scientista del nesso esistente tra bellezza, città
e comunità urbana: così come Newton aveva colto nell’universo la bellezza di un sistema
ordinato da una forza invisibile, allo stesso modo l’ordine viene posto come condizione
essenziale attraverso cui la città possa tendere verso l’inesorabile stato di perfetto equilibrio.
Concepire le irregolarità del reale come semplici deviazioni da uno standard, negli studi
sociali di Malthus così come in Marx o Christaller, nega il senso morale e sociale insito
nella trasgressione, cioè nella libera espressione della volontà individuale; sebbene la storia
abbia dimostrato come ogni tentativo di ordinamento scaturito da queste concezioni sia
statointemaarchitetonicoregolarmente disatteso, esso giunge intatto al novecento,
avvalorato dai continui progressi nelle scienze sociali, manifestandosi nell’urbanistica
razionalista
13
. Il Siemensstadt di Scharoun e Gropius non è infatti un quartiere urbano, lo
spazio è definito ed immutabile, le strade sono vie per il trasferimento da un edificio
all’altro, lo spazio aperto perde il carattere di luogo di relazioni: la sosta non è contemplata
nella vita dell’uomo medio, in cui ad ogni bisogno è possibile rispondere con una serie
esatta di azioni.
Il modello sociale veicolato attraverso tali concezioni architettoniche è quello della società
umana destinata al perfetto equilibrio evocata da Comte e Marx, ma dal punto di vista del
singolo individuo, immerso nelle contraddizioni del vivere quotidiano, esso si adatta più al
lager della Città del Sole che all’ideale di felicità.
L’ideale razionalista influenza ancora profondamente la pratica architettonica della seconda
metà del diciannovesimo secolo, guidando quindi anche il nascere e l’evolversi degli
agglomerati suburbani; la progettazione per aree funzionali e per tipologie di edificio si
concilia infatti bene con la scala spesso rilevante degli interventi, mentre un certo stile
pseudo-internazionale garantisce, molto banalmente, costi minimi nella costruzione. Anche
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risulta chiaramente diverso il processo che è alla base della configurazione di edifici collettivi, frutto di
concertazione e quindi espressione unica e mediata delle preferenze dell’intera civitas; si può in ogni caso rilevare
come le espressioni collettive riflettano le stesse caratteristiche definite come stile, le stesse scelte condivise di
linguaggio tipiche dell’edilizia privata, in un rapporto di reciproca dipendenza;
13
il razionalismo è la scuola dominante in tutto il novecento, anche in ambito residenziale, e Brasilia il prototipo della
città disegnata per essere espressione di ordine ed efficienza; l’edilizia popolare è fortemente segnata dalla volontà
razionalizzatrice che privilegia l’applicazione di moduli edilizi costanti, la concentrazione per aree funzionali e piante
a matrice ortogonale; degni eredi della già citata Coketown sono i quartieri operai degli anni Trenta, dove
all’organizzazione pianificata degli spazi si aggiunge l’omogeneità dei tratti semantici e la crescente separazione
dell’architettura dalla strada;