rifiutare l'intervento medico.
L'emergere dei diritti fondamentali di terza generazione (fra cui si deve annoverare
il diritto di morire con dignità) e l'incremento degli studi di biogiuridica hanno
condotto progressivamente ad individuare strumenti idonei a salvaguardare la
volontà del malato, sopratutto nel caso in cui l'evoluzione della patologia comporti
un successivo stato di infermità di mente che impedisca al paziente di rifiutare il
c.d. accanimento terapeutico2. Del resto, la società contemporanea è consapevole
che la salute non può essere coattivamente imposta, né può essere rimessa
all'arbitrio di terzi, ma è un bene che trova fondamento esclusivamente nella volontà
dell'avente diritto.
Si tratta tuttavia di una materia dai contorni non ben definiti, aperta a riflessioni che
investono non soltanto l'ambito giuridico, ma anche etico-religioso, che rendono
molto difficile fornire risposte universalmente condivise3.
In una materia nella quale si intrecciano discipline così disparate e dov'è, sopratutto,
difficile discernere l'ideologia dalla scienza, sembra indispensabile attenersi ai dati
dell'esperienza. E l'esperienza dimostra l'emergere, oggi, di una domanda collettiva,
largamente diffusa e crescente -come prova la documentazione statistica-, diretta
alla protezione di un bene: un bene che consiste nella dignità del morire. Dal punto
di vista giuridico, questa aspirazione si traduce in un'istanza riconosciuta dai canoni
di libertà delle nostre leggi.
Sul piano giuridico, in prospettiva futura, sarà compito del legislatore tradurre
questa istanza di libertà, adottando una disciplina appropriata, precisa, capillare
delle direttive anticipate di trattamento sanitario, il c.d. testamento biologico4.
2 Per accanimento terapeutico si intende quel complesso di interventi clinico-assistenziali non efficaci contro
la malattia incurabile, e diretti soltanto a mantenere in vita il paziente, anche al prezzo di un prolungamento
inutile delle condizioni di sofferenza, fisica e psicologica. Tra l'altro, l'accanimento terapeutico non è
consentito dal nostro codice di deontologia medica, il quale, all'art. 16, dispone che “il medico, anche
tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti
diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o
un miglioramento della qualità della vita.”
3 GIUSEPPE SPOTO, Direttive anticipate, testamento biologico e tutela della vita, in Europa e diritto
privato, 2005, 179 e ss.
4 Per “testamento biologico” o, come preferisce la dottrina, “direttive anticipate di trattamento”, si intende
(come verrà illustrato nel corso della trattazione) quel documento con cui un soggetto, in previsione di una
sua eventuale futura incapacità, detta disposizioni inerenti alle cure mediche cui intende o non intende
6
Ma c'è da chiedersi se all'interno del nostro attuale ordinamento giuridico, sulla base
cioè delle leggi vigenti, si possa definire una sorta di modello operativo di
testamento biologico5.
In mancanza di un'apposita disciplina normativa, il giurista non può che rinvenire
nei princìpi generali dell'ordinamento e nei valori costituzionali una risposta alle
molteplici domande che il progresso, sempre più pressantemente, gli prospetta.
Centrale per lui, in tale contesto, diventa la protezione della dignità dell'uomo e la
promozione dello sviluppo della sua personalità.
Inoltre, in mancanza di un'apposita normativa che regolamenti il testamento
biologico, sarebbe applicabile il principio generale sotteso all'art. 1322 c.c., secondo
cui hanno rilevanza giuridica i negozi privi, sì, di una particolare regolamentazione,
ma diretti a realizzare un interesse meritevole di tutela. In questo caso, esiste
certamente un interesse meritevole di tutela; senza considerare il fatto che esistono
dei “puntelli normativi” che possono dare fondamento alle dichiarazioni anticipate
di trattamento.
L'elaborato parte proprio da un'approfondita analisi del c.d. “consenso informato”,
quale condizione necessaria per la liceità dell'intervento medico, affinché la
relazione asimmetrica tra medico e paziente si possa trasformare in un'alleanza
terapeutica, in cui il paziente è perfettamente informato sulle sue condizioni di
salute e su tutte le alternative terapeutiche tra cui scegliere, compresa quella di non
curarsi.
Si appurerà che l'informazione al paziente, capace di intendere e di volere, non deve
necessariamente portare ad un consenso, potendo egli rifiutare qualsiasi trattamento
sanitario in virtù dell'art. 32, comma 2, Cost., secondo il quale nessuno può essere
obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, e
in ogni caso quest'ultima non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto
della persona umana; senonché, in virtù dell'art. 13 Cost, il quale proclama come
inviolabile la libertà personale.
sottoporsi.
5 DOMENICO MALTESE, Il “testamento biologico”, in Rivista di diritto civile, 2006, II, 525.
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Per approfondire la trattazione dell'ipotesi del rifiuto di un paziente capace, sia di
comprendere la sua situazione clinica, sia di manifestare la propria volontà contraria
ai trattamenti medici, verrà esposto brevemente un famoso caso italiano: il caso
Welby.
Nel secondo capitolo verrà affrontato il problema molto più spinoso del malato
incapace, il quale, prima di cadere nello stato di incapacità aveva espresso,
attraverso delle dichiarazioni non formalizzate in un testamento biologico, la
volontà contraria ad essere mantenuto in vita artificialmente.
Alcuni di questi casi riguardano i malati in stato vegetativo permanente, i quali, pur
conservando integre alcune funzioni biologiche (come per esempio la capacità di
respirare autonomamente), vengono mantenuti in vita grazie all'alimentazione e
all'idratazione artificiali. Pertanto sorge il problema, non solo se è possibile dare
valore alla volontà che questi soggetti hanno manifestato prima di cadere in stato
vegetativo attraverso delle dichiarazioni non formalizzate in un testamento
biologico, ma anche se, eventualmente, sia possibile rifiutare una tale pratica
medica, cioè se alimentazione ed idratazione possano essere considerate trattamento
medico-sanitario, e quindi possano essere rifiutate ai sensi dell'art. 32 Cost., oppure
se debbano considerarsi semplicemente degli atti infermieristici, di cura della
persona, qualificabili pertanto come atti eticamente dovuti.
In questi casi il diritto all'autodeterminazione si scontra con il dovere deontologico
del medico di curare e con il dovere di solidarietà nei confronti dei soggetti più
fragili.
Si esamineranno alcuni leading cases, cioè i casi fondamentali della giurisprudenza
americana e britannica, per poi passare ad analizzare come il nostro Paese ha, di
recente, affrontato questo problema. Si approfondirà il famoso caso di Eluana
Englaro, la ragazza a cui la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21748,
depositata il 16 ottobre 2007, ha autorizzato l'interruzione dell'alimentazione forzata
richiesta in sua vece dal padre (nominato tutore della ragazza). Questa fondamentale
sentenza ha stabilito quali sono i due presupposti per poter interrompere la terapia di
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alimentazione artificiale ad un malato in stato vegetativo permanente, che sono: a)
che la condizione di stato vegetativo permanente sia irreversibile e non vi sia alcun
fondamento medico, in base a standard scientifici riconosciuti a livello
internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità
di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una
percezione dal mondo esterno; b) che l'istanza proposta dal rappresentante legale
(nel caso specifico dal tutore) sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova
chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua
personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo
modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità
della persona.
E' stato permesso quindi che un rappresentante legale (nella fattispecie il tutore)
prendesse la decisione al posto del diretto interessato, in base ad elementi di prova
che potrebbero essere considerati aleatori e poco convincenti.
Certo, se il diretto interessato non ha la possibilità di esprimersi, è logico che lo
debba fare per lui qualcun altro6, infatti, come si avrà modo di vedere, i sostenitori
del testamento biologico fanno rientrare in questo documento, non solo una direttiva
di trattamento con la quale specificare le condizioni entro cui la persona dovrà
essere trattata nel caso in cui si trovasse impossibilitata a decidere in merito alla
propria salute, ma anche una direttiva di delega, con cui designare preventivamente
un fiduciario che avrà proprio il compito di far rispettare la volontà del delegante.
Secondo alcuni, il bisogno di una normativa specifica del testamento biologico non
è urgente poiché nel nostro ordinamento è già stato inserito un ulteriore strumento
di tutela per gli incapaci (oltre ai due tradizionali istituti dell'interdizione e
dell'inabilitazione) attraverso cui realizzare in pratica gli stessi effetti giuridici di un
6 A questo proposito, si potrebbe osservare che, nel nostro ordinamento giuridico, non è presente una
disposizione dalla quale si evince il principio per cui, quando un soggetto è incapace (naturale), c'è sempre e
comunque qualcuno che agisce per lui, e che per lui dà il consenso (il coniuge, il convivente, il genitore, il
congiunto, ecc...). Nel caso in cui un soggetto maggiorenne si trovi impossibilitato ad esprimere il proprio
consenso, è il sanitario che opera una scelta, tenendo in considerazione il fatto che, nel caso in cui
l'interessato si trovi in uno stato di urgente necessità di essere sottoposto ad un trattamento, è suo dovere
deontologico intervenire comunque, anche senza il consenso del paziente (si veda, in seguito, il paragrafo
1.2.4: Le deroghe del consenso informato).
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testamento biologico; si tratta dell'amministratore di sostegno, che il diretto
interessato può preventivamente nominare, quando è ancora perfettamente capace,
in vista di una sua futura incapacità (art. 408 c.c., così come modificato dalla legge
9 gennaio 2004, n. 6); il compito primario dell'amministratore di sostegno è
prendersi cura della persona, pertanto non solo dei suoi interessi patrimoniali, ma
anche di quelli personali; quindi a lui potrebbe essere affidato il compito di
esprimere i consensi necessari ai trattamenti medici (par. 2.7).
Il terzo ed ultimo capitolo è interamente dedicato alle direttive anticipate di
trattamento, viste come la logica estensione della cultura del consenso informato,
come la riaffermazione del principio di autodeterminazione, e come un possibile
rimedio alla problematica situazione di un malato incapace che non ha effettuato
nessuna dichiarazione formale prima di cadere in stato di incoscienza.
Si metterà in luce la differenza che esiste tra il diritto al rifiuto delle cure e
l'eutanasia, poiché i due concetti infatti generano spesso confusione; verrà
sottolineato che riconoscere valore giuridico al testamento biologico non significa
assolutamente, come molti pensano e temono, aprire la strada per una legalizzazione
dell'eutanasia.
Si cercherà di offrire una visione del dibattito dottrinale tra chi vede nel
riconoscimento giuridico del testamento biologico una riaffermazione dei princìpi
fondamentali quali l'autodeterminazione, la dignità, l'informazione, e chi, al
contrario, pone in evidenza numerosi ostacoli all'accoglimento di un simile
documento, come per esempio il fatto che non è possibile conferire efficacia e
quindi validità e vincolatività ad una dichiarazione di volontà espressa “ora per
allora”, cioè preventivamente, in un momento in cui non si ha la piena
consapevolezza di ciò che si sta dichiarando.
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