4
percorrere sentieri inesplorati, creare tassonomie inedite che consentano di
creare legami di senso.
Il presente elaborato riflette tre essenziali obiettivi: il primo è quello di fare
un “uso” filosofico del cinema, cercando di unire il sistema di pensiero
occidentale e orientale al testo filmico, ponendo in secondo piano le
caratteristiche prettamente tecniche delle singole pellicole e puntando
sull’interpretazione filosofica; secondo obiettivo, chiaramente nato all’interno
del precedente, è leggere il cinema attraverso una categoria che costituisce uno
dei cardini della riflessione filosofica fin dalle sue origini, il tempo. Partiremo
dal presupposto che esso, all’interno del dispositivo cinematografico è presente
in due declinazioni: tema esibito o celato e modalità di strutturazione a livello
narrativo. E’ noto che la riflessione occidentale ha sempre inseguito l’illusione
di poter racchiudere il concetto del tempo in un ambito del tutto specifico ma si
è puntualmente scontrato con l’impossibilità di definirlo in maniera univoca,
accontentandosi di spezzettarlo in forme, immagine, proiezioni. Al contrario la
filosofia orientale ha pensato il tempo nella sua concretezza, nel suo “farsi
quotidiano”, privilegiando una concezione temporale secondo cui l’esistenza
umana non è un altro che un ciclo ininterrotto di morti e rinascite.
Arriviamo al terzo obiettivo che in qualche modo riflette il senso più ampio
dell’intero lavoro. Riflettere sul tempo nel cinema. Il cinema che nasce nell’
estremo Oriente e che spesso rimane inedito per gli spettatori italiani. Non
siamo qui per proporre un pallido stereotipo della monumentale ricerca che
Gilles Deleuze sviluppa ne L’immagine movimento e ne L’immagine tempo,
anche se in questa sede non potremmo prescindere da un continuo riferimento
alle sue riflessioni, ma piuttosto cercare di offrire una lettura inedita di sei
pellicole della recente produzione orientale, di un mondo quindi, per alcuni
versi antitetico al nostro, ma con nuclei consistenti di legami. Ecco la doppia
sfida da lanciare. Parlare di Oriente attraverso l’Occidente e viceversa.
Riflettere sul tempo attraverso il cinema e pensare il cinema attraverso il
tempo. Analizzare “mondo-cinema” lontano dalle nostre abitudini contribuisce
senza dubbio ad allargare il piano della prospettiva di riflessione e soprattutto
può in qualche modo cercare di indagare almeno uno dei tanti motivi per cui
5
l’Oriente esercita un fascino sempre più forte sul pubblico occidentale. Parlare
di cinema orientale ci invita ad affrontare temi noti ma con un’angolazione del
tutto inedita, perché se in molti casi questo genere di film cade in sterili
rifacimenti del modello occidentale o in tentazioni manieristiche fini a se
stesse, in altri riflette un modo autentico, genuino di produrre una visione
collettiva. L’analisi filmica si concentrerà quindi sulle figure del tempo
inscritte in sei pellicole d’autore analizzando di volta in volta le insidie
dell’attimo amoroso, la ciclicità della natura, il tempo mitico e quello storico,
l’oblio e il tempo della vendetta. Figure di un tempo contemporaneo, al cinema
come nella vita. Ecco che allora vedremo come il sistema di pensiero
occidentale e quello orientale si implichino vicendevolmente sulla questione
“tempo”. A tale proposito nel primo capitolo, prenderò in considerazione tutte
quelle posizioni filosofiche occidentali sul tempo che permettono una
declinazione efficace ai fini dell’analisi testuale proposta, cercando di metterle
in confronto con la spiritualità orientale legata al tempo, che trova nel testo di
Francois Jullien, Il tempo, elementi di una filosofia del vivere, un interessante e
centrale punto di vista. Non mancheranno riferimenti espliciti ad autori della
tradizione orientale che hanno contribuito, nel corso dei secoli alla diffusione
della filosofia dello zen, primo tra tutti Confucio. Da questa riflessione
comparata estrapoleremo alcune categorie dicotomiche di riferimento: tempo
lineare contro tempo ciclico, pieno contro vuoto, attesa, contro progettualità,
efficacia contro non-efficacia. Partiremo dal presupposto che il cinema, con la
sua intrinseca capacità di giocare con lo spazio e con il tempo, mette
definitivamente in crisi l’impostazione aristotelica riguardo il tempo, inteso
come misura del movimento, di conseguenza quantificabile e definito. Ecco
perché l’attenzione sarà volta su tutte quelle posizioni che hanno contribuito a
sganciare la riflessione sul tempo da un ambito prettamente oggettivistico e
legato al mondo della fisica.
Di conseguenza occorrerà pensare al tempo nel cinema come ad un spettro
variegato di forme e modi che si sovvertono, spesso stridono con le logiche
tradizionali della narrazione. Il dispositivo cinematografico, con il suo
originario imporsi agli occhi di una cultura abituata all’immobilizzazione del
6
dettaglio sancita dall’imporsi della tecnica fotografica, costruisce nuovi mondi,
inedite dimensioni temporali dove presente, passato e futuro si mescolano a
piacimento superando le loro connotazioni convenzionali. Una possibilità
“tecnica” esibita fin dalle origini quindi. Il tempo nel cinema cessa di essere
un categoria apriori, inafferrabile, dal significato fluido quanto vago, ma
diventa di volta in volta tempo dell’amore nostalgico, tempo della coscienza
allucinatoria, tempo ciclico della natura, tempo dell’oblio e della memoria. E’
lo spettro che di volta in volta accompagna la visione, conferendole uno statuto
di pienezza.
Il primo capitolo avrà, perciò, un carattere più generale rispetto
all’ambito prettamente cinematografico. Oltre alle riflessioni sul tempo in
ambito filosofico, un passaggio importante sarà dedicato alle riflessioni di Paul
Ricouer che in Tempo e racconto evidenzia come le modalità di costruzione di
un intreccio siano strettamente legate ai modi di interpretare il tempo, per poi
approdare alle riflessioni di Gilles Deleuze in Immagine-movimento e
Immagine-tempo, descrivendo in breve nella parte conclusiva quali siano gli
strumenti tecnici che il cinema ha a disposizione per manipolare e scrivere il
“suo” tempo.
Nella seconda parte, prima di affrontare nello specifico le caratteristiche
che rendono il cinema orientale “diverso” ma a tratti simile a quello
occidentale, verrà indagata in maniera specifica la riflessione orientale intorno
al concetto di tempo. Partendo dal presupposto, che la filosofia orientale manca
di una teorizzazione esaustiva riguardo al concetto di tempo, verrà quindi
proposta tutta una serie di dicotomie che contribuiscono a definire
concettualmente la differenza ontologica del tempo tematizzato dai filosofi
occidentali e quello proposto dalla saggezza orientale. Un gioco degli opposti
che ci permette di offrire parallelamente una riflessione sul tempo sia in
Oriente che in Occidente. Che senso hanno queste riflessioni meramente
filosofiche in seno al dispositivo cinematografico? Che tipo di eredità ha
lasciato la saggezza orientale riguardo il tempo nelle modalità di costruzione
della scena filmica nel panorama contemporaneo? Per “preparare il terreno”
all’analisi filmica che si svilupperà su un duplice piano (tecnico e filosofico)
7
nel terzo capitolo, sempre nella seconda sezione dell’elaborato si parlerà in
maniera più specifica del cinema orientale contemporaneo, cercando di
coglierne i punti di forza e le debolezze, le ossessioni e le forme ricorrenti..
Il punto di arrivo sarà una personale ricognizione delle immagini del
tempo in sei pellicole d’autore. La domanda a cui vogliamo rispondere è infatti
la seguente: all’interno del cinema orientale è possibile descrivere e tracciare
una sorta di mappa concettuale-filmica, in cui sia possibile inscrivere i segni
del tempo, ovvero quelli che definiremo “immagini” del tempo attuale?
Il terzo capitolo entrerà dunque nel merito dell’analisi delle figure del tempo
in sei film orientali scelti per la varietà delle tematiche sviluppate e per la
possibilità intrinseca di sviluppare, a partire da essi, interessanti parallelismi tra
filosofia orientale e filosofia occidentale. La convinzione che anima il presente
lavoro è qui: confrontarsi con stili e mondi diversi dal nostro ci permette di
filtrare in maniera del tutto inedita, comportamenti e problemi che potremmo
riconoscere come massimamente vicini alla nostra quotidianità. E il cinema, in
quanto lente di ingrandimento per le masse, non può che svolgere questa
funzione. La ricerca estetizzante delle inquadrature, l’attenzione ossessiva
verso il dettaglio visivo o sonoro, la spettacolarizzazione del volto umano, i
ritmi lenti e i dialoghi pesati: sono solo alcune della caratteristiche ricorrenti
nella cinematografia orientale che potrebbero insegnare molto al cinema
“classico”occidentale. Riscoprire questi film per riscoprire un nuovo modo di
fare cinema, un nuovo mondo da cui avremmo molto da imparare. Un cinema
autentico, intimamente pensato e curato con maniacale attenzione, anche a
costo di deludere qualche spettatore.
La fine del percorso corrisponderà ad una riflessione generale su come
l’analisi di una tradizione filmica lontana dal nostro mondo possa in qualche
modo arricchire il nostro modo di pensare e vedere il cinema. La pellicola
scelta e analizzata nelle conclusioni rappresenta in pieno la duplice tendenza di
costruire e riflettere sul tempo. E’ l’immagine di una dialogo “possibile” tra
Oriente ed Occidente, un percorso visivo che si nutre di scenari scarni ed
essenziali, espressioni di un tempo immobile che da un lato esalta la
dimensione dell’attesa ma che, allo stesso modo, si nutre di scenari fluidi,
8
colorati e frenetici, strizzando l’occhio alle ossessioni tipicamente occidentali.
Oriente ed Occidente dimostrano dunque, di non essere poi così distanti
filosoficamente parlando. I risultati, sotto forma di film, sono visibili a tutti. E
a chi non ne fosse convinto, pensiamo di aver fornito nelle pagine seguenti,
soluzioni teoriche di certo non assolute, ma assolutamente coerenti con le
argomentazioni portate avanti.
9
1. Il tempo: prospettive filosofiche per il cinema
Il quadro delle riflessioni filosofiche occidentali sul tempo riguarderà, come
già evidenziato, le posizioni che in qualche modo possono offrire spunti di
indagine interessanti se relazionati alla dimensione cinematografica. Per ovvie
ragioni trascurerò quindi capisaldi del pensiero sul tempo quali Platone e
Aristotele, per soffermarmi invece sulle riflessioni di quegli autori che hanno
contribuito a slegare la nozione di tempo da un ambito prettamente fisico, ma
hanno concentrato la loro attenzione sulla dimensione intima del tempo vissuto
nell’animo umano. Il punto di partenza saranno le riflessioni di S.Agostino per
un ovvia ragione di cambio di prospettiva rispetto l’impostazione aristotelica.
Qui per la prima volta il tempo non viene più considerato e analizzato come un
“dato” ma soggettivizzato dalla facoltà mnestica propriamente umana. Ci
soffermeremo anche sull’analisi di importanti studi che hanno contribuito ad
evidenziare il nesso inscindibile che esiste tra le modalità di racconto di un testo
e la dimensione temporale propria dell’esperienza umana. Paul Ricoeur offre a
tale proposito illuminanti considerazioni nel suo Tempo e racconto. La scelta
delle posizioni teoriche analizzate è dettata inoltre dalla convinzione che a
partire da esse sia possibile indagare la spiritualità orientale legata al concetto di
tempo, creando interessanti parallelismi e opposizioni dialettiche. La parte
conclusiva del capitolo è invece dedicata ad una schematica panoramica delle
modalità attraverso cui il cinema manipola e gioca con il tempo.
1.1 S. Agostino e il tempo dell’anima
Partiamo quindi dalle posizioni che S.Agostino sviluppa ne Le confessioni.
La questione viene proposta in tutta la sua ambiguità concettuale in maniera
incisiva nel libro XI:
10
Cos’è dunque il tempo? Se nessuno mi interroga lo so; se
volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so. Questo però
posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non
esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non
esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non
esisterebbe un tempo presente.
1
Agostino inserisce l’enigma del tempo all’interno della riflessione
esistenziale circa il rapporto con il Divino, poiché l’animo umano si apre
necessariamente non al presente della propria vita ma alla presenza di Dio.
Rispetto alle posizioni precedenti, la sua speculazione assume per la prima
volta un carattere soggettivistico; il tempo non è più considerato un dato
quantificabile e definito ma è distentio animi, distensione dello spirito
umano. Se i pensatori precedenti, Aristotele tra tutti, si erano mantenuti
fedeli all’assunto per cui il tempo è la “concretizzazione” di un’esperienza
reale ed oggettiva, l’Ipponate pone l’anima come sede privilegiata del
tempo, riconoscendo alla facoltà di memoria, la funzione di delineare le
scansioni del vissuto umano. Si tratta di un vero e proprio capovolgimento
della prospettiva di analisi. Se prima si partiva dall’analisi del moto degli
astri per determinare la misura del tempo, adesso il tempo stesso deve
diventare fondamento della determinazione della durata dei moti. Ciò che
deve essere misurato non sono infatti le cose colte nel loro naturale
trascorrere, ma le affezioni che esse lasciano nel nostro animo. Prima di
arrivare a questa formulazione Agostino affronta (e risolve) due inevitabili
aporie che fioriscono all’interno della discussione sul tempo. Innanzitutto, in
che modo spiegare il non essere delle cose passate e delle cose future, due
entità che di fatto non percepiamo tangibilmente?
Se l’uomo infatti percepisce intuitivamente le cose presenti come un
flusso reale e contingente, lo stesso non si può dire del passato e il futuro,
semplici proiezioni dell’animo umano che appartengono di fatto al dominio
dell’assenza, essendo legati alla dimensione del non è più e del non è ancora.
Agostino osserva che solo il linguaggio ci permette di conferire statuto
ontologico al passato e al futuro, poiché siamo noi che raccontiamo
1
Agostino, Confessioni, tr.it. Einaudi, Torino 2000, libro XI, p.431
11
un’esperienza vissuta e allo stesso modo costruiamo delle previsioni su ciò
che potrà essere. E’ solo il verbo che riflette l’essere di ciò che è stato e di
ciò che non è. Una volta assodato che passato e futuro sono, resta da
chiedersi dove e come esistono. Il problema si lega ad un ulteriore enigma
posto dall’Ipponate: come misurare qualcosa che di fatto non ha estensione?
Il primo passo sarà di stampo metodologico: indagare l’oggetto di
discussione, il Tempo, prescindendo da qualsiasi teoria cosmologica e al
contrario introiettandolo all’interno dell’animo umano. Non esiste un tempo
percepito esternamente, ma è l’anima che “percepisce” il prolungarsi di un
momento di sconforto o il piacere insito nel momento di felicità.
Il tempo esiste in quanto dimensione “distensiva” dell’animo umano e
si configura attraverso una triplice dialettica. Assodato che noi non
misuriamo l’avvenire poiché è ciò che ancora non è, né il presente che non
ha estensione ma è una sorta di polo mediatore tra prima e poi, né il passato
che è ciò che non è più, Agostino preferisce parlare di un triplice presente in
cui attenzione, memoria e attesa si intersecano a vicenda. L’aporia di come e
dove collocare il non essere del passato e del futuro viene risolta riportando
quest’ultimi nel presente della memoria e nel presente dell’attesa. Ricordi e
prospettive future vengono dunque riposti in un presente dilatato.
Forse sarebbe più esatto dire che i tempi sono tre: presente
del passato, presente del presente, presente del futuro.
Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo
nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la
memoria, il presente del presente la visione, il presente del
futuro l’attesa.
2
L’estensione del tempo diventa quindi “distensione” dello spirito e i tre
tempi restano separati in quanto operazioni dello stesso. A differenza della
percezione del tempo stesso, che nella coscienza si riflette come un fluire
continuo di istanti che vanno dal futuro al passato, solo del tempo “oggettivo” si
è in grado di dire in che modo e se sia misurabile. Assodato che la misurazione
implica l’esistenza di una “quantità” da misurare, Agostino arriva ad affermare
che è la memoria a svolgere questa funzione, distendendosi in modo da poter
2
Ivi, p. 439
12
“contenere” lo scorrere del tempo. Siamo noi quindi a trattenere le percezioni
passate e a ricordare la possibilità che se ne realizzino di future. La grande
intuizione che sostiene l’intera argomentazione è l’aver ribadito il fatto che noi,
assumiamo la consapevolezza della misurazione del tempo, quando passa. E’
solo nel transito degli istanti che lo spirito umano può cogliere la molteplicità
del presente e la sua frammentazione.
Il discorso di Agostino intorno al tempo dimostra la sua efficacia anche
in seno alle strutture narrative che raccontano l’esperienza umana. Così come
nell’intonazione di una canzone possiamo cogliere l’animo distendersi nel
sovrapporsi delle varie sillabe, anche i poemi, le poesie e nel nostro caso i film,
diventano paradigmi utili in cui il tempo umano si dispiega nella sua triplice
dialettica presentificata. Accogliere come presupposto teorico la distensione
dell’animo consente un ripiegamento riflessivo sulla nozione stessa di tempo, e
non come si potrebbe pensare una sua elisione. E ciò non può che avere
importanti conseguenze sulla modalità di narrazione dispiegate dai vari tipi di
testo:
Se è vero che la tendenza principale della moderna teoria del
racconto […] è quella di << decronologizzare >> il racconto,
la lotta contro la rappresentazione lineare del tempo non ha
necessariamente quale unico esito quello di << logicizzare
>> il racconto bensì quello di approfondirne la temporalità.
La cronologia – o la cronografia – non ha quale unico
contrario l’acronia delle leggi o dei modelli. Il suo vero
contrario è la temporalità.
3
Paul Ricoeur in Tempo e racconto analizzando la riflessione di
Agostino a proposito del tempo, riconosce che la frontiera delle nuove forme
espressive debba necessariamente passare per un ripensamento della nozione
del Tempo medesimo, sempre meno legata ad una classificazione unica,
concreta ma protesa verso diversi livelli di gerarchizzazione concettuale.
L’intuizione agostiniana della distentio animi è coerentemente rapportabile
all’atto poetico della messa in forma di un intrigo. Secondo Ricoeur infatti, la
co-implicazione che Agostino riconosce alle tre dimensioni del presente
(attesa, attenzione, memoria) si riflette nel principio di discordanza che è alla
3
P. Ricoeur, Tempo e racconto, tr.it., Jaka Book, Milano 1983, p.55
13
base della costruzione di un intrigo. Il cinema dimostra di accogliere in pieno
questa sfida teorica, nella costruzione della storia e nella modalità di racconto
della stessa. Anch’esso, sulla linea dell’intuizione agostiniana è a pieno titolo
un paradigma narrativo entro cui l’animo umano tendendosi definisce se stesso
e il suo tempo.
1.2 Il tempo come coesistenza in Bergson
Le riflessioni di Henri Bergson intorno al concetto di tempo hanno
definitivamente emancipato la riflessione dal piano della cronologizzazione e
dalla convinzione stereotipata secondo cui il tempo è una sorta di linea retta
che ha come estremi da un lato il passato e dall’altro il futuro. Già in gioventù
il filosofo francese si interrogava su cosa fosse il tempo partendo dalla
scrupolosa analisi degli scritti in cui Spencer definiva il tempo un’entità in-
conoscibile e sfuggente. Secondo il filosofo francese, l’errore dell’impostazione
teorica di Spencer e di tutte le altre posizioni scientifiche sul tempo risiedeva
nel fatto di concepire un solo aspetto del tempo, quello spazializzato proprio
della meccanica e di conseguenza, nel porre sullo stesso piano, il tempo
dell’esperienze umane e il tempo che determina il succedersi dello stato delle
cose. Nel 1889 nel suo Saggio sui dati immediati della coscienza Bergson
chiarisce subito la sua posizione circa l’insanabile dicotomia che divide il
cosiddetto tempo della scienza (di matrice aristotelica) spazializzato e definito,
da quello interiore e coscienziale della durata:
Quando seguo con gli occhi sul quadrante di un orologio il
movimento delle lancetta che corrisponde alle oscillazioni
del pendolo, non misuro la durata, come potrebbe sembrare;
mi limito invece a contare delle simultaneità, cosa molto
diversa. […] Dentro di me si svolge un processo di
organizzazione o di mutua compenetrazione dei fatti della
coscienza , che costituisce la vera durata.
4
4
H. Bergson, Saggi immediati sulla coscienza, tr.it., Mondadori, Milano 1986, p. 145
14
Se il tempo fisico é concepito come una successione indefinita di istanti
omogenei e uniformi, anche se distinti gli uni dagli altri, analogamente a quanto
avviene nella serie dei numeri naturali, dove a ogni unità ne segue un'altra
identica alla prima, il tempo vissuto dalla coscienza si nutre di attimi irripetibili
che portano l’individuo ad adottare strategie tese alla ri-creazione del momento
“magico” vissuto in precedenza. Distaccandosi dall’impostazione “quantitativa”
adottata dal senso comune, ci si accorge che il tempo vive nella coscienza
umana attraverso un susseguirsi di stati intrinsecamente connessi l’uno all’altro;
pur nella loro costitutiva differenza qualitativa essi finiscono col fondersi l’un
l’altro. La durata reale sarà data quindi dal flusso ininterrotto degli stati
coscienziali che riflettono il nostro vissuto quotidiano. Mentre il tempo della
scienza è reversibile e quantificato (in ogni momento potremmo tornare a
ripetere esperimenti precedentemente svolti), il tempo della coscienza si
caratterizza come durata reale, è irreversibile, poiché tutto quello che si
conserva nella memoria non può ripetersi. Quest’ ultima, lungi dall’essere
definita come una facoltà specifica e a sé stante, non è che l’essenza del vissuto
spirituale del soggetto. I momenti che costituiscono il tempo della coscienza
non sono dunque, identici l’un l’altro, poiché possono essere “vissuti” dalla
coscienza con maggiore o minore intensità. La durata reale è solo quella della
coscienza e incarna la concretezza del tempo, così come appare al soggetto. Il
discorso si arricchisce ulteriormente nell’opera successiva, Materia e memoria,
dove Bergson indaga sul rapporto che sussiste tra la vita interiore dell’individuo
su cui si innesta il flusso di coscienza, e il mondo materiale esterno, ossia
l’insieme degli enti corporei con cui ci si relaziona quotidianamente. Secondo il
filosofo francese le immagini che compongono il mondo materiale partecipano
all’esteriorità delle cose e sono quindi anteriori alla percezione. Tuttavia,
essendo legate da rapporti di dipendenza reciproca sono intelligibili, e proprio
questa caratteristica (il rimandare ad un’immagine interna) riflette lo statuto
della loro rappresentazione. Una volta assodato che la materia è un insieme di
immagini, che per statuto stanno a metà tra le cose e le rappresentazioni,
Bergson riconosce al corpo pieno statuto ontologico: esso sarà l’immagine
prima, cioè quella in grado di scegliere tra le svariate immagini esterne.