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Non si è cercato di giungere ad una definizione del concetto di terrorismo politico, o ad una sua
precisa delimitazione; sarebbe alquanto pretenzioso, se non addirittura presuntuoso voler riuscire
dove molti precedentemente hanno fallito. Partendo dal presupposto che un’analisi del terrorismo
sotto tutti i suoi aspetti è un compito alquanto fuorviante, in questa ricerca e analisi quindi
l’attenzione è centrata in particolar modo sugli aspetti propri della scienza della politica,
tralasciando (in parte) quelle che sono le caratteristiche psicologiche, sociali e totalmente estranee
alla violenza politica considerata in senso stretto. L’intento è di analizzare nel modo più adeguato
possibile il soggetto in questione prendendo come modello uno dei gruppi terroristici più longevi e
attivi della storia contemporanea, il movimento separatista basco ETA.
La tesi si divide in due parti, la prima dedicata allo studio propriamente politico del terrorismo e
della violenza, mentre la seconda parte si pone l’obiettivo di analizzare qual è stata l’importanza del
secessionismo basco, tanto nel raggiungimento della democrazia come nel suo ruolo d’elemento
destabilizzante per il corretto funzionamento della vita politica in Spagna.
Si è cercato nei primi due capitoli di dare alcune linee chiave per un’analisi approfondita ed
esauriente del fenomeno terrorista, di considerarlo come un soggetto d’interesse politologico,
formulando ipotesi, sviluppando linee di lettura, basandosi sullo studio di casi concreti ed empirici
ed analizzando le principali teorie dei più eminenti studiosi della materia. Il primo capitolo propone
una presentazione dei più importanti avvenimenti storici e delle principali organizzazioni
sovversive che sono ricorse alla violenza come strumento d’azione politica nell’arco di due
millenni, focalizzando l’attenzione in particolare sul secondo dopoguerra, teatro dei più significativi
attentati. Per ragioni espositive, alla realtà del ‘nuovo’ terrorismo internazionale è riservato un
unico paragrafo, dove si vuole mettere in risalto le proporzioni raggiunte dalla moderna rete del
terrore, ancora in gran parte sconosciute.
Nel secondo capitolo si prova ad analizzare nel modo più esauriente possibile la complessa natura
del terrorismo politico. Non si intende giungere a una definizione che sia comunemente accettata,
dato che ancor oggi la dottrina si trova profondamente divisa a riguardo. Come scritto in precedenza
sarebbe alquanto pretenzioso, e ancor più presuntuoso porsi tale obiettivo. Si cerca invece di
inquadrare il terrorismo nella sua singolarità, differenziandolo da altre manifestazioni di violenza e
evidenziando quali sono le caratteristiche tali da renderlo così efficace e adeguato alle diverse
circostanze.
Il caso proposto e analizzato negli ultimi due capitoli è, come accennato, il terrorismo basco, di
chiara matrice etno-nazionalista, probabilmente uno tra i più conosciuti, insieme a quello nord-
irlandese, all’interno dello scenario geo-politico europeo del secondo dopoguerra.
3
Questo secessionismo, o meglio tentativo di secessionismo, ancor oggi continua a preoccupare e
creare instabilità in un regime democratico come quello spagnolo, ormai consolidatosi da più di un
ventennio. Nonostante numerosi studi e investigazioni siano già stati portati a termine, l’attenzione
si concentra soprattutto sull’analisi storico-politica e nella continua ascesa di tale gruppo
sovversivo. Al centro dell’analisi si colloca la sorprendente persistenza della sua azione sotto una
spietata dittatura come quella franchista, e la continua capacità operativa anche in seguito al
consolidamento della democrazia. Particolare interesse è riservato all’incremento dell’uso della
violenza politica in Euskadi in seguito alla morte di Franco e durante il lento processo di
consolidazione del regime democratico. La storia di un gruppo armato quale ETA (Euskadi Ta
Askatasuna) è contrassegnata da continui colpi di scena, cambiamenti che non concedono pause.
Il terzo capitolo è interamente dedicato alla complessa, turbolenta e intricata storia del nazionalismo
basco, e di ETA a partire dal secondo dopoguerra per giungere ai nostri giorni. In particolare si
sofferma sulle cause storico-politiche che hanno permesso al separatismo basco di crescere,
rafforzarsi e legittimarsi all’interno della comunità di Euskadi, sulla crisi dovuta al termine della
dittatura di Franco ed il lento consolidarsi del regime democratico e sui sanguinosi anni Ottanta,
scenario dei più tristi attentati da parte del gruppo armato. Ampio spazio è riservato anche
all’evoluzione del sistema politico nazionalista alla fine del XX secolo, all’evoluzione strategica di
ETA e ai suoi tentativi di presentarsi come legittimo interlocutore e rappresentante dell’estremo
settore radicale all’intera popolazione iberica.
Collegato al terzo capitolo è il seguente, dove ETA viene analizzata sotto tutti i punti di vista. Si
tratta di una vero e proprio studio ‘anatomico’ dell’organizzazione, a partire da quanti compongono
e simpatizzano per il gruppo armato, la loro provenienza e status sociale. Successivamente ci si
sofferma sulla struttura interna, sui settori e sulle differenti sezioni che compongono l’intricato
schema organizzativo di un movimento dedito all’utilizzo continuo dell’azione armata. Una parte
significativa è riservata anche allo studio dell’evoluzione strategica dell’operato di ETA. Ciascuno
di questi paragrafi è volutamente analizzato in modo minuzioso e dettagliato, al fine di dimostrare
come l’organizzazione non sia composta da pochi soggetti patologici, ma si tratti di un complesso
che agisce con sorprendente razionalità. Questo è documentato anche dalla capillare penetrazione
all’interno della società basca, dalla quale ETA riceve appoggio finanziario e in particolare la
legittimità per continuare a commettere attentati.
Le ultime pagine sono riservate alle contromisure messe in atto dalla classe politica e dalle forze di
sicurezza nel tentativo di debellare e sconfiggere la minaccia terroristica, agli errori commessi e ai
successi ottenuti in oltre quaranta anni di lotta al terrorismo.
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La struttura dei capitoli può considerarsi divisa in modo simmetrico. Nel primo e nel terzo viene
trattato e analizzato il profilo prevalentemente storico della materia, con ripetuti riferimenti a date e
avvenimenti, mentre nel secondo e nel quarto l’attenzione si rivolge per intero agli aspetti
strettamente politici, ricollegandosi in continuazione a quanto detto in precedenza.
Alcune parole, infine, sulla scelta dell’argomento. Potrebbe sembrare anacronistico, all’interno di
uno studio sull’effettiva portata e realtà del terrorismo, voler concentrare l’attenzione su di un
fenomeno alquanto marginale come quello basco. Allo stato attuale l’attenzione dei mass-media è
del tutto incentrata sulle conseguenze di quanto capitato l’11 settembre di quattro anni fa, e il
conflitto in Euskadi poco ha a che vedere con quanto accade in Medio Oriente e zone limitrofe.
Eppure il terrorismo di ETA è ancor oggi di estrema attualità. Il fatto che interessi solo una ristretta
zona territoriale non può far commettere l’errore di ritenerlo meno importante o non soggetto ad
alcuna considerazione a causa del, fortunatamente, sempre più ridotto numero di attentati e di
manifestazioni di violenza. Rappresenta un modello per chiunque intenda conoscere meglio la
minaccia a cui tutti siamo, oggi come oggi, esposti.
Luca Candeago
Milano, giugno 2005
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CAPITOLO 1: IL TERRORISMO POLITICO. QUADRO
STORICO.
1.1 Il terrorismo dall’età antica alla modernità.
“Il terrorismo politico è l’uso, o la minaccia dell’uso, della violenza da parte di un individuo o un
gruppo, tanto se agisce a favore quanto contro l’autorità stabilita. Questa azione pretende creare
angoscia o scatenare il panico nei confronti di un gruppo selezionato e più numeroso di quante siano
le vittime immediate, con l’obiettivo di costringere a accettare le conseguenti richieste politiche.”
(Wardlaw, 1989; 57)
Il terrorismo, come detto poc’anzi, è un elemento intrinseco della natura umana, e ne accompagna la
storia sin dalle prime forme d’insediamento umano. Durante l’età della pietra, i conflitti e le
numerose dispute per il territorio o per il bestiame sono subito apparse come manifestazioni di
violenza politica a tutti gli effetti. Le lotte per il potere nelle varie dinastie hanno sicuramente
accresciuto e consolidato l’uso della prepotenza per raggiungere obiettivi politici (Laqueur, 2002;
5). La ‘corsa’ al potere rende l’uomo sempre più impavido e meno timoroso delle leggi naturali, che
tanto hanno ispirato i giusnaturalisti come Grozio, portando sempre più ad una visione positivistica
della realtà, dove il diritto non deriva da principi fondamentali e indiscutibili, ma soltanto da una
visione strettamente giuridica del mondo, in cui tutto è regolato da leggi “create” dall’uomo, e non
appartenenti alla sua essenza.
Norberto Bobbio (1979; 29) descrive lo Stato (positivista) non tanto quanto un mezzo per eliminare
o limitare la violenza, ma un abile stratagemma per istituzionalizzarla, per renderla legittima e
legale se utilizzata dal monopolio della forza. La stessa dottrina della Chiesa per più di un millennio
ha affermato e ripetuto che opporsi al sovrano, sia esso tiranno o dittatore, è contrario agli stessi
principi cattolici. Lo stesso Giovanni da Salisbury nel “Policraticus” afferma che non vi è
possibilità per sottrarsi o per confutare il potere, e l’unica limitazione del sovrano è la sua stretta
obbedienza alla Chiesa, al potere spirituale. Con la pace di Westfalia del 1648 e la fine della guerra
dei 100 anni appare per la prima volta nella storia come consolidato lo Stato moderno, quell’entità
che vede ‘canalizzato’ il potere politico come legittimo nella figura del sovrano o del monarca, che
è riconosciuto dalla popolazione stessa. Schierarsi contro tale potere o qualsiasi tentativo di
confusione verrà da questo momento in poi classificato come “illegale”, avverso a quella che è una
6
conquista dell’uomo, e, a suo discapito, solo attraverso la via cruenta del conflitto armato. Ecco
dunque che qualsiasi tentativo di destabilizzazione politica che sorga all’interno dello stato deve
essere assolutamente spento sul nascere, o addirittura deve essere prevenuto in anticipo in modo tale
da non istigare nessun tentativo di rivolta. L’unica manifestazione di confronto armato “tollerata”
continua ad essere il conflitto tra Stati, uno scontro di livello internazionale. Le faide interne non
sono prese in nessuna considerazione, e la rivolta civile viene condannata e delegittimata almeno
fino allo scoppio della rivoluzione francese, nel 1789 (Fossati, 2003; 45).
Il terrorismo politico durante l’età moderna non riveste un ruolo di grande importanza, o perlomeno
non raggiunge i livelli del XIX secolo, quando nel primo periodo post-napoleonico gli scontri
armati interni agli Stati, specie quelli multinazionali, avranno in maggioranza un fine nazionalista-
indipendentistico.
Quanto detto non vuole assolutamente negare l’esistenza o la presenza sin dal primo secolo d.C. di
gruppi o movimenti che fanno della violenza politica la propria scienza militare, a volte l’unica
strategia. L’uso del terrore come arma non è stato inventato dai rivoluzionari francesi di fine ‘700,
ma loro precursori sono già presenti sin dal primo secolo d.C. Antichi storici romani, tra i quali lo
stesso Tito Livio e Tacito ci riferiscono nelle loro opere della presenza di una vera e propria
“agenzia del terrore” attiva in medio oriente (Laqueur, 2002; 7), quella dei Sicari. Frangia
estremista della setta ebraica degli Zeloti, considerati i primi veri “terroristi” della storia, attivi nella
parte orientale dell’impero romano durante l’intervallo 66-73 d.c. La loro attività d’intimidazione
politica è rivolta principalmente contro l’occupazione romana del tempo. La strategia bellica si
differenzia dalle altre per i targets: ogni loro operazione mira a colpire i “piani alti” della presenza
romana sul territorio, perseguendo le più alte cariche e autorità presenti nella regione, lontani quindi
dalle stragi indiscriminate e dallo sterminio di massa. Le loro tattiche non ortodosse vengono messe
in pratica alla luce del giorno, preferibilmente nelle festività, quando le masse si radunano in
Gerusalemme, loro arma preferita è un piccolo pugnale abilmente camuffato sotto i lunghi mantelli.
Sono dei nazionalisti, una fazione anti-romana e le loro vittime risultano essere i moderati, la
fazione pacifica dei Giudei.
Che il grande Medio-Oriente sia oggi una delle zone a più alto rischio per quanto riguarda attentati
terroristici non deve sorprendere, dato che già nel XII secolo opera in territorio iraniano una setta
musulmana, gli Assassini, che per Bernard Lewis, riconosciuto come il massimo esperto mondiale
d’islamismo, possono essere considerati i primi terroristi della storia (Lewis, 2004; 25). All’interno
della fazione musulmana degli Ismaeliti (sciiti) l’atto terroristico assume una valenza religiosa,
come guidati da una visione messianica. Gli Assassini vivono in isolamento, in comunità nascoste
dalle quali escono per colpire gli infedeli e sono guidati da una successione di grandi sacerdoti che
7
impartono direttive dal nord della Persia. Provocano un così vivo terrore nei loro nemici,
musulmani (governatori, sultani) e crociati, da essere ricordati molto tempo dopo la grave sconfitta
subita nel 1256 da parte dei Mongoli. Cercano di assassinare due volte il califfo, ma falliscono. Le
loro operazioni sono portate a termine da piccole unità di forza, molto disciplinate tanto da
costituire un’efficace arma politica. Agiscono sempre nella massima segretezza, utilizzando la
spada in quanto l’omicidio assume il valore di un atto sacro. Visto da una prospettiva storica, il
terrorismo degli Assassini è un tentativo inutile di una piccola setta religiosa di difendere il proprio
credo e stile di vita contro la minaccia Selgiucchide che vuole sopprimerli (Esposito, 2004; 30).
Pare che il fattore religioso all’interno del mondo musulmano abbia sempre causato crisi interne,
sfociate in vere e proprie guerre civili. Non ci si può scandalizzare di fronte alla cruda realtà che lo
scenario medio-orientale oggi propone, sono cambiati gli obiettivi ma non il tasso di violenza.
Il terrore come arma strategica o come strumento d’intimidazione viene utilizzato anche dai
Mongoli durante le loro scorrerie per le pianure del Caucaso, incutendo timore alle popolazioni che
essi depredano e razziano. La strategia bellica mongola è molto semplice ma allo stesso tempo
sicura. Costoro promettono salva la vita e il sufficiente fabbisogno nutritivo a coloro che non si
oppongono militarmente al loro passaggio, mentre in caso di resistenza armata non v'è via d'uscita,
sarebbero uccisi tutti, comprese donne e bambini. Si tratta di un vero e proprio terrorismo
psicologico, a cui sottrarsi non è possibile. La strategia terroristica di Gengis Khan sarà in seguito
riutilizzata da signori della guerra provenienti dalle zone medio orientali come il temutissimo
Tamerlano.
Più avanti nella storia, anche in piena età moderna numerosi sono i fatti storici in cui il fattore
terroristico è presente ed ha gran rilevanza Uno su tutti la notte di San Bartolomeo del 1572, quando
vengono uccisi circa tre-quattro mila ugonotti su ordine del re di Francia Carlo IX, abilmente
plagiato dalla regina Caterina de’ Medici. La stessa Chiesa cattolica ha successivamente chiesto
scusa per lo sterminio dell’ammiraglio Gaspard de Coligny e dei suoi seguaci, uno degli atti più
sanguinosi verificatisi durante le cruente guerre di religione.
Procedendo nell’epoca contemporanea analisti e studiosi del terrorismo (Rapoport, 1990; Reinares,
2001; Bonanate, 2001; Laqueur, 2002) concordano oggi nel dividere la lunga storia del terrorismo
in quattro grandi periodi, partendo dalla rivoluzione francese per arrivare all’11-S. Con il crollo
delle torri gemelle si è aperta una nuova fase storica del terrorismo, che tarderà a chiudersi per
protrarsi a lungo nel tempo.
8
1.2 Il Governo Rivoluzionario francese.
La parola terrorismo compare per la prima volta nel 1798 in un supplemento del Dictionnaire
dell’Acadèmie francese, tuttavia essa non corrisponde all’uso che ne facciamo oggi. Il Terrore è
“legittimato” dalla situazione politica post-rivoluzionaria, in quanto Robespierre cerca di creare un
sistema di sicurezza che prevenga ogni tentativo controrivoluzionario, ma tale struttura gli si rivolta
contro in poco tempo. L’utilizzo del terrore nella fase finale della rivoluzione francese implica un
ricorso a forme eccessive d’applicazione della legge, ad esempio i semplici sospettati di congiura o
di complotto sono ghigliottinati senza possibilità di difendersi. La macchina della morte non
risparmia neppure i sovrani francesi Luigi XVI e Maria Antonietta. La “legge dei sospetti”
rappresenta il primo atto terroristico universalmente riconosciuto della storia, il monopolio della
forza da parte del Comitato di Salute Pubblica è totalmente dedito alla difesa nazionale, o almeno a
quello che si pensa fosse l’interesse della nazione. Robespierre e Saint-Just sono i due massimi
teorici del Terrore che, benché lo concepiscano in modo differente, con elementi quasi contrastanti,
essi considerano fondamentale per la salvezza e la tutela della rivoluzione:
Robespierre afferma che “La massima principale della politica dev’essere quella di guidare il
popolo con la ragione, ed i nemici del popolo con il terrore. La forza del governo popolare in tempo
di rivoluzione è ad un tempo la virtù e il terrore. La virtù senza la quale il terrore è cosa funesta; il
terrore, senza il quale la virtù è impotente. Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa e
inflessibile. Essa è dunque un’emanazione della virtù”
1
. Saint-Just dal canto suo sostiene che
“…...la giustizia è per i nemici della repubblica più temibile del solo terrore. Il terrore è un’arma a
doppio taglio, di cui gli uni si sono serviti per vendicare il popolo, ed altri per servire la tirannia; il
terrore ha riempito le prigioni, ma i colpevoli non vengono puniti; il terrore è passato come un
uragano”
2
. Il terrorismo con la Rivoluzione Francese ottiene il suo primo riconoscimento
istituzionale. La violenza politica viene per la prima volta ufficializzata e riconosciuta come basilare
per la salvaguardia dell’interesse nazionale. Dall’instaurazione della dittatura giacobina appare sulla
scena il tipo di terrorismo di Stato sui generis: il terrorismo rivoluzionario, teorizzato da
Robespierre il 4 febbraio 1794 di fronte al Comitato di Salute Pubblica. Instaurando una dittatura
totale, che scova cospiratori in qualsiasi strato sociale, i giacobini finiscono però per stravolgere lo
spirito del 1789, alimentando così critiche che storici e filosofi non risparmiano ai figli “degeneri”
della Rivoluzione.
1
M. Robespierre, Discorso del 18 piovoso (5 febbraio 1794) alla Convenzione nazionale
2
Louise Antoine de Saint-Just, Rapporto sulle persone incarcerate, presentato alla Convenzione nazionale l’8 ventoso
(26 febbraio 1794).
9
La centralità del terrore nella legittimazione e salvaguardia di un sistema politico contrassegna
quindi il biennio 1793-1794, e pertanto non si può non riconoscere l’importanza che ricoprono gli
scritti di Robespierre e di Sain-Just per un’analisi storico-politica dell’elemento terroristico. La loro
dottrina sarà difatti in seguito ripresa e rimodellata da capi di stato che faranno del Terrore il loro
unico mezzo di legittimazione politica, quali Stalin, Pinochet, Sukarno.
10
1.3 L’Ottocento e il Novecento.
Il secolo XIX è considerato come il “centenario della pace”, in quanto conflitti mondiali non si sono
verificati, e la guerra più cruenta è stata combattuta sulla sponda occidentale dell’Oceano Atlantico
tra gli stati americani del nord e quelli del sud (guerra civile americana, 1861-1865). Questo dato
però non esclude che nel vecchio continente non avvengono fatti di sangue di una certa importanza,
e che il terrorismo non condizioni la vita politica tanto interna quanto internazionale degli Stati. E’
curioso che sia proprio avvenuto il contrario, in altre parole che in mancanza di conflitti ritenuti
‘simmetrici’ dalle dottrine strategico-militari (combattimenti inter-statali), il livello di minaccia
terroristica sia aumentato esponenzialmente col passare del tempo, tanto da essere considerato una
vera e propria scienza militare nell’ultimo ventennio del secolo. Le varie guerre di Crimea (1853-
1856), le tre lotte armate per la completa conquista dell’indipendenza italiana (1848-1849, 1859-
1861, 1866), il conflitto franco-tedesco (1870-1871) fanno da sfondo ad azioni di chiara matrice
terroristica aventi un'influenza fortissima sul sottile equilibrio politico-internazionale del tempo.
La teoria (Bonanate, 1979; 132) che vuole il terrorismo sempre presente in periodi di “status-quo” o
di relativa pace (giacché periodi di pace assoluta non esistono) sembra essere consolidata dai
numerosi attentati compiuti nel corso del XIX secolo, sia da singoli individui, sia da complesse
organizzazioni che eleveranno la strategia del terrore a vera e propria dottrina militare. La presenza
del terrorismo si impone con una forza drammaticamente crescente, il ricorso a forme di violenza
organizzata si associa dunque alle dimensioni della lotta politica. Nella stessa misura in cui cresce la
quantità di persone che si occupano di politica, così aumentano le possibilità di tensioni tra gruppi
sociali e ideologie diverse tra loro.
Di conseguenza il terrorismo inizia a dipanarsi secondo una linea parallela a quella della
formazione di uno o più Stati. In seguito al crollo dell’impero napoleonico movimenti nazionalistici
cominciano ad avanzare pretese nei confronti delle grandi nazioni protagoniste al Congresso di
Vienna (1814-1815), che segna il passaggio della storia moderna a quella contemporanea. La
Francia ad esempio deve affrontare le forti richieste d’indipendenza da parte della penisola iberica,
che da troppo tempo è rimasta soggiogata al potere transalpino. Lo scoppio dei nazionalismi in
Europa non porta allo sviluppo di vere e proprie strategie terroristiche, ma alcuni attentati sono
determinanti, in quanto incidono sulle decisioni delle classi al potere e condizionano il sistema delle
relazioni internazionali nel vecchio continente.
11
L’attentato più eclatante dei primi settanta anni del secolo XIX è quello pianificato dall’italiano
Felice Orsini il 14 gennaio 1858 contro l’imperatore di Francia Napoleone III
3
. Sembra quasi
paradossale che un’azione di chiara matrice terroristica, forse la prima in Europa di tale spessore,
influisca in modo così rilevante sui sottili equilibri di potere dell’epoca. E’ questa azione estrema da
parte di un convinto patriota a convincere il sovrano francese nella sua azione d’appoggio al Regno
di Sardegna durante la lotta con l’impero asburgico. Il terrorismo porta al raggiungimento di un
obiettivo che la semplice diplomazia tarderebbe a realizzare, con la piena soddisfazione della classe
politica sabauda, primo fra tutti il Conte Camillo Benso di Cavour. Il caso qui riportato deve però
essere classificato come un’eccezione, le azioni di chiara estrazione terroristica nella parte centrale
del secolo XIX hanno conseguenze più ‘scomode’, e raramente si raggiungono gli obiettivi
prefissati o, come nel caso di Orsini, influiscono in maniera decisiva su processi di decisione
politica.
Le varie manifestazioni di terrorismo del periodo risorgimentale e post-risorgimentale, per quanto
possano essere differenti scopi e contesti politici, hanno un’origine comune: sono caratterizzate
tanto dall’ascesa della democrazia come del nazionalismo. La maggior parte delle rivendicazioni
sono già presenti in precedenza: le minoranze sono oppresse, alle nazioni viene continuamente
negata l’indipendenza, i governi autocratici spadroneggiano. L’indipendenza ottenuta dal Belgio
con la rivoluzione del 1830, la guerra intrapresa dagli indipendentisti greci tra il 1821 e il 1827
contro l’Impero Ottomano con la proclamazione dello stato libero nel 1829 sono solo alcuni degli
avvenimenti storici che fanno dell’Europa il ‘calderone’ del nazionalismo. Tutti i grandi imperi
devono affrontare emergenze terroristiche, quasi sempre una guerra è necessaria per il successo dei
movimenti indipendentistici, e quasi ogni guerra è preceduta da una fase di lotta rivoluzionaria. Per
tutto il XIX secolo e metà del XX il terrorismo si segnala come l’arma di chi non è ancora stato, di
chi lo vuol diventare o di chi lo vuole distruggere, per poi “rimodellarlo” a suo piacimento.
Il terrorismo vero e proprio, ovvero la trasformazione della violenza politica occasionale in un’arma
politica e strategica compie i primi passi tra il 1880 e il 1930. Lo scenario storico-geografico è
l’Europa Orientale, dove il ricorso al terrore ha la punta più significativa nel populismo russo, a cui
si affianca la diffusione del terrore anarchico-individualistico.
3
D’origini emiliane, studente universitario a Bologna, Orsini si affiliò al movimento mazziniano “Giovine Italia”
appena ventenne. Battutosi a lungo in difesa della repubblica, emigrò in Gran Bretagna dove con alcuni complici
pianificò l’attentato di Parigi. Nonostante il lancio di tre bombe a mano e la distanza ravvicinata, l’imperatore riuscì a
salvarsi dagli ordigni e a bloccare il piano rivoluzionario di Orsini. Vi furono numerose vittime, e probabilmente
proprio per questo il politico italiano ebbe un contegno esemplare durante il suo breve periodo di prigionia precedente
la condanna a morte. Scrisse alcune lettere allo stesso Napoleone III che contribuirono a creare un clima diplomatico
favorevole all’intesa tra Francia e Regno di Sardegna.
12
Tra il 1878 e il 1881 numerosi gruppi politici anarchici-russi attuano e sfidano apertamente l’impero
zarista. Il regime politico dei Romanov è descritto come quanto di più arretrato, dispotico e ottuso si
potesse trovare in Europa, il popolo è sottomesso e l’impero ancorato ad un modello di vita feudale.
I dirigenti rivoluzionari si propongono di compiere azioni esemplari dirette a colpire figure chiave
dell’apparato statale e autoritario, così da farlo apparire vulnerabile agli occhi delle masse e fornire
a queste un modello d’eroismo rivoluzionario. Tra i numerosi movimenti il più importante è
l’organizzazione politica “Zemlja i volja” (Terra e libertà), che rappresenta il punto di partenza di
quel movimento politico destinato a sfociare nella rivoluzione d’Ottobre del 1917. L’organizzazione
è composta di una parte più estremista, chiamata “Narodnaja volja” (Libertà del popolo) che si
segnala al popolo russo per l’audacia della sua azione volta alla distruzione dell’autocrazia zarista.
Vittime illustri delle varie operazioni sono il governatore di San Pietroburgo generale Trepov
assassinato da Vera Zasulic, e il Generale Mezentsev, capo della “Terza Sezione” (la polizia segreta
zarista) ucciso nell’agosto del 1878. Lo stesso zar Alessandro II è condannato a morte da parte del
tribunale rivoluzionario della “Narodnaja volja”. Secondo quanto pianificato la strategia deve
riuscire a fondere ceti sociali fino allora separati contro un comune nemico, ma la natura
fortemente progressista di questo movimento entra in contraddizione con il pensiero marxista,
evidenziando una permanente e insanabile spaccatura. Per Marx il programma d’evoluzione delle
classi deve seguire la fase organizzativa di un movimento che soltanto nella sua fase matura
potrebbe sfidare il potere politico e scatenare la rivoluzione. Per Bakunin e i suoi seguaci le
condizioni per la rivoluzione devono invece essere create da campagne di terrorizzazione del
nemico, realizzate per mezzo d’attentati (Bonanate, 2001; 76). In seguito ad un primo fallimento nel
1874 il modus operandi dell’organizzazione si fa più cauto, incomincia la costruzione di un
movimento clandestino più maturo, tanto da portare il primo marzo del 1881 allo scopo prefissatosi:
l’omicidio dello zar Alessandro II. E’ l’apogeo dell’azione terroristica russa, ma allo stesso tempo
decreta la crisi del movimento; il popolo non risponde in modo sperato, non imbraccia le armi, ma
addirittura reagisce in modo ostile al disordine e alla violenza indiscriminati. Il populismo entra
nella sua fase di declino, condannato dalla stessa strategia terroristica, rivelatasi inutile e
controproducente se associata ad un programma di tipo progressista.
Il terrore in Russia non termina con il tentativo fallito dei populisti anti-zaristi, ma ha una seconda
ondata nella prima decade del XX secolo. Sponsorizzati dal Partito Rivoluzionario Socialista, gli
attentati ‘mirati’ si aprono con l’assassinio del ministro degli interni Sipyagin nel 1902. Gli anni
seguenti vengono segnati da un incremento esponenziale d’atti terroristici; nel giro di tre anni il
numero dei morti sfiora i duecento. In seguito il numero diminuisce rapidamente, tanto da scendere
ad un’unica unità nell’anno 1910.
13
L’organizzazione terroristica dei Rivoluzionari Socialisti cessa di esistere, non vi sono più attentati
di notevole spessore, unica eccezione una terza ondata di terrorismo politico in seguito al colpo di
stato bolscevico del 1917. E’ diretto contro i “leader” del Partito Comunista e contro i diplomatici
tedeschi nel tentativo di sabotare i negoziati di pace tra Russia e Germania al termine del primo
conflitto mondiale.
Dalle operazioni terroristiche di forte stampo anarchico dei populisti russi è possibile trarre un
prezioso insegnamento, una “legge del successo terroristico”: fa parte della stessa natura
terroristica la provvisorietà, se l’obiettivo non viene raggiunto in breve tempo, il successo risulta
addirittura impossibile.
Come visto, L’Ottocento è teatro del sorgere e dello sviluppo d’istanze nazionalistiche. I casi belga,
greco, italiano e tedesco fungono da esempio per altre realtà dell’Europa centro-orientale aspiranti
all’indipendenza. Ma non sarebbe la guerra convenzionale lo strumento della loro lotta, bensì il
terrorismo. L’Impero zarista con il suo sistema politico oppressivo e dispotico suscita al suo interno
gli ‘anticorpi’ terroristici, ma la violenza politica rimane un fattore nazionale.
Nell’ultimo ventennio del secolo perdura in Europa un’unica grande realtà statuale, l’Impero
ottomano. Immenso e difficilmente controllabile si presenta come un crogiolo di razze e di
tradizioni, disorganizzato nei suoi apparati di potere, autocratico. Se la zona medio orientale può
godere di una certa stabilità, grazie anche alla sapiente azione anglosassone dedita alla
conservazione dell’equilibrio di potenza, lo scenario occidentale presenta forti contrasti e
agghiaccianti lotte politiche, sia rivolte contro l’amministrazione centrale turca, sia di manifesta
natura etnica. L’Europa balcanica, teatro ancor oggi di forti incompatibilità, si pone l’obiettivo
dell’indipendenza nazionale cercata attraverso la pratica terrorista. Teatro principale di questi
movimenti nazionali è la Macedonia, terra dal grande passato (Alessandro Magno), popolata da una
moltitudine di razze divise da religioni millenarie (cattolici, ortodossi, musulmani). Il terrorismo si
trova proiettato sulla scena internazionale, giacché questo limitato territorio è conteso da alcuni dei
più importanti attori del sistema politico balcanico di fine Ottocento, quali Impero austro-ungarico,
Bulgaria e Romania. Punto di riferimento per i nazionalisti macedoni è l’IMRO (Organizzazione
Rivoluzionaria Interna Macedone). Nata come una società di propaganda civile, dà ben presto una
svolta alla sua azione convertendosi in un vero e proprio movimento militare, preparato per attuare
in modo terroristico e per portare le masse all’atto rivoluzionario. Appoggiata strategicamente dalla
Bulgaria, il movimento si organizza in cellule segrete, la loro strategia si appoggia su una
valutazione corretta della situazione internazionale. L’insurrezione di massa tanto aspirata si
conclude in una catastrofe, non raggiunge l’indipendenza e nemmeno passa sotto il controllo della
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Bulgaria, che l‘ha sorretta con continue operazioni di intelligence. E’ la Serbia ad accaparrarsi
questo fazzoletto di terra che tante sofferenze causa e ancora continua a provocare.
L’azione terrorista macedone non è la sola indirizzata contro l’Impero Ottomano. Nella vicina
Armenia l’insurrezione contro l’oppressione turca comincia nell’anno 1890. Gli attentati armeni
portano ad una durissima repressione da parte ottomana, tanto che ancora oggi il genocidio armeno
riscuote disapprovazione e rimane una pagina indimenticabile della storia umana a causa delle sue
dimensioni e della sua brutalità.
Nella regione balcanica sta nascendo attorno al secondo decennio del XX secolo un altro gruppo
armato, che fa della pratica terrorista l’unica strategia: la tristemente famosa Mano Nera. Nelle file
di tale organizzazione sarà indottrinato il più famoso terrorista del Novecento, artefice dell’attentato
più celebre della storia moderna, Gavrilo Prinzip. Membro della società segreta “Giovane Bosnia”,
che il 28 giugno 1914 uccide l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie durante la visita ufficiale
dell’erede al trono austro-ungarico a Sarajevo. L’azione terroristica agisce da detonatore sulla già
critica e fragile situazione geo-politica del tempo, determinando le condizioni che portano di lì a
poco allo scoppio del primo conflitto mondiale (1914-1918).
Se l’Europa Orientale viene attraversata da continue guerre civili e da lotte armate, la parte
occidentale del vecchio continente vive in un equilibrio sottile dettato dalla realpolitik bismarkiana.
Movimenti anarchici a favore della violenza armata sono artefici delle azioni terroristiche di
maggior rilievo in un arco storico trentennale, dall’inizio degli anni 1880 fino alla prima decade del
XX secolo. I loro obiettivi sono individuabili tra statisti, capi di governo e uomini di potere. Tra le
vittime ricordiamo il presidente Francese Carnot assassinato nel 1894, il primo ministro Spagnolo
Antonio Canovas ucciso nel 1897 e il Re d’Italia Umberto I nel 1900. Gli attentatori attuano sempre
di propria iniziativa, senza alcun appoggio politico esterno. Psicologicamente interessante, l’”era
degli attentati” non ha un gran significato politico intrinseco. Le motivazioni di queste piccole unità
anarchiche occidentali sono prevalentemente rivolte ad iniziative personali e la loro importanza
risulta spesso accentuata. E’ possibile confermare che non si verificano campagne terroristiche tanto
in Europa Occidentale come in quella Centrale (Germania, Austria). Eccezioni a tale categorica
affermazione sono rappresentate da due stati che ancor oggi devono convivere con la minaccia
terrorista, la Spagna e, in misura molto minore, il Regno Unito.
La penisola iberica è uno scenario di violenza politica in cui il terrorismo assume un ruolo di
particolare importanza. Se il fenomeno secessionista basco appare solo a partire dalla seconda metà
del secolo XX, manifestazioni di violenza rivoluzionaria sono presenti lungo tutto il novecento: la
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guerra carlista
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viene accompagnata da cruenti scontri, nei territori di frontiera il terrorismo diventa
endemico. Dal 1890 al termine della prima Guerra Mondiale la Spagna ha la sua “era di attentati”,
compiuti da anarchici, in particolare dal gruppo FAI. Queste azioni sovversive sono determinanti
dal punto di vista politico, in particolare per aver alimentato la guerra civile ed i fatali eventi del
1936-1939. Una delle regioni più colpite risulta essere la Catalogna, anche se molti anarchici in
seguito sono costretti a fuggire in America Latina, soprattutto Argentina. Tra questi va evidenziata
la personalità e il carisma di Buenaventura Durruti, di origini basche.
Quanto al Regno Unito, il suo territorio non ha mai sofferto la presenza di forze nemiche sul suo
suolo, ma è una delle realtà più colpite da atti di natura terrorista del XX secolo. Pochi stati
conoscono una violenza interna tanto lunga e sanguinosa, e solo a partire dalla metà degli anni ’90 il
conflitto politico-religioso presente nell’Ulster raggiunge una tregua solida. La storia del terrorismo
irlandese non è ancora terminata e presenta caratteristiche peculiari, ‘pioniere’ per quelli che sono
stati gli elementi distintivi del terrorismo di fine Ottocento. Si tratta del primo movimento
terroristico urbano su larga scala. Le forze combattenti vengono continuamente alimentate dalla
popolazione, e il suo elemento più caratteristico è rappresentato dalla nitidezza della vittoria,
dall’aver strappato l’indipendenza al leone d’Inghilterra. L’azione del gruppo armato del Sinn Fein
(la Irish Republican Brotherhood) porta sin da subito a una situazione senza via d’uscita, salvo che
le pretese d’indipendenza da parte della popolazione irlandese non vengano esaudite. E’ proprio il
popolo a permettere che le azioni terroriste siano ripetute, ad appoggiare indiscriminatamente i
gruppi armati, a sostenere economicamente le operazioni di intelligence. Dalla “Pasqua di sangue”
del 1916 al 1921 si susseguono episodi di disumana violenza, attentati che costano la vita a più di
450 cittadini. La guida carismatica di Eamon de Valera dalle carceri inglesi, l’astuzia strategica
dimostrata da Michael Collins sono solo alcuni dei fattori determinanti per il raggiungimento
dell’indipendenza irlandese. Nasce l’Irish Republican Army, meglio conosciuta come IRA.
Organizzata come un vero e proprio esercito, considera obiettivo strategico qualsiasi simbolo del
potere britannico. Leader indiscusso di questo gruppo armato è Michael Collins, al quale si deve la
grande svolta strategica che porta i separatisti irlandesi al successo, la decisione di portare il terrore
direttamente su suolo britannico. Il 6 dicembre 1921 il primo ministro Lloyd Gorge concede
all’Irlanda del Sud lo statuto d’autonomia, i terroristi hanno vinto. Le vicende storiche irlandesi
sono d’esempio per altri movimenti indipendentistici, che di lì a poco porteranno la tattica terrorista
ad una vera e propria strategia militare.
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Il movimento carlista (dal nome di Don Carlos di borbone fratello di Ferdinando VII) nacque dal conflitto insorto sulla
successione al trono di Spagna tra due rami dei Borboni all’inizio del terzo decennio del XIX secolo. Esso trovò nei
Paesi Baschi e in Navarra la sua più importante base di massa. Le due guerre civili del 1833-1837 e del 1872-1876
lasciarono nella regione uno strascico di risentimenti e memorie che influenzarono sensibilmente gli atteggiamenti
politici della popolazione autoctona verso il centro.