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Premessa discorsiva al lettore
Quando iniziai lo studio per la mia ricerca di dottorato partii da ciò che avevo
lasciato, anni prima, e che mi aveva condotto illo tempore alla discussione della mia tesi
di laurea basata sull‟analisi comparatistica di tre tragedie, legate tra loro da un rapporto
di intertestualità.
Non sapevo, all‟inizio di questo nuovo cammino, dove mi avrebbe condotto la
strada: sentivo solo l‟esigenza, allora vaga se pur molto viva, di dare forma linguistica a
dei pensieri pensati solo embrionalmente e a sensazioni vissute ma fino ad allora non
elaborate organicamente. Iniziai così la ricerca e lentamente, come per la composizione
di un mosaico, andavo scoprendo ogni giorno nuovi materiali che, di volta in volta,
collocavo l‟uno accanto all‟altro e che, senza che me ne accorgessi, giunsero a
comporre l‟immagine fondamentale che sarebbe diventata, o meglio, che era sempre
stata il disegno originario del mio intimo sistema di percezione e di elaborazione dei
fenomeni e del pensiero. Una sorta di filosofia privata, tutt‟altro che concezione
metafisica trascendentale separata dall‟empirismo, dalla contingenza, che nell‟estetica e
nell‟arte stava trovando la sua forma e la sua possibilità di espressione: il sentimento del
tragico. La mia ricerca partì dall‟analisi testuale delle tragedie del D‟Annunzio: ma
lentamente prendevo coscienza che al di là della semplice nomenclatura di genere, i
componimenti teatrali dannunziani erano più vicini ai drammi borghesi che alle vere e
proprie tragedie. In questi, infatti tra le griglie sterili nelle quali cercavo di incapsulare
gli atti, così da poter spiegare lo sviluppo strutturale del testo, scorgevo l‟espressione di
una decadenza che, intuivo, doveva comprendere non solo la sua poetica, ma inglobare
un malessere socioculturale e che sfuggiva continuamente a qualsiasi tentativo di
spiegazione testuale. Così iniziai ad approfondire la questione del tragico e della
tragedia, fino ad abbandonare il campo della narratologia e delle teorie strutturaliste e
postrutturaliste, che non illuminavano minimamente i miei interrogativi, e iniziai (anzi
ripresi) a camminare nel campo della filosofia e dell‟estetica. Per questo posso dire che
la mia ricerca sul tragico non è soltanto uno studio prettamente di analisi testuale, come
è stato il precedente lavoro di tesi di laurea: è uno studio di estetica, è intriso di elementi
etici ed estetici, scaturisce da un‟esigenza di dare forma a un sentire, un percepire che
non può che nascere dall‟esperienza reale della vita del quotidiano: per usare un
aforisma di Adorno si studia il tragico perché i tempi lo richiedono.
Cadute le illusioni della metafisica e ormai soffocati da un‟omologante industria
culturale, l‟unica possibilità per poter riuscire a far emergere uno spiraglio di
6
autenticità, nel senso heideggeriano di dis-velamento dell‟essere, è prender atto
consapevolmente che al di là delle pacificatorie immagini e del linguaggio consolatorio
che l‟industria culturale ci obbliga a subire passivamente, quasi creando una sorta di
grande fratello orwelliano, al fine di ridurre al minimo (ma spesso impedendo) la
capacità di pensare autonomamente del singolo, si trovano le macerie della modernità
che l‟Angelus Novus contempla impietrito, mentre un forte vento apre le sue ali e lo
spinge verso il futuro. Wittgenstein diceva che nel Novecento l‟uomo vive su un terreno
friabile in balia della frammentazione e senza una solida roccia su cui poggiare il piede:
obliare questo e vivere illudendosi che la società dei consumi, la società di cui facciamo
parte, possa essere l‟appiglio necessario è molto pericoloso, soprattutto se si pone la
propria volontà di supremazia non in modo esplicito (si parlerebbe allora chiaramente di
colonialismo e, nel nuovo linguaggio politicamente corretto, non è possibile più
utilizzare un termine simile) ma mascherando i propri propositi, come aveva ben notato
Marcuse, con il trucco della tolleranza. Non è dunque un caso se l‟eroe delle tragedie è
un individuo forte del suo principium individuationis, non propenso alla tolleranza,
1
nobile, ma nel senso stilnovistico di nobiltà d‟animo e non di sangue, consapevole che
la dignità dell‟uomo esige la diversità: non è un caso se uno dei temi ricorrenti quando
si parla di Auschwitz è la vergogna, perché è stata proprio la dignità dell‟uomo nel
luogo della morte programmata ad essere stata calpestata, al punto da farci tutt‟oggi
ancora riflettere con Levi se all‟interno del lager l‟uomo possa dirsi ancora un uomo. La
riflessione sul tragico non deve essere, però, confusa con quella sul dolore e sulla morte:
scrive Carmagnola che „la disperazione, il dolore, non sono il tragico […] il tragico
scompare nella fatalità di un incidente.‟
2
Dolore e morte, sofferenza e lutto sono una
parte fondamentale della vita o meglio sono una possibilità dell‟essere sul quale l‟uomo
può riflettere e immaginare un mondo alternativo, ma che non fa parte di un tempo che
non c’è più, o che non c‟è mai stato, nel quale custodire e allevare un sogno
consolatorio di cambiamento che, se facente capo a un mondo fantastico, non potrà mai
avvenire. Il mondo utopico, che l‟arte novecentesca deve esprimere, non esiste ma deve
poter esistere, nel senso che verosimilmente in un‟opera si riscontra un‟illuminazione,
per usare un termine proustiano, che sveli una verità, un senso della realtà dalla quale è
nata. L‟arte deve essere radicata nella contingenza, deve essere una spugna che ha
assorbito la vita reale, perché non c‟è più spazio, soprattutto dal secondo Novecento, per
1
Intendo in questo contesto il concetto tolleranza non nel senso classico come principio che garantisce
l‟uguaglianza, ma nel senso attribuitogli da Marcuse come mezzo insidioso per il controllo sociale.
2
Carmagnola, Francesco, „Aporie della dialettica radicale in Adorno‟, in Carmagnola, Francesco, a cura
di, Tragico e modernità, studi sulla teoria del tragico da Kleist ad Adorno (Milano, Franco Angeli,
1985), 146-157 (p. 150).
7
un‟idea di arte rasserenante, ossia di arte bella, come era (ed è) all‟interno di un regime
di pensiero metafisico. Per questo motivo, partendo dalla definizione analitica del
tragico, vale a dire in primis del pensiero critico, si giunge a una discussione sull‟arte
contemporanea: in essa si manifesta il sentimento del tragico, e la consapevolezza
umana della finitezza e della scomparsa della Verità, sulla quale si basava la
consolazione metafisica. L‟arte è technē e così come il tragico è tipica dell‟uomo, in
quanto esso, grazie alle facoltà superiori (intelletto e ragione), può percepirlo, viverlo e
dirlo tramite il linguaggio: poiché l‟uomo vive immerso, anzi gettato, nella contingenza,
e da questa l‟arte dovrà scaturire. Prima di tutto, dunque, l‟arte e il sentire tragico
devono essere anche critici, altrimenti sarebbero, come in un circolo vizioso, ricondotti
all‟interno dell‟illusorietà nichilista della vita banalizzata del si disimpegnato, nella
quale la rappresentazione, che potrebbe essere ad esempio l‟immagine fittizia della
pubblicità, è confusa con la vita reale. Non è facile, né tanto meno, sotto vari aspetti,
piacevole scegliere di voler maturare un pensiero critico e autonomo, perché criticare
significa pensare, giudicare, applicare un criterio valutativo, dare vita a una crisi: ed è
molto difficile se la tendenza ufficiale della cultura è quella dell‟omologazione che
segue il principio di identità, soprattutto perché ogni corpo estraneo al fittizio equilibrio
della società o è riassimilato in essa o da essa è rigettato. È questo è ancora un altro
aspetto del tragico (fondamentale, direi) che, pur sapendo dell‟inutilità del suo gesto che
non apporterà alcun cambiamento, porta l‟uomo ad agire: questo è l‟assurdo del tragico
che scaturisce dalle viscere della società contemporanea.
Il Novecento è assurdo. Lo sapeva bene Beckett quando ci raccontava la storia di chi,
sapendo che non sarebbe mai arrivato nessuno, aspettava, assurdamente aspettava; e lo
sapeva bene anche Camus che ci ricordava il perenne sforzo di Sisifo per portare sulla
vetta del monte una pietra che inesorabilmente sarebbe ricaduta a valle. Se l‟uomo
dovesse basare le proprie scelte solo su un principio utilitaristico (e spesso anche
personalistico) allora non ci sarebbe modo, per tale uomo, neanche di pensare il tragico.
È vero, tuttavia, che se portato alle estreme conseguenze, ossia se fosse pienamente
realizzato nella vita reale, il sentimento del tragico andrebbe verso o uno stato di follia,
come ultima spiaggia del rigetto della realtà, o alla morte inevitabile: in entrambi i casi,
però, non si può non notare che si dovrebbe parlare di un uomo che rifiuta la
contingenza nella quale vive.
3
Ma, malgrado nell‟opinione comune (che ben altra cosa è
dalla riflessione), il tragico sia un qualcosa di lacrimevole e di inevitabile morte
dolorosa, contrapposto al comico, ossia alla vita, alla gioia, in realtà, come già aveva
3
Quindi staremmo nuovamente entro un mondo altro completamente scisso dalla realtà.
8
esplicitato Nietzsche nella Nascita della Tragedia, e poi nella filosofia di Zarathustra, il
sentimento del tragico è il profondo amore per l‟esistenza e solo chi ama veramente la
vita e con essa la realtà, chi vuole prendersi cura della propria contingenza e della sua
società (costituita, ovviamente da altri uomini come lui) sente il tragico, ed anche il
paradossale e l‟assurdo. Diciamo, così, che l‟uomo ha consapevolezza tragica proprio in
quanto è gettato-nella-contingenza. Pareyson, il primo grande filosofo italiano a
riflettere sul tragico (un tragico connesso a una dimensione di religiosità nel suo caso),
diceva che la realtà è contraddizione:
4
e le contraddizioni pareysoniane non danno vita
ad aporie incomprensibili, ma a paradossi.
5
Dire che la vita è paradossale equivale a
dire che essa è la testa di Giano, nella quale, sia l‟elemento positivo che quello negativo
vivono insieme e inscindibilmente: la vita e la morte, il Dioniso e l‟Apollo, l‟aorgico e
l‟organico. La natura dell‟uomo prevede la sua paradossalità; anche il suo pensiero
quindi, è paradossale come paradossale è anche la filosofia che su di esso si fonda.
Soltanto muovendosi all‟interno di un procedimento dialettico nel quale si confrontano
in uno scontro le antinomie e i paradossi è possibile giungere a un giudizio critico, al
contrario, invece, un pensiero non pensato è quello che rifiuta il paradosso come
elemento indispensabile per permettere la consapevolezza critica, essendo convinto,
come ad esempio crede il Rorty de La filosofia dopo la filosofia,
6
che il vero filosofo
non deve più utilizzare il metodo dialettico perché deve occuparsi solo dell‟analisi delle
cose in quanto cose e non della loro essenza antinomica (non esistendo più alcuna verità
se non quella del pragmatismo, ovvio). Per capire cosa significhi pensare
dialetticamente, vale a dire non unidimensionalmente, ma valutando la complessità
antinomica che caratterizza tutti gli aspetti della vita, ci vengono in aiuto quali esempi,
quelli che Kant delinea nell‟analitica del bello, per cui il sentimento del bello è
soggettivo e al contempo universale, la bellezza è la finalità di un oggetto percepito
senza scopo, il bello è ciò che piace universalmente ma senza concetto oltre ad essere
anche un piacere necessario.
7
Chi ha consapevolezza tragica vive di paradossi, e, potremmo dire, è esso stesso
paradossale tanto che, in qualche tal modo, vive in una crisi esistenziale costante, vale a
dire sa coscientemente che ogni fenomeno può essere in qualsiasi momento messo in
discussione, criticato, e superato da un qualcosa di nuovo: ma ciò invece che provocare
4
Per ulteriore approfondimento rimando a Pareyson, Luigi, Ontologia della libertà (Torino, Einaudi,
2000).
5
Il paradosso è una parola chiave ripresa del pensiero critico, come si vedrà successivamente.
6
Rorty, Richard, La filosofia dopo la filosofia, a cura di A. G. Gargani (Bari-Roma, Laterza, 1989).
7
Kant, Immanuel, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, (Torino,
Einaudi, 2004).
9
dolore, paura e sofferenza, come la caduta delle illusioni per l‟uomo che manca di
consapevolezza, provoca la gioia di vivere, così il Sisifo camusiano è felice di
sopportare la punizione per la sua rivolta. In realtà tutti gli uomini, benché la maggior
parte di essi tenda a non pensare la propria essenza, il proprio essere come caratterizzato
da un‟antinomia, sono paradossali. Non solo perché sono al contempo animali razionali
e irrazionali, ma perché sono necessariamente liberi; perché pur aspirando all‟eterno
sono perituri. Quando si rinuncia a pensare per paradossi, adagiandosi nella culla del
pensiero unidimensionale, si rinuncia essenzialmente a comprendere la realtà in tutta la
sua complessità per accontentarsi di conoscerne solo una piccola parte, estremamente
parziale, che non permetterà mai di sviluppare capacità critiche tali da poter mettere in
discussione ciò che già c‟è, e lasciare, così, che il progresso avanzi. Pasolini aveva ben
visto quando, parlando della meta verso la quale la società dei consumi stava
direzionando l‟umanità (e non solo quella occidentale, considerato l‟invadente presenza
colonizzatrice di questa nelle terre d‟Oriente e Africane), diceva di credere nel
progresso ma non in questo sviluppo (quello della società occidentale): e non è un caso
che il poeta avesse un fortissimo senso del sacro e del tragico (sentimenti legati da un
rapporto viscerale), che ironicamente disegnerà la sua morte quasi fosse un eroe, un
parresiasta. La cultura dominante del giorno d‟oggi – contro la quale si scagliava
Pasolini, ma anche Marcuse, Adorno e via dicendo – è quella della comunicazione di
massa, della banalizzazione, della divulgazione, dell‟appiattimento e,
dell‟omologazione che nulla ha a che fare con lo spirito ugualitario professato dalla
Rivoluzione francese. Il sentimento del tragico non è un sentire particolare di solo
alcuni uomini speciali, geniali: il genio, in fin dei conti, è morto affogato nello stesso
istante e nella spessa pozza dove cadde l‟aureola del poeta. Non ci sono superuomini in
terra e, dato che il cielo ormai non ospita più alcuna divinità, non ci sono Zarathustra in
nessuna parte del cosmo. Esiste l‟uomo, con i suoi limiti, la sua ragione e i suoi
sentimenti, ed esiste in un mondo assieme a tutti gli altri uomini: il sentimento del
tragico è di tutti; tutti quanti possono percepirlo, esperirlo e possono decidere di non
obliarlo e di accettare – nel senso di non illudersi, o meglio, di lasciarsi illudere che non
sia così – anche la parte dolorosa del vivere. Ma per poter essere aperti a ricevere la
possibilità che il tragico si dis-veli, bisogna non rinchiudersi nelle mura della cultura
dominante che, purtroppo, al giorno d‟oggi è arrivata ad espandere il suo veleno anche
là dove l‟erudizione, l‟istruzione, e il sapere devono essere prodotti e difesi, le
accademie, ogni qual volta si confonde la ricerca con la divulgazione, l‟intellettualità
con il giornalismo, quando si crede di poter ridurre la complessità all‟interno di una
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griglia catalogante decretata all‟interno di un manuale. È necessario, insomma, che
l‟uomo possa esprimere liberamente la sua diversità in una società che, tuttavia, tende
costantemente verso il tutto uguale. Il problema maggiore che sorge dal principio di
identità riguarda il fatto che quando tutti sono portati, che ne siano consapevoli o no, a
fare la stessa identica azione, e a desiderare tutti le medesime cose, significa che sono
state azzerate le differenze così da poter controllare qualsiasi elemento estraneo alle
regole e alle leggi costituite e riconosciute come tali, qualsiasi elemento perturbante e
caotico in grado di mettere in discussione ciò che c’è (l‟essere della metafisica) a favore
di ciò che potrebbe essere. Ed è in ultima analisi una mera illusione: la tecnologia e la
regolamentazione di tutte le componenti dell‟esistenza umana che caratterizza la nostra
società non è altro che „il carattere razionale della sua irrazionalità.‟
8
Non è possibile
razionalizzare la parte irrazionale e creativa dell‟uomo. Come si può pensare di
rinchiudere la fantasia e il sentire, fondamentali all‟arte e alla la poesia quanto alla
critica, dentro formule che si pretendono essere esaustivamente chiarificatrici? L‟arte
per natura è indefinibile. La torre della cultura di massa, eretta già alla fine del
Diciannovesimo secolo, non è di avorio ma è composta da un materiale non nobile, che
tuttavia, appare tale: una torre che solo all‟apparenza è forte e resistente e che solo
illusoriamente, dunque, espande un senso di ordine e di sicurezza. L‟unico antidoto
oggigiorno contro la confusione mascherata da perfezione, l‟azzeramento delle
differenze, il seguire ciecamente delle regole stabilite, si ha nel pensiero critico, ossia
nel tentativo costante di non adagiarsi sulla banalità delle soluzioni idiotizzanti che
l‟industria culturale produce a tutti i livelli e della comunicazione e della produzione,
ma di mettere sempre e continuamente in discussione e in crisi tutto ciò che esiste,
basandosi non sull‟opinione comune, come spesso accade, ma su una consapevole
phronesis senza la quale non può esserci cognizione dell‟agire. Il pensiero critico è
essenzialmente un pensiero libero che non si adagia sulle opinioni comuni ma che,
anche faticosamente, va alla ricerca: scrive Marcuse che oggigiorno parlare di libertà
intellettuale, di contro alla finta libertà alla quale siamo stati abituati a credere dai mass
media, vorrebbe dire poter discorrere su una nuova „restaurazione del pensiero
individuale, ora assorbito dalla comunicazione e dall‟indottrinamento di massa, ed
equivarrebbe pure all‟abolizione dell‟“opinione pubblica” assieme ai suoi produttori‟
(28).
8
Marcuse, Herbert, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata (Torino,
Einaudi, 2004), p. 23.
11
Il tragico è inteso in questo studio come consapevolezza, pensiero critico,
opposizione, dialettica e procedimento gnoseologico: coscienza dell‟uomo del suo
essere mortale; pensiero critico come unica alternativa al pensiero unidimensionale;
opposizione all‟utilitarismo e al pragmatismo; dialettica come modalità di
argomentazione e di analisi del pensiero critico; procedimento conoscitivo insieme (e
contro) all‟episteme, che il pensiero moderno vuole totalizzante, delle scienze
empiriche. Come si definirà nel terzo capitolo la condizione tragica è quella dell‟uomo
che consapevolmente sa il suo essere destinato alla finitezza, e consapevolmente sa che,
malgrado ogni inganno possa creare, non potrà mai giungere a una sintesi o a una
pacificazione tra i poli antitetici di immanenza e trascendenza, e, contro ogni
razionalità, consapevolmente decide di non rimanere passivamente immobile nell‟inedia
o di annichilire se stesso mettendo a tacere la sua angosciosa sofferenza nel suicidio, ma
agisce ribellandosi. Per natura l‟uomo ha bisogno per vivere di creare ordine e di trovare
sintesi conciliative: ecco perché per poter rendere comunicabile la propria esperienza
tragica e il proprio sentire tragico l‟uomo ha bisogno di darle necessariamente una
forma, cosicché il gesto ribelle diviene anche il gesto ribelle e creatore di Prometeo. Il
punto di vista dal quale viene trattato il tragico è quello dell‟estetica perché, fondandosi
sul giudizio di gusto kantiano, trova nell‟arte un campo privilegiato di applicazione,
come vedremo, pur non riducendosi solo a mero studio dell‟arte. L‟estetica, infatti,
scrive Garroni ne Lo sguardo attraverso,
9
ha come scopo l‟analisi e lo studio del senso
– il senso dell‟esperienza – e non del significato – invece dato alle discipline
particolari, come la semiotica, la storia etc. – essa ha nel fondamento la messa in
discussione dei suoi stessifondamenti: ed è proprio intorno allo stesso legame che
unisce senso, paradosso ed esperienza, sul quale Garroni riflette riguardo all‟estetica,
che si costruirà l‟argomentazione teorica del pensiero tragico.
9
Garroni, Emilio, Estetica, uno sguardo-attraverso. Origini, temi e problemi dell’estetica. Una
riflessione sul rapporto tra pensiero filosofico e arte, 2ª ed. (Milano, Garzanti, 1995).
Introduzione
Perché la scelta di affrontare il tragico partendo dall‟ontologia? Secondo Szondi vi
sono due possibili modi di trattare l‟argomento (oltre a quello che svilupperà nel suo
breve ma intenso saggio dedicato al tragico, ossia del tragico come dialettica priva di
complicazioni ontologiche): o come l‟intera tradizione che parte da Aristotele fino ai
nostri giorni che, identificando il tragico come genere letterario, ne studia le strutture e
le dinamiche interne; o come concetto filosofico che, mirando ad indagine per giungere
alla conoscenza dell‟essere, non può non presupporre il suo fondamento ontologico. Nel
primo caso, dopo le riflessioni dell‟idealismo tedesco e dell‟esistenzialismo francese e
consecutivamente italiano, studiare oggi il tragico secondo le sue logiche interne
significa essenzialmente andare a verificare l‟esattezza e a confermare la sostenibilità e
la validità di teorie già formulate, sia quindi ad esempio che esse siano narratologiche,
strutturaliste, post-strutturaliste, di genere e via dicendo: ognuna di esse particolare
nello specifico ma tutte uguali nell‟essere teorie analitiche. Il motivo per cui non
scegliamo di affrontare codesto studio con un metodo analitico risiede nella convinzione
che questo sistema sia appropriato se applicato nelle scienze esatte, ossia quello il cui
oggetto di ricerca è l‟ente, come ad esempio la logica; ma quando ci si trova all‟interno
di una disciplina il cui oggetto di osservazione e di riflessione è l‟uomo, l‟essere e tutto
ciò che esso produce lontano da qualsiasi scopo utilitaristico, come la creazione
artistica, quando è impossibile il metodo analitico che pretende di razionalizzare e di
regolare ciò che per natura sfugge perennemente, a nostro avviso fallisce.
1
Scrive
Heidegger che mentre le scienze esatte devono fondarsi sulla stabilità e su regole, e di
esse si devono ricercare continuamente conferme a darne spiegazioni, l‟impossibilità di
definire una volta per tutte un metodo e delle leggi valide universalmente per le scienze
dello spirito (ossia le discipline umanistiche come ad esempio la critica letteraria e la
filosofia) fa si che „la inesattezza delle scienze storiche dello spirito non è una
deficienza, ma la soddisfazione di un‟esigenza essenziale di questo tipo di indagine.‟
2
Per comprendere la scelta del metodo, che poi detterà gran parte delle riflessioni
critiche, è bene chiarire cosa si intende per metodo analitico, o meglio per filosofia
analitica. Dalla fine degli anni Cinquanta del XX secolo c‟è l‟abitudine di distinguere
1
La polemica contro la sterilità del metodo analitico è stata molto ben argomentata da filosofi
contemporanei e in particolare dalla maggior parte dei filosofi di estetica, in particolare ricordiamo
Garroni, Givone, Di Giacomo, D‟Angelo.
2
Heidegger, Martin, „L‟essenza del linguaggio‟, in In cammino verso il linguaggio (Milano, Mursia,
2003), 127-171 (p. 79).
13
tra due macro filoni filosofici: la filosofia analitica e quella continentale. Questa
distinzione è dovuta essenzialmente all‟egemonia neopositivistico-analitica che
l‟Inghilterra e l‟America hanno assunto a partire dal periodo post-bellico, e dalla quale
scaturisce la differenza fondamentale dalla filosofia continentale: contrariamente a
quest‟ultima che si pone coma una disciplina avente scopi e procedimenti differenti
dalla scienza, quella si presenta come una filosofia scientifica in quanto pretende di
avere un metodo rigoroso e valido come quello della scienza, e di superare l‟antica
endiadi tra cultura umanistica e scientifica e per giunta va a analizzare minuziosamente
le dinamiche interne a un fenomeno, utilizzando le tecniche affini alla dimostrazione e
all‟argomentazione logico-matematica. La filosofia continentale è composta a sua volta
da varie filosofie, ognuna delle quali ha affrontato, pensato e criticato questa
contrapposizione da punti di vista differenti (sebbene tutti uniti nell‟opposizione alla
filosofia analitica – dalla quale poi scaturisce il pragmatismo): per cui abbiamo la
fenomenologia, l‟esistenzialismo, l‟ontologia, l‟estetica, il criticismo e via dicendo.
L‟analitica, tuttavia, non è un approccio completamente estraneo alla filosofia
continentale. Prima di essere una tipologia di filosofia, infatti, l‟analitica è una parte
della logica che, a sua volta, è una parte della filosofia e in particolare quell‟insieme di
procedimenti fondati sull‟analisi, grazie ai quali è possibile portare a termine dei
ragionamenti tramite la via deduttiva, quali ad esempio il sillogismo. Questa
distinzione del termine analitica è importante in questo studio poiché, per le
motivazione suddette il metodo che si segue si colloca criticamente nei confronti della
filosofia analitica come fine della ricerca, ma, per delineare quelle che Kant definirebbe
le condizioni a priori dell‟oggetto in questione, si utilizzerà come mezzo di ricerca.
Se il lettore si aspettasse da questo studio una ricerca sul tragico in termini regolativi,
rimarrà certamente deluso. Giustamente, scrive Bodei che nella nostra epoca, dal
momento che tutto è ridotto per una facile comprensione ed assimilazione ai minimi
termini, il problema complesso del sentire tragico è stato liquidato tramite un
procedimento di banalizzazione e di „assuefazione ad esso,‟
3
per tale motivo è
necessario „reintrodurre il tragico senza la volontà di renderlo assolutamente
trasparente al pensiero e di addomesticarlo‟ (V), con la consapevolezza di non poter
chiuderlo definitivamente in una formula conclusiva ed esaustiva. Per comprendere cosa
volesse dire col non rendere trasparente il pensiero, possiamo rivolgersi alla filosofia di
Adorno che, nella sua ultima opera incompiuta e pubblicata postuma, la Teoria
3
Bodei, Remo, „Pensare l‟impensabile‟, in Carmagnola, Francesco, a cura di, Tragico e modernità, studi
sulla teoria del tragico da Kleist ad Adorno (Milano, Franco Angeli, 1985), I-V (p. IV).