II
meno, deve conoscere la finanza non meno della programmazione e del
marketing; e probabilmente neppure sta nelle doti creative o umane.
La differenza fra i due modelli, ad libitum e a tempo fissato, consiste
principalmente nell'esprimere le competenze professionali in realtà sempre
diverse e condensarle in un lasso ben definito.
In particolare i dirigenti temporanei operato il cambiamento concordato in una
determinata impresa nel tempo definito a priori, non si sentono adatti a gestire
la quotidianità e abbandonano. I temporary manager che ho avuto il piacere di
conoscere si sono sempre definiti come gli "artefici del cambiamento" e mai
come i "nocchieri del consolidamento ", pur necessari.
Si è poi passati all'analisi del mercato del temporary management.
Subito è emerso che gli spazi sono davvero limitati a causa principalmente di
una ancora scarsa informazione e di una poco lusinghiera pubblicità ad opera
dei più "classici consulenti aziendali" che vedono in questi professionisti delle
azioni una minaccia al loro mercato principalmente fondato sul consiglio.
Ci si è accorti cammin facendo che anche in questo ristretto ambito del
temporary management esistono diverse impostazioni circa la corretta
interpretazione dell'attività.
La prima scuola di pensiero che fa capo ad A.TE.MA. è rappresentata dai
cosiddetti "manager free lance". Essi intendono il temporary management
come filosofia di vita. Lo interpretano come un servizio offerto all'impresa
sulla base di una precisa motivazione personale. In sostanza prima nasce la
vocazione al temporary management poi l'attività ad essa coniugata. Tale
corrente, a mio parere la più autorevole, ha come peculiarità appunto lo
Introduzione
III
svolgere la professione senza strutture formali. Il manager lavora e si
promuove da solo.
Il suo modo per pubblicizzarsi e conseguentemente per trovare incarichi,
avviene mediante il passaparola. Le imprese verificato come ha lavorato in
quell'azienda decidono di incaricarlo a loro volta.
Nel 1993 nasce A.TE.MA., l'Associazione Italiana per il Temporary
Management. Si osservi che l'acrostico recita "per il temporary management"
e non "di temporary management", proprio ad evidenziare che lo scopo
dell'associazione, e non della società, è esclusivamente quello di promuovere
questa attività. Essa, che non ha fini di lucro, raccoglie fra i suoi associati
operatori di temporary management, consulenti, imprenditori, società di head
hunter, e tutti coloro che desiderino divulgare la cultura del temporary
management. Non si tratta cioè un'agenzia alla quale rivolgersi per trovare un
manager adatto a particolari esigenze; è un consesso di persone motivate dal
promuovere in tutti gli ambiti questa filosofia operativa.
La seconda scuola di pensiero è invece rappresentata dalle società
specializzate. Queste affermano di essere state le prime a portare in Italia il
modello originale statunitense, ed hanno un funzionamento operativo assai
diverso dai manager free lance. Sono società, solitamente di capitali, che
dispongono di manager competenti "in panchina", cioè manager, che
all'occorrenza sono contattati ed inseriti nell'impresa richiedente. Ora la
domanda che può sorgere è: che differenza esiste fra queste società e le società
di head hunter?
IV
La differenza consiste nel fatto che il manager non viene assunto dalla società
committente e la società specializzata durante l'intervento coadiuva il
manager.
I rapporti obbligatori definiti dal contratto sono esclusivamente fra la società
di temporary management e l'impresa richiedente il servizio. Il manager ha un
contratto esclusivamente con la società specializzata, contratto non di
dipendenza, allorché potrebbe individuarsi la fattispecie dell'intermediazione
di manodopera, ma un contratto di collaborazione.
Oltre comunque agli aspetti collegati al rapporto contrattuale, la vera
differenza fra le due impostazioni sta nel supporto che la società specializzata
fornisce al manager durante lo svolgimento del suo intervento. Essa cioè
affianca il manager durante le varie fasi analitiche ed operative garantendogli
le conoscenze delle quali questi dovesse eventualmente deficitare mediante lo
staff di dirigenti "in panchina".
Una caratteristica sulla quale entrambe le scuole tuttavia concordano è la
garanzia del buon esito dell'intervento mediante l'assunzione della
responsabilità.
Ad intervento non riuscito corrisponde un mancato guadagno e talvolta la
corresponsione di una penale al committente. I contratti sono infatti formulati
in modo tale da assicurare al manager un compenso in fase di svolgimento
dell'intervento ed un consistente bonus ad ultimazione dello stesso.
Quest'ultimo è tuttavia a condizionato dal conseguimento del risultato
concordato che deve avvenire nel tempo stabilito.
Introduzione
V
La caratteristica della responsabilità costituisce un elemento differenziante del
temporary management rispetto a tutte le altre attività e forme di consulenza
unita naturalmente alla operatività in prima persona del temporary manager.
Il consulente infatti non svolge direttamente la gestione del business. Egli si
limita a fornire dei suggerimenti, a formulare ipotesi, a redigere gli scenari e
le relative azioni sul "blue book" che poi rimane alla consultazione del
management dell'impresa. Inoltre egli non è responsabile dei risultati che
l'imprenditore raggiunge.
Il temporary manager, come si è detto sopra, invece risponde personalmente
del risultato ed agisce in prima persona all'interno dell'impresa ricoprendo
incarichi che lo pongono di fatto a gestire la transizione di fronte alla quale
l'impresa si trova.
Un'altra caratteristica sulla quale vi è accordo è l'età.
Il temporary manager deve avere un'età non inferiore ai quarantacinque-
cinquanta anni. Difficilmente prima di quest'età è probabile avere maturato
un'esperienza ai massimi livelli tale da consentire di affrontare i problemi che
possono presentarsi nella diverse funzioni, divisioni, mercati o imprese.
La ricerca empirica del lavoro ha infine termine con la descrizione delle fasi
che caratterizzano un intervento. Questa parte è principalmente il frutto
dell'analisi compiuta insieme ad un temporary manager basata su alcuni casi
concreti tutti di una durata media di quindici-diciotto mesi.
VI
Dall'esperienza è emerso che il punto di svolta dell'intervento si concreta in
due fasi ben precise:
™ intorno al terzo mese quando il manager, a fronte dei primi risultati,
acquisisce definitivamente la fiducia dei collaboratori e della proprietà;
™ intorno al dodicesimo mese nel momento in cui il management capisce
che fornendo la massima collaborazione agevolerà il lavoro del manager
ed otterrà in cambio la sua prossima uscita rientrando in tal modo nei
ranghi tradizionali.
Ciò che mi preme di sottolineare è come non tanto dalla lettura dei libri, per la
verità pochissimi in commercio, bensì attraverso l'incontro con i con i veri
protagonisti, i temporary manager, abbia compreso, e mi sento di dire, in parte
condiviso la vera essenza, la filosofia comportamentale che è il fondamento di
questa attività: lavorare per diventare inutili.
Introduzione
VII
Al termine di questo lavoro, ritengo doveroso estendere un sincero e deferente
ringraziamento a tutti coloro che mi hanno aiutato con il loro contributo e
sostegno, alla realizzazione dell'elaborato.
In particolare la mia riconoscenza va al Professore Luigi Golzio per che mi ha
indirizzato verso l'obiettivo concordato;
alla Dott.ssa Mietta Confalonieri (Presidente di A.TE.MA.), al Dott. Maurizio
Quarta (Vice-presidente di A.TE.MA.) e al Dott. Angelo Vergani
(Amministratore unico e fondatore di Contract Manager s.r.l.) per il prezioso
aiuto fornitomi in merito agli aspetti empirici del temporary management;
al Dott. Simone Gibertoni, al Conte Clemente Maria Forni, al Rev. Milko
Ghelli alla Dott.ssa Maria Luisa Cammarata, alla Sig.na Daniela Rossi e ad
Alessio Bardelli, per i numerosi spunti di approfondimento e per la
disponibilità nell'ascoltarmi;
ed infine ai miei Genitori che mi hanno permesso con i loro mezzi e con la
loro comprensione di raggiungere questo traguardo.
Resta inteso che la responsabilità per il contenuto del lavoro è interamente a
mio carico.
I.
IL RUOLO DEL DIRIGENTE.
1. Le trasformazioni dei compiti manageriali.
Se Adam Smith può essere a ragione definito il padre dell’Economia,
Frederick Winslow Taylor può con altrettanta ragione considerarsi il fondatore
della Dottrina Organizzativa.
Le sue teorizzazioni partono dall’osservazione del lavoro manuale degli operai
di un’azienda metalmeccanica. Egli comprende che la parcellizzazione delle
procedure e delle relative mansioni procura un’enorme risparmio in termini di
tempo. Egli afferma che ad ogni dipendente “devono essere assegnati compiti
il più possibile elementari, sui quali egli è chiamato a specializzarsi e
migliorarsi continuamente con l’obiettivo di aumentare la produttività”
1
. La
struttura promossa, naturalmente, altro non può essere che di natura
verticistica, piramidale.
Concetti basilari quali la scomposizione del lavoro in mansioni semplici, la
diversificazione e la specializzazione delle mansioni, lo studio obiettivo dei
tempi e dei metodi di ogni operazione elementare, si ritrovano, trasposti,
nell’organizzazione del lavoro di direzione.
1
Cfr. F.W. Taylor, Principi di organizzazione scientifica del lavoro, UTET, Torino, 1939.
2
Il dirigente ha il compito di fissare dei tempi standard di esecuzione per ogni
mansione. Sulla base dei tempi standard deve preparare un programma
articolato in vari stadi che appunto per la precisione con cui i tempi sono stati
calcolati e standardizzati non vada soggetto a modificazione pena la
demoralizzazione degli operai e la relativa difficoltà futura ad introdurre altre
innovazioni. Taylor vede il dirigente come l’unico referente verso la proprietà
e come tale l’unico centro di raccolta di informazioni da tutti livelli sì da
potere essere in grado in qualsiasi momento di affrontare delle trattative con
potenziali clienti. Naturalmente il modo di intendere la dirigenza di Taylor
rispecchia il modo di pensare del tempo, caratterizzato appunto da una
borghesia industriale emergente fiera di essersi "fatta da sola" ed orgogliosa di
detenere il comando assoluto di ogni più piccola attività dell'impresa.
Chi approfondisce lo studio dei diversi compiti esercitati nell’impresa, con
particolare attenzione al lavoro amministrativo e all’organizzazione delle
strutture di comando è Henry Fayol, francese e contemporaneo di Taylor, nel
suo libro Direzione Industriale Generale del 1927, suddivide le operazioni
dell’impresa in sei gruppi di attività: tecniche, commerciali, finanziarie, di
sicurezza, contabili, direttive.
Nella descrizione della funzione direttiva evidenzia che ad essa sono preposti i
compiti di programmazione della linea d’azione dell’impresa, di costruzione
della struttura sociale, di coordinamento delle risorse e di armonizzazione fra
attori e fattori. Dirigere equivale a programmare, organizzare, comandare,
coordinare e controllare.
Inoltre sempre nello stesso testo afferma che “la direzione così intesa non è né
un privilegio esclusivo, né una carica personale del capo o dei dirigenti
Capitolo I: Il ruolo del dirigente.
3
dell’impresa; è una funzione che si ripartisce come le altre funzioni essenziali
tra la testa e le membra del corpo sociale”
2
.
Ecco allora la formulazione del modello funzionale (Fig.1).
Figura 1.
_______________________________________________________________
Modello di direzione di Fayol.
Fonte: G. Pedraglio, Management e sistemi di organizzazione, Mondadori, Milano, 1975.
Rispetto a Taylor, che ha una visione frammentaria dell’organizzazione delle
attività d’azienda, Fayol preferisce considerare le operazioni industriali nella
2
Cfr. Henry Fayol, Direzione Industriale e Generale, Angeli, Milano, 1968.
PER QUANDO? CHE COSA? DA CHI?
ANALIZZARE VALUTARE SOVRINTENDERE
DECIDERE ASSISTERE
RILEVARE CONFRONTARE
COORDINARE
RICONOSCERE GIUDICARE RETTIFICARE
C O N TRO LLA R E
COMUNICARE INCENTIVARE ISTRUIRE
DISPORRE
INFORMARE UNIFICARE
ORGANIZZARE
COME? CON QUALI COSTI?
PIANIFICARE
DIRIGERE
SIGNIFICA:
4
loro complessità adattando le strutture in modo più elastico alle mutevolezze
degli scenari, talvolta anche sacrificando organigrammi rigidamente
impostati
3
.
Alla fine degli anni venti cominciano tuttavia a manifestarsi le prime
perplessità circa la validità dei postulati espressi dalla scuola classica. In
particolare le critiche che per prime sono mosse alla cosiddetta Scuola
Classica riguardano l’eccessiva parcellizzazione dei compiti e delle mansioni
4
.
L’accusa è che tale microdivisione del lavoro faccia perdere all’individuo il
senso del lavoro complessivo mortificandone le capacità umane. E’ questo il
periodo in cui la Psicologia comincia a farsi largo come nuova autonoma
branca della scienza. Per gli autori legati a questo nuovo modo di pensare,
definiti Neo-Classici, il concetto di organizzazione non può limitarsi ad uno
schema formale o ad uno statuto i cui meccanismi siano regolati da un insieme
di procedure, occorre cioè pensare al lavoratore, al subordinato, come ad una
risorsa creativa, ad una ricchezza da valorizzare
5
.
Per esempio Gulick conia l’acronimo POSDCORB, stante per Pianificare,
Organizzare, Supportare, Dirigere, Coordinare, Verificare (Repport),
Bugetting. Come si può notare lo schema dei ruoli del dirigente ricalca quello
di Fayol, ponendo particolare attenzione alla componente psicologica che
emerge nel Supportare inteso come “trascinare lo staff mantenendo favorevoli
condizioni di lavoro”
6
.
Appare pertanto evidente come questa nuova scuola non sia un caso di
stravolgimento della precedente teorizzazione e non a caso il nome della
3
Cfr. G. Pedraglio, Management e sistemi di organizzazione, Mondadori, Milano, 1975.
4
Cfr. Gulick-Urwick, Papers on the science of administration, Wiley & Sons, New York,1953.
5
Cfr. F.j. Roethlisberger-Dickson, Management and worker, Harward U.P.,Cambridge, 1970.
Capitolo I: Il ruolo del dirigente.
5
nuova dottrina contiene in sé quello della precedente. La scuola Neo-classica,
detta anche delle Relazioni Umane, infatti completa le conclusioni dei classici
mediante un’indagine sull’uomo, sulle sue attitudini, su ciò che lo spinge ad
agire, per potere poi, attraverso l’applicazione di regole e pratiche
psicologiche, migliorare l’efficienza complessiva dell’azienda
7
. Il concetto di
efficienza tende in questo periodo a sorpassare quello di produttività e questo
è evidente dagli scritti dei seguaci di questo nuovo movimento
8
. Con questa
visione improntata verso i rapporti umani si fanno largo anche nuovi studi
sulla leadership, sulla natura dell’autorità e sul comportamento dei capi. È
sostenuto che “molte carenze organizzative vanno imputate, principalmente,
all’incapacità degli organizzatori di utilizzare in modo soddisfacente il
potenziale di talenti e le risorse umane di cui dispongono. Bisogna imparare a
creare il clima e le condizioni grazie alle quali gli individui potranno
realizzarsi pienamente, contribuendo allo sviluppo aziendale con il massimo
rendimento”
9
.
La teoria classica poggia infatti sull’ipotesi che, per natura, l’uomo tende a
lavorare il meno possibile, e ad evitare ogni sforzo, all’opportunismo. Perciò il
“lavoratore deve essere comandato, diretto, controllato e giudicato”
10
.
La nuova dottrina, fortemente condizionata dagli sviluppi della psicologia e
dalle analisi compiute da Mayo
11
e Maslow, afferma invece che l’uomo non
nutre un’avversione aprioristica verso il lavoro, che anzi è ad esso connaturale.
6
Cfr. Gulick, Notes on the theory of organization, Free Press, New York, 1937.
7
Cfr. Di Bernardo-Rullani, Apprendimento ed evoluzione nelle teorie d’impresa, CEDAM, Padova,
1985.
8
Cfr. Emerson Harrington, Twelve Principles of Efficiency, YMCA, Worcester, 1912.
9
Cfr. Douglas Macgregor, Il lato umano dell’impresa, Angeli, Milano,1980.
10
Idem 2.
11
Cfr. Elton Mayo, I problemi umani e socio-politici della civiltà industriale, UTET, Torino, 1969.
6
Le coercizioni ed il timore di sanzioni non sono i soli motivi per stimolare le
energie degli individui, occorre pertanto fare leva sull’impegno individuale nel
conseguimento di un obiettivo attraverso sistemi di incentivi atti a realizzare le
aspettative di coinvolgimento del lavoratore sviluppandone la creatività.
Quanto poi all’estensione di detti principi a livello manageriale la scuola neo-
classica afferma che i “capi che ottengono la migliore produttività non sono
coloro che dividono il lavoro, lo distribuiscono razionalmente, hanno cura di
assumere gli uomini migliori, di formarli, sorvegliano il loro lavoro, lo
codificano con procedure adeguate, l’organizzano secondo concetti scientifici,
controllano i risultati. Sono invece i capi che dedicano la loro attenzione agli
aspetti umani dei problemi dei loro subordinati, sanno creare gruppi di lavoro
dando ad essi obiettivi impegnativi e arrivando a suscitare entusiasmo e
volontà di riuscire”
12
.
Il capo deve dunque concentrare la sua attenzione sugli uomini, piuttosto che
sui formalismi dei mansionari e la sua azione sarà tanto più efficace se saprà
adattare il suo comportamento per valorizzare le aspirazioni, le attese, i valori
e le possibilità individuali dei suoi collaboratori
13
. Anche il trattamento delle
informazioni muta. Infatti se nella scuola classica erano tutte concentrate nel
dirigente il quale provvedeva arbitrariamente a diffonderla, in questa nuova
scuola si assiste ad una partecipazione delle informazioni più estesa, più
coinvolgente, più stimolante.
Dai vari studi sviluppati in questo campo, sembra che si possa tra l’altro
sostenere che uno dei motivi di forte produttività, a parità di altre condizioni,
12
Cfr. John Wiley, Teoria dell’organizzazione moderna, Rosemberg & Sellier, Torino, 1959.
13
Cfr. Richard M. Hodgetts, Management: theory, process, and practice, Harcourt, San Diego, 1990.
Capitolo I: Il ruolo del dirigente.
7
fosse il grado di libertà o di autonomia lasciato agli impiegati e a tutti i
responsabili dei vari livelli, nell’assolvimento delle loro funzioni in vista di un
obiettivo ben precisato. “I risultati migliori si ottengono quando le relazioni fra
responsabili e dipendenti non sono impostate su un rapporto di autorità fra
superiori e subordinati, ma su un rapporto fra animatore e gruppo di
collaboratori”
14
. Barnard
15
arriva ad affermare che la funzione del dirigente, e
nello stesso tempo il metro per misurarne l’efficienza, consista nella sua
capacità di ottenere la cooperazione dei membri dell’organizzazione sfruttando
le variabili interne all’organizzazione stessa. Egli distingue l’organizzazione in
due parti: una formale ed un’altra informale. La prima viene definita come un
sistema di attività consapevolmente coordinate di due o più persone. Il
compito del manager in questa prima organizzazione è di selezionare con
accortezza il personale, usare sanzioni o assegnare premi, definire obiettivi e
formulare programmi nonché delegare ai subordinati alcune mansioni. È
pertanto affrontato il delicato tema dell’autorità. “Il manager”, afferma,
“compie un capolavoro nella creazione di un clima di collaborazione mediante
un sistema di interazioni il cui equilibrio sia garantito da variabili tutte
pienamente dominabili, e quindi non extra-organizzative”
16
.
Da ultimo viene anche ridiscusso in chiave efficietistica il rapporto dirigente-
subordinati. E’ infatti di questo periodo l’uscita di una pubblicazione ad opera
di Graicumas nella quale si pone la problematica derivante dall’individuazione
del numero massimo di subordinati con i quali un dirigente di media capacità
14
Cfr. Harper and Bros, Personality and Organisation, Stanford U.P., 1957.
15
Cfr. Chester J. Barnard, Le funzioni del dirigente, UTET, Torino, 1948.
16
Idem 14.
8
possa mantenere contatti diretti e soddisfacenti dal punto di vista
dell’efficienza organizzativa
17
.
Negli anni cinquanta e sessanta nel mondo anglosassone si sviluppano alcuni
programmi di ricerca, il cui comune punto di partenza è quello di dimostrare
l’infondatezza delle pretese universalistiche delle precedenti teorie
organizzative al fine di supportare una visione più critica del processo di
progettazione di strutture e sistemi. Questo filone di studi, che si propone
quindi di spiegare le varietà di caratteristiche di struttura, meccanismi
operativi e stili di direzione sulla base delle situazioni in cui le imprese e gli
individui operano, si concretizza negli anni settanta nella formazione di un
insieme sistematico di conoscenze detta teoria delle contingenze, Contingency
Theory
18
. L’attacco al paradigma classico avviene grazie ad un’ampia ricerca
condotta da Woodward
19
. La destabilizzazione dallo scanno delle verità dei
principi classici ebbe una notevole ripercussione anche nell’ambito degli studi
manageriali. I principi di direzione di Fayol, ritenuti comunque validi se non
veri e propri paradigmi dalle scuole che si erano succedute, subiscono con
alcuni studi condotti da vari autori, e da Mintzberg in particolare, un forte
ridimensionamento. Questi conduce una ricerca su cinque alti dirigenti
impegnati in ambiti differenti controllando per ognuno nell’arco di una
settimana con cronometro alla mano il tempo dedicato alle varie funzioni
direttive. I risultati contrastano alcuni miti circa il compito dei manager come
la programmazione sistematica delle giornate, l’assenza di compiti fissi da
svolgere o la necessità di trattare esclusivamente con informazioni ufficiali e
17
Cfr. V.A. Graicumas, Combien un chef doit-il diriger de subordonnes immediate?, Economica,
Paris, 1933.
18
Cfr. G. Costa-R. Nacamulli, Manuale di Organizzazione Aziendale, UTET, Torino, 1996.
Capitolo I: Il ruolo del dirigente.
9
non orali altro non sono che falsi. Infatti Mintzberg evidenzia che i manager
lavorano senza un attimo di sosta e che essi sono inclini all’azione e non tanto
alla programmazione pedante o alla riflessione; che oltre agli interventi
eccezionali, l’attività di un manager comprende anche compiti di routine,
come cerimonie e manifestazioni di rito, la visita di importanti clienti; che
preferiscono di gran lunga le informazioni orali come le conversazioni
telefoniche
20
.
Nella definizione di manager data da Mintzberg questo è descritto come colui
che è a capo di un’organizzazione o di una sua sezione. Rientrano pertanto
nella categoria oltre ai dirigenti di più alto livello, anche vescovi, capireparto,
allenatori, primi ministri. Tutti questi ruoli hanno perlomeno in comune il fatto
di essere investiti di autorità ufficiale per sovrintendere ad una specifica
organizzazione. “L’autorità ufficiale conferisce una posizione giuridica che dà
diritto a relazioni interpersonali, fonti a loro volta di informazioni. Di tali
informazioni il manager si deve servire per prendere decisioni e predisporre
strategie relative alla sua organizzazione”
21
. Il compito del manager si articola
in vari ruoli o funzioni programmate che derivano da una specifica posizione
(Fig.3)
22
. In particolare vengono individuate tre categorie di ruoli:
interpersonali, informativi, decisionali.
Tre dei ruoli dei manager dipendono direttamente dall’autorità formale di cui
godono e sono strettamente collegati con le relazioni interpersonali.
19
Cfr. J Woodward, Industrial Organization: Theory and practice, Telford, London, 1983.
20
Cfr. Henry Mintzberg, Management mito e realtà, Garzanti, Milano, 1991.
21
Idem 18.
22
Cfr. Henry Mintzberg, Mintzberg on Management, Free Press, New York, 1989.
Cfr. Henry Mintzberg, The nature of managerial work, Prentice-Hall, United States of
America,1973.