7
Su queste premesse, i sistemi a ripartizione sono destinati a fallire e la solidarietà
intergenerazionale a diventare insostenibile.
La soluzione che maggiormente viene avanzata per scongiurare la “catastrofe” è
quella di abbandonare i sistemi a ripartizione per introdurre quelli a
capitalizzazione. Ma sarà così semplice?
Quanti lavoratori saranno in grado di accumulare risparmi da investire in fondi
pensione per garantirsi una vecchiaia tranquilla alimentata da una rendita, dopo
aver vissuto una vita resa ansiosa da lavori incerti, precari e con redditi oscillanti e
ridotti da aliquote contributive troppo esose?
Un sistema misto sembrerebbe la soluzione più ottimale, perché la creazione di un
risparmio individuale andrebbe ad integrare la pensione tradizione che, ad oggi,
risulta fortemente ridotta.
Tuttavia, come si diceva poc’anzi, l’elevatezza dei contributi per il sistema a
ripartizione è un limite allo sviluppo del sistema a capitalizzazione.
Il problema che si pone è la riduzione del prelievo previdenziale in prospettiva
dello sviluppo della previdenza complementare e, al tempo stesso, si pone anche il
problema di dover continuare a garantire la copertura economica per le persone che
sono già in pensione.
Al capezzale del sistema pensionistico italiano si affolla una schiera sempre più
nutrita di medici. Tutti concordano sulla necessità di un ulteriore intervento
chirurgico, dopo quelli dei governi Amato, Dini e Prodi. Resta il fatto che coloro a
cui compete la responsabilità della decisione, persistono nella politica del rinvio,
non perché sono poco convinti della necessità di una nuova operazione, bensì
perché timorosi di affliggere un paziente, di per sé già riluttante. [Fornero 1999]
Quello che appare evidente, è che oggi la pensione non può più essere un regalo
dello Stato o il risultato della solidarietà collettiva, ma dev’essere il frutto del
risparmio individuale in età lavorativa. Occorre, inoltre, che sia un buon frutto e
non un frutto magro.
Nel corso della trattazione si affronterà inizialmente i problemi che affliggono
l’Italia e i tentativi di riforma attuati per migliorare la situazione economica del
Paese, quali la riforma Amato, Dini e Prodi e, successivamente, le proposte
avanzate da alcuni eminenti studiosi, tra cui Elsa Fornero e Franco Modigliani.
8
Non mancheranno i confronti tra i vari sistemi per cercare di individuare la
soluzione potenzialmente migliore, o “più indolore” per la previdenza italiana.
In seguito verrà analizzato il contesto internazionale, verificando le somiglianze e
differenze tra le varie realtà; dal quinto capitolo emergerà anche l’intenzione degli
Stati appartenenti all’Unione europea di creare un mercato unico della previdenza
complementare, volto, inoltre, ad agevolare la libera circolazione dei lavoratori tra i
Paese membri.
Tutta la trattazione è comunque incentrata sulla comprensione dei meccanismi che
regolano la previdenza complementare, quindi il trattamento fiscale, le tipologie di
fondi pensione esistenti e le percentuali di adesione ad essi e, in conclusione, gli
ostacoli che hanno impedito lo sviluppo auspicato dalle riforme Amato e Dini.
I possibili motivi del mancato decollo sono anche desunti dalla valutazione dei
prospetti informativi inerenti eventuali sottoscrizioni di polizze vita di tipo
assicurativo presentati nel sesto capitolo.
La presente opera non vuole essere risolutiva di un problema come quello della
previdenza che si prospetta essere ancora tema di dibattito e scontro tra le parti
sociali; l’intento dell’autrice è più che altro quello di fare un po’ di chiarezza sulla
situazione italiana e sulle conseguenze che avrebbero le scelte dei politici e dei
singoli lavoratori nel pianificare il loro futuro pensionistico.
9
1. BREVE ANALISI DEL SISTEMA PREVIDENZIALE
ITALIANO
1.1 La nascita del sistema previdenziale in Italia
Storicamente le prestazioni previdenziali hanno avuto origine volontaria, in forme
promosse principalmente da singole categorie di lavoratori, che provvedevano con
contributi personali a finanziare delle casse mutue. La previdenza in Italia quindi
nacque per mezzo di adesioni facoltative e versamenti liberi, lo Stato si limitava a
prestare la sua garanzia e a fornire un piccolo contributo. Il sistema finanziario
adottato per la gestione dei fondi individuali era a capitalizzazione.
A partire dal secolo scorso, ma con maggiore intensità dopo la fine della seconda
guerra mondiale, uno degli obiettivi della politica sociale dei governi è stato quello
di proteggere il cittadino dai rischi derivanti dall’invalidità e dalla vecchiaia. Il
primo intervento statale rilevante si ebbe nel 1898 quando venne istituito per il
settore industriale l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e ne venne
affidata la gestione della “prima cassa nazionale di previdenza” che, - durante il
periodo fascista- venne denominata INAIL. L’obbligatorietà dell’assicurazione
segna il passaggio dal principio di mutualità a quello della solidarietà tra le
categorie professionali.
Nel 1917 venne introdotto il criterio dell’automaticità dell’assicurazione sociale
antinfortunistica; in base ad esso, il rapporto assicurativo s’intendeva esistente e
valido in ogni caso ed il lavoratore aveva diritto alle prestazioni per il solo fatto
oggettivo dello svolgimento del lavoro subordinato. Sulla base di questi criteri
vennero di seguito tutelati altri eventi lesivi della capacità produttiva e del
sostentamento del lavoratore.
Nel 1919 venne introdotta la vecchiaia e l’invalidità, nel 1923 la disoccupazione
involontaria, nel 1939 fu istituita la pensione ai superstiti come forma di solidarietà
intra-familiare. Nel 1945 a fronte di 11 milioni di lavoratori attivi, le pensioni erano
poco più di un milione
con prestazioni limitate rispetto alle esigenze di vita poiché
la gestione della previdenza, ancorata al sistema della capitalizzazione, erogava
10
trattamenti strettamente legati ai versamenti effettuati nel corso della vita
lavorativa. La seconda guerra mondiale travolge anche il sistema previdenziale: le
prestazioni scendono a livelli irrisori. Dal 1948 inizia una seconda fase di sviluppo
della previdenza in Italia, secondo le direttive del nuovo Governo “i lavoratori
hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di
vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione
involontaria. [..] Ai compiti previsti in quest’articolo provvedono organi ed istituti
preposti o integrati dalla Stato.”
1
Preoccupazione costante di tutti i governi italiani del secondo dopoguerra è stata
quella di migliorare il sistema previdenziale attraverso una serie ininterrotta di
riforme – nonché ampliarlo – compatibilmente con le esigenze di bilancio nazionale
e degli istituti preposti fino a comprendere il maggior numero di cittadini allo scopo
di avviare il Paese verso un sistema di sicurezza sociale.
Con la forte espansione della grande industria il sistema pensionistico si sviluppa
ulteriormente: il finanziamento degli oneri della previdenza è assicurato dai
contributi che gravano, secondo uno schema solidaristico, sia sui datori di lavoro
sia sui lavoratori; lo Stato interviene solo in misura simbolica con un apporto di
scarsissimo rilievo rispetto alla dimensione della spesa pensionistica. La formula di
calcolo delle pensioni rimane, fino al 1968, quella contributiva.
Negli anni ’50 e ’60 con i costanti miglioramenti apportati, si gettarono i
presupposti per i futuri squilibri finanziari.
La protezione del lavoratore e della sua famiglia avvicinava le assicurazioni sociali
alle assicurazioni private, tuttavia, con l’evolversi della legislazione la disciplina
della previdenza sociale cominciò a divergere profondamente dalla previdenza
privata e ciò soprattutto per le seguenti caratteristiche:
i. Obbligatorietà: il rapporto da cui sorge l’assicurazione sociale è
obbligatorio in quanto lo Stato impone, da una parte al datore di lavoro e al
lavoratore di versare un contributo e dall’altra parte all’istituto gestore di
assicurare il rischio qualora sussistano le condizioni richieste dalla legge.
ii. Automaticità: essa consiste nel principio applicato in quasi tutte le forme di
previdenza sociale, in base al quale il diritto dell’assicurato alle prestazioni
1
art.38 della Cost. Italiana
11
nei casi previsti non viene meno per il mancato versamento dei premi o
contributi.
iii. Intervento dello Stato: con integrazioni nella gestione finanziaria degli
istituti di previdenza e assistenza sociale.
iv. La finalità: non puramente risarcitiva degli istituti assicurativi essendo loro
compito anche e soprattutto quello di reintegrare, nei limiti del possibile, la
capacità produttiva del lavoratore.
Alla fine degli anni’60 un’importante legge di riforma segna una svolta nel sistema
della sicurezza sociale: è confermata l’adozione del nuovo sistema di calcolo delle
pensioni basato sulle ultime retribuzioni introdotto nel 1968, viene introdotta la
pensione sociale per i cittadini di oltre 65 anni sprovvisti di reddito. I residui del
sistema a capitalizzazione vennero aboliti e l’introduzione del Welfare State ampliò
la partecipazione dello Stato alla spesa pensionistica al punto da sostenere
interamente l’onere delle pensioni sociali e finanziare la spesa di tutte le altre
pensioni. La solidarietà tra generazioni comincia così ad essere il principio cardine
della previdenza italiana.
Dal 1948 fino agli inizi degli anni’70 il sistema rimase finanziariamente
autosufficiente ed anche nel periodo successivo le gestioni finanziariamente attive
continuarono a sostenere quelle passive.
Gli anni’70 e ’80 sono caratterizzati, oltre che da una forte espansione della spesa
pensionistica – dovuta proprio alle grandi manovre del Welfare State –,
dall’intervento massiccio a sostegno dell’economia nazionale mediante l’istituto
dell’integrazione delle pensioni al trattamento minimo, il riconoscimento del
pensionamento anticipato di vecchiaia (prepensionamento) per i lavoratori
dipendenti dalle aziende in crisi, ma soprattutto mediante un largo riconoscimento
delle pensioni d’invalidità.
12
1.2 La previdenza nell’Italia post-industriale
Nel vecchio ordinamento italiano il finanziamento delle assicurazioni sociali era
dato dai contributi generalmente rapportati alla retribuzione; alle somme ricavate
dai contributi si aggiungevano i trasferimenti statali.
Il diritto alla pensione –sempre secondo il vecchio sistema retributivo – si acquisiva
sostanzialmente in base a due elementi: il raggiungimento dell’età pensionabile e il
godimento della prevista anzianità retributiva.
L’età pensionabile variava a seconda del rapporto di lavoro: nel settore pubblico era
di 65 anni per gli uomini e 60 per le donne, in quello privato 60 gli uomini e 55 le
donne. La differenziazione per sesso è connessa alla maternità e al ruolo familiare
della donna, ma i trattamenti tendono a convergere in relazione alla tutela sociale
della maternità e all’aumento della partecipazione femminile alla forza lavoro.
L’anzianità contributiva derivava dal rapporto assicurativo che s’instaurava tra il
lavoratore e l’apposito ente di previdenza sociale, al quale venivano periodicamente
versati determinati importi di denaro in misura proporzionale alla retribuzione
percepita dal lavoratore; ciò avveniva continuativamente per tutta la durata del
rapporto di lavoro e fino ad un massimo di 40 anni.
Dall’anzianità contributiva dipendeva la misura della pensione spettante.
La pensione di vecchiaia era corrisposta al raggiungimento dell’età pensionabile;
dopo 40 anni di anzianità contributiva fino al 1975 era pari al 74% dell’ultima
“retribuzione pensionabile”, nel 1976 divenne l’80%.
La pensione di anzianità era prevista – qualunque fosse l’età raggiunta – a favore
del lavoratore disoccupato o comunque privo di lavoro ma che poteva far valere 35
anni di contribuzioni effettive.
Oltre a questi due tipi di pensioni ne esistevano altri:
- pensioni per superstiti: pagate al coniuge o ai figli superstiti di lavoratori
deceduti;
- pensioni di invalidità: pagate a soggetti che avevano una ridotta capacità
lavorativa per motivi civili o di lavoro;
- pensioni sociali: pagate a soggetti che avevano raggiunto una certa età, privi
di mezzi di sostentamento indipendentemente dal fatto di avere svolto un
lavoro.
13
I principali regimi pensionistici del nostro Paese erano e sono tuttora gestiti
dall’Inps, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, i cui obiettivi sono più che
altro di natura previdenziale (garantire una pensione a carattere assicurativo) e di
natura assistenziale (offrire trasferimenti monetari di tipo assistenziale e forme
pensionistiche legate a particolari eventi come la guerra, l’invalidità ecc.).
I problemi finanziari del sistema pensionistico iniziano a partire dagli anni’80 e
aprono una terza fase nella storia della previdenza italiana. Dallo shock petrolifero
degli anni ’70 alla globalizzazione degli anni ’90, il ridimensionamento
organizzativo e occupazionale delle imprese porta all’espulsione dal mondo del
lavoro di centinaia di lavoratori. Le aziende usavano ampiamente l’istituto della
pensione di anzianità e della pensione anticipata di vecchiaia (prepensionamento)
per sostituire lavoratori in età relativamente avanzata con nuovi assunti, a più basso
costo. Ha quindi inizio una radicale trasformazione della società italiana: si assiste
ad un ampliamento spropositato della platea dei lavoratori tutelati e parallelamente
ad una riduzione del numero dei soggetti contribuenti e, di conseguenza, negli anni
’70 e ’80 le gestioni dei sistemi previdenziali pubblici cominciarono a manifestare
disavanzi sempre più elevati e un enorme debito sommerso, il debito previdenziale,
costituito dalla differenza tra il valore attuale delle prestazioni previdenziali che lo
Stato si era impegnato a pagare e il valore attuale dei contributi sociali che
sarebbero dovuti essere versati.
1.3 I primi anni ‘90
Agli inizi degli anni ‘90 la situazione del sistema pensionistico italiano aveva
destato grande allarme a causa non solo dell’aggravio degli squilibri finanziari ma
anche delle preoccupanti prospettive demografiche legate alla flessione della
natalità – la più bassa d’Europa – e all’allungamento della vita media e quindi il
conseguente aumento del tasso di incidenza.
2
L’incidenza della spesa pensionistica sul PIL nel 1990 risultava del 14.4%, rispetto
ad una media del 9.2%
degli altri paesi dell’OCSE; tale incremento era da attribuire
in larga misura all’invecchiamento della popolazione, alla generosità del sistema, al
2
Il tasso di incidenza è pari al rapporto tra il numero di pensionati e il numero di occupati.
14
modo irrazionale in cui le finalità di tipo assistenziale sono state perseguite
utilizzando istituti non idonei (ad esempio, le pensioni di invalidità) o il modo in
cui difficoltà riguardanti le relazioni industriali sono stati scaricati sul sistema
pensionistico pubblico (ad esempio, pensionamenti anticipati in caso di crisi
aziendali o settoriali). Le previsioni sulla dinamica demografica, inoltre, lasciavano
prevedere un ulteriore inasprimento dei problemi di sostenibilità finanziaria nel
lungo periodo.
Nei sistemi a ripartizione il processo di invecchiamento della popolazione riduce la
redditività totale poiché aumenta il tasso di dipendenza, ovvero il rapporto tra
pensionati e lavoratori-contribuenti; sulle retribuzioni di coloro che sono occupati
vengono effettuati prelievi che servono per alimentare gestioni pensionistiche che
pagano le pensioni a coloro che parallelamente hanno abbandonato il lavoro per
ragioni di età. I lavoratori di oggi pagano quindi le pensioni di altri soggetti di oggi.
Questa operazione è socialmente sostenibile solo se si dà ai lavoratori odierni la
garanzia che le loro pensioni saranno finanziate dai lavoratori di domani: in questo
schema si ha implicitamente un patto intergenerazionale.
Le stime fornite dall’ISTAT per i prossimi 50 anni destano ulteriore
preoccupazione in quanto prevedono un sostanziale incremento del rapporto di
dipendenza degli anziani: il rapporto tra il numero di persone con più di 60 anni e
quelle con età compresa tra i 18 ei 59 anni dovrebbe passare da un 29% negli anni
’90 al 47% nel 2050.
3
Elsa Fornero e Onorato Castellino
descrivono lo scenario previdenziale italiano
all’inizio del 1992 come caratterizzato da tre gravissime anomalie:
- squilibrio finanziario: riscontrabile nel forte divario tra l’aliquota di
equilibrio e l’aliquota effettiva. Gli effetti degli andamenti demografici
(allungamento vita media, bassa natalità) e delle norme legislative
(abbassamento età media di pensionamento, trattamenti pensionistici
generosi) hanno fatto aumentare l’onere gravante sulle generazioni attive.
Ciò aveva condotto i governi dinanzi alla necessità di deliberare un aumento
dell’aliquota o di rivedere le promesse del sistema.
3
Anche secondo i dati Eurostat del 2001 tra il 2000 e il 2040 il tasso di incidenza è destinato a
divenire più del doppio.
15
- Le iniquità redistributive: causate dal fatto che sussistevano regimi diversi.
La pensione era calcolata in funzione dell’ultima retribuzione – o di una
media delle ultime retribuzioni – senza tener conto della vita attesa al
momento del pensionamento. Queste disposizioni favorivano le carriere
lavorative più dinamiche e quindi coloro che appartenevano alla fascia
medio-alta della distribuzione dei redditi. Le ricadute del sistema sulla
distribuzione dei redditi erano quindi spesso ben diverse dalle aspettative,
fomentando, man mano che questi dati divennero manifesti,
l’insoddisfazione verso il sistema pensionistico.
- Gli incentivi perversi: attraverso i quali si ebbero fenomeni come
l’occultamento dei redditi e le promozioni finali fittizie; anche la scelta
dell’età in cui terminare l’attività lavorativa era influenzata dalle normative
vigenti: il limite d’età in cui andare in pensione fu abbassato proprio mentre
la vita media aumentava, inoltre, l’aumento della pensione per ogni anno di
prosecuzione dell’attività oltre il limite minimo era poco vantaggioso.
Sulla base di questi problemi la necessità di ricercare l’equità dei rendimenti
nell’ottica di un riallineamento finanziario e di un pari trattamento
intragenerazionale hanno spinto in più occasioni i recenti governi a vari tentativi di
riforma: i due esperimenti più incisivi sono stati quelli compiuti dal governo Amato
nel 1993 e dal governo Dini nel 1995 e, a parziale riconferma, dal governo Prodi
nel 1997. Le tre principali riforme attuate nel volgere del decennio sono state
ispirate al comune filo conduttore di riportare sotto controllo la spesa per le
pensioni, di ridurre il rapporto tra spesa previdenziale e PIL e di introdurre norme
perequative per raggiungere una maggiore omogeneità tra i diversi trattamenti,
mentre rimane sostanzialmente immutato il sistema dei contributi. [D’Amato;
Galasso 2001]
16
1.4 Gli anni delle riforme
Il sistema previdenziale precedente alle riforme era essenzialmente un sistema di
previdenza obbligatoria a ripartizione, in cui il calcolo dei benefici era basato sul
metodo retributivo, ovvero era in funzione della retribuzione lavorativa media
dell’assicurato durante i cinque anni precedenti al pensionamento. A questo schema
si aggiungeva una componente a capitalizzazione, il trattamento di fine rapporto o
TFR. I versamenti risultano rivalutati in base a tassi di capitalizzazione
regolamentati dal legislatore e inferiori a quelli di mercato.
La sedimentazione di provvedimenti successivi e rispondenti spesso a logiche
diverse aveva prodotto un sistema caratterizzato da grandi eterogeneità di
trattamenti nei diversi settori di impiego.
1.4.1 La riforma Amato
Un valido intervento si ebbe su proposta del governo Amato nell’ambito della
Legge Finanziaria del 1993 al fine di correggere le tendenze della spesa
pensionistica per non aggravare il rapporto spesa/PIL.
Il primo provvedimento di riforma prevedeva l’innalzamento graduale dell’età
pensionabile e dei requisiti contributivi per il conseguimento delle pensioni di
anzianità e vecchiaia e inoltre: regole comuni in materia di diritti di cumulo tra
pensioni e reddito da lavoro dipendente ed autonomo e l’introduzione di modifiche
per l’adeguamento del trattamento pensionistico alla dinamica dei prezzi
(indicizzazione delle pensioni ai prezzi, anziché ai salari).
Le linee principali della riforma Amato riguardano:
i. l’elevamento dell’età pensionabile da 55 a 60 per le donne e da 60 a 65 per
gli uomini;
ii. l’armonizzazione della normativa tra pubblico e privato: si tratta di un
processo che tende a rendere uguali le norme, la contribuzione e i
trattamenti dei vari regimi previdenziali;
iii. la pensione di anzianità spetta a chi abbia lavorato per almeno 35 anni;
iv. l’elevamento dell’anzianità contributiva ai fini della maturazione dei diritti
di pensione di vecchiaia da 10 a 20 anni. Secondo la riforma Amato la
pensione di vecchiaia si sarebbe calcolata moltiplicando il tasso di
17
rendimento – pari a due punti per ogni anno di contribuzione – per la
retribuzione pensionabile, che è una media particolare di tutti gli anni di
contribuzione;
v. l’indicizzazione dei benefici pensionistici all’andamento generale dei
prezzi;
vi. la retribuzione pensionabile è posta pari alla media delle retribuzioni
imponibili di tutti gli anni di contribuzione con riferimento all’intera vita
lavorativa;
vii. l’istituzione regole per la costituzione dei fondi pensione aperti e chiusi
incentivando l’uso del Tfr e istituendo contemporaneamente una
Commissione di Vigilanza per i fondi, il COVIP.
Queste norme riguardano i soggetti entrati nel mercato del lavoro successivamente
alla loro approvazione, vale a dire a partire dal 1994.
Di per sé la riforma Amato cambiò solo leggermente il sistema previdenziale:
limitò le uscite anticipate di cui ancora fruiva il pubblico impiego, bloccò i
pensionamenti differendoli di qualche anno o poco più: i conti pubblici trassero un
certo beneficio ma era soprattutto un principio politico che veniva affermato: non vi
erano più diritti acquisiti.
Dal punto di vista strutturale la riforma ha sensibilmente ridotto le prestazioni
pensionistiche per le generazioni più giovani. Particolarmente severa è la misura
che elimina l’indicizzazione delle pensioni alle retribuzioni; tale disposizione
comporta una notevole differenza di benessere economico tra chi è in pensione e
chi è in attività.
Alla severità manifestata nei confronti dei giovani si contrapponeva una grande
tolleranza per i pensionati e i lavoratori con più di 15 anni di contribuzione, infatti
tali cambiamenti non toccano i pensionati ma si prevedono aggiustamenti molto
modesti e diluiti nel tempo per i lavoratori in attività. In sostanza emerge una scarsa
equità di alcuni provvedimenti.
A livello di debito previdenziale si è riscontrata una diminuzione tra il prima e il
dopo Amato, ma tale variazione grava integralmente sulle future generazioni che, a
regime, si troverebbero addirittura nella posizione di poter vantare un “credito
previdenziale” nei confronti della società, perché la differenza tra il valore attuale
18
delle prestazioni previdenziali a cui hanno diritto e il valore attuale dei contributi
sociali che sono tenuti a versare risulta essere negativa. [Bosi 2000]
L’invecchiamento della popolazione accresce il peso degli elettori anziani, cioè di
coloro che tendono a preferire dimensioni e generosità del sistema attuale più
elevati; un indicatore sintetico del peso politico degli anziani è l’età mediana degli
elettori: nel 1992 era 44 anni, quella attesa per il 2050 si stima intorno ai 57 anni
4
,
di conseguenza i più giovani non hanno sul mercato politico la stessa rilevanza
delle coorti più anziane e ciò ha determinato l’emergere di questa profonda
ingiustizia tra generazioni.
1.4.2 La riforma Dini
In una situazione sostanzialmente invariata, in cui il sistema previdenziale italiano
continuava a soffrire di tre gravissime anomalie: squilibrio finanziario, iniquità
distributive e incentivi devianti, il governo Dini presentò alle Camere nel 1995
quella che fu ritenuta la vera riforma delle pensioni; essa non seguiva il percorso
della riforma Amato, ma mirava piuttosto a modificare la struttura complessiva del
sistema al fine di ottenere una più certa sostenibilità finanziaria attraverso una
diversa articolazione delle componenti previdenziali pubbliche e private.
Il disegno di legge fu approvato dal Parlamento con la Legge 8 agosto 1995 n.335 e
cominciò a sortire i suoi effetti nell’anno successivo.
Le principali caratteristiche di questa riforma comprendono:
i. l’introduzione di un nuovo metodo di calcolo di tipo contributivo per i
benefici pensionistici, che è applicato per le persone in possesso di
un’anzianità inferiore ai 18 anni a partire dal 1995 (la parte pregressa viene
computata col vecchio modello retributivo, mentre gli anni di lavoro
successivi a venire vengono valutati col metodo contributivo), a coloro che
non avevano maturato almeno otto anni di contributi alla stessa data si
applica integralmente il metodo contributivo, mentre i lavoratori con una
maggiore anzianità possono continuare con i metodo retributivo. Il metodo
contributivo introdotto consiste nell’adozione di un sistema contabile per la
maturazione dei diritti pensionistici in base al quale ciascun assicurato
4
Dati Istat 2000.
19
risulta intestatario di un conto previdenziale alimentato figurativamente da
una quota fissa della retribuzione (33% per i dipendenti,
5
20% per gli
autonomi) moltiplicata per un tasso di capitalizzazione pari alla media
quinquennale del PIL. Al montante contributivo individuale è poi applicato,
per il calcolo della rata di pensione, un coefficiente di trasformazione
crescente con l’età di pensionamento definito in base alle aspettative di vita.
Da ciò si deduce che la pensione della riforma Dini è una pensione reale,
costante, che garantisce una corrispondenza tra contributi versati e
prestazioni ricevute.
ii. L’eliminazione delle pensioni di anzianità (abolizione graduale che avverrà
entro il 2008) e la ridefinizione dei criteri per la maturazione dei diritti
inerenti le pensioni di vecchiaia. In particolare il nuovo sistema introduce il
diritto per i lavoratori dipendenti di età compresa tra i 57 e i 65 anni di
scegliere l’età di pensionamento, conseguibile con un requisito minimo di
anzianità pari a cinque anni.
iii. Non c’è più distinzione di età pensionabile tra uomini e donne: per tutti vale
la fascia pensionabile 57-65 o chi abbia maturato, indipendentemente
dall’età, almeno 40 anni di contribuzione;. la donna può però avvalersi di
“sconti” sull’età pensionabile a seconda del numero di figli
iv. L’estensione del Tfr anche ai dipendenti pubblici, estensione necessaria per
finanziare la previdenza integrativa anche nel comparto pubblico.
v. Separazione all’interno delle gestioni dell’INPS tra spesa previdenziale e
spesa assistenziale, allo scopo di rendere più trasparente il sistema della
spesa sociale.
vi. Il metodo contributivo, garantendo un trattamento di quiescenza molto
inferiore al metodo retributivo, rende necessario il ricorso ad integrazioni
per garantirsi un livello dignitoso di sopravvivenza alla vecchiaia: le
integrazioni sono da reperire sul mercato tra le varie forme di pensioni
integrative e di assicurazioni. Per consentire lo sviluppo della previdenza
integrativa Dini introduce ulteriori agevolazioni fiscali rispetto al D.lgs.
5
Tale aliquota comprende sia la percentuale versata dal datore di lavoro sia dal dipendente.
20
124/93 e la destinazione del Tfr dei neo-assunti al finanziamento dei “fondi
chiusi.”
La riforma pertanto agiva radicalmente sul sistema di sicurezza sociale e tendeva ad
indurre comportamenti molto diversi da quelli cui i lavoratori dipendenti erano stati
abituati da sempre, e questo soprattutto per le nuove generazioni.
Dal 1995 la riforma Dini ha ridotto la ricchezza pensionistica dei lavoratori attivi
con meno di 40 anni d’età, lasciando intatta la ricchezza dei lavoratori attivi con più
di 40 anni e dei pensionati causando un’ulteriore frattura generazionale. Ancora una
volta la maggioranza politica costituita dai lavoratori più anziani e dai pensionati,
ha ripartito il peso del riassetto del sistema previdenziale sulla minoranza, ossia sui
lavoratori giovani.
Gli aspetti critici salienti – rispetto alla riforma Amato – rimangono
sostanzialmente due: la durata e la tipologia della transazione dal vecchio al nuovo
regime e la sostenibilità finanziaria del nuovo regime nel lungo periodo (tali
riforme entreranno a pieno regime dopo il 2036).
È opinione generalizzata tra gli esperti della materia che la transizione sia troppo
graduale. In sostanza, la decisione di salvaguardare i diritti acquisiti dai lavoratori
con anzianità contributiva superiore ai 18 anni nel 1995 comporta un riequilibrio
finanziario dei conti del sistema pensionistico troppo lento e presenta quindi aspetti
d'iniquità redistributiva, poiché addossa l’intero costo della transizione alle
generazioni più giovani. Tali decisioni, vale a dire la velocità del passaggio al
nuovo regime e l’attribuzione dei diritti acquisiti e dei costi tra le diverse
generazioni, sono di natura prettamente politica.
L’elemento di maggiore preoccupazione è legato alla possibile manipolazione – per
motivi elettorali – dei principi di calcolo dei benefici pensionistici. Il calcolo della
pensione annua è effettuato applicando al montante contributivo un coefficiente di
trasformazione, che varia a seconda dell’età di pensionamento e tiene conto
dell’indicizzazione al tasso di inflazione. La mancata indicizzazione delle pensioni
alle componenti reali del reddito e quindi la mancata condivisione
intergenerazionale dei guadagni della produttività aggregata, potrebbe indurre
spinte redistributive.