4
Il vento ulula piegando la scarsa vegetazione di una landa desolata le cui uniche
caratteristiche di esistenza sono il fango, la pioggia e un cielo spento. Elementi di un mondo
vuoto, residuale, fotografato in un bianco e nero che ne restituisce l’immagine in scala di
grigi di una natura uniformemente spenta e aspra. In lontananza un’unica macchia nera si
muove in direzione della camera, un altro residuo, umano, in qualche modo opposto
all’ambiente nemico entro il quale si muove. È semplicemente un’altra declinazione di quella
stessa natura.
Macchie nere umane che camminano: è una delle immagini che più ritornano nel cinema
di Béla Tarr (Pécs, 21 luglio 1955), un regista radicale, fuori dai canoni, avverso alle strutture
tradizionali del cinema e ai meccanismi che lo intendono come show business.
Tutto il suo cinema si racchiude nelle esperienze giovanili quando, con la cinepresa 8mm
regalatagli dal padre a quattordici anni
1
, girava trai lavoratori e gli operai del suo paese per
riprenderli, per dare a loro, oppressi e dimenticati, la dignità dello spazio filmico. Giovane
enfant prodige, rimarrà sempre ai margini del cinema istituzionale ungherese, trovando
invece fama e apprezzamento nel resto d’Europa e oltre oceano, divenendo in breve una
delle figure di spicco del cinema internazionale degli ultimi trent’anni.
1
A. B. KOVÁCS, The cinema of Béla Tarr. The circle closes, Columbia University Press, New York 2013,
p. 8.
Satantango
5
Il suo è un cinema fin da subito radicalmente impegnato alla rappresentazione di un
mondo in stallo. Nelle sue opere qualsiasi idea di svolgimento narrativo si scontra con la
struttura di un presente apocalittico in cui si torna sempre all’inizio, allo schermo nero che
precede il momento in cui iniziano a scorrere i titoli di testa. Il nero dello schermo come il
nero degli uomini che vagano per queste lande sull’orlo dell’abisso.
Stanti queste premesse è facile pensare che si tratti di un cinema profondamente nichilista,
in cui la morte è già in partenza la meta d’arrivo. Ma Tarr non approverebbe una visione del
genere. A che pro, un uomo che fin dall’adolescenza si è impegnato attivamente per
migliorare le condizioni di vita dei meno fortunati, attraverso l’obiettivo della propria
cinepresa, dovrebbe fare un’apologia dell’insensatezza dell’esistenza? Se la realtà dei suoi
film è grigia e miserabile, lo è solo in virtù del fatto che così lo è anche, ogni giorno, quella
di tutti quegli individui che lottano strenuamente per rimanere a galla, per sopravvivere.
A Tarr interessa mettere in scena l’impossibilità, per chi è ai margini, di riuscire a
spezzare il cerchio della miseria e della disperazione che ne caratterizza, quasi
ontologicamente, l’esistenza. Tutto, dall’ambiente all’altro uomo, è nemico dei personaggi
dei suoi film, dimenticati e insalvabili. Nelle loro storie si ripete sempre la stessa trama,
circolarmente, fino alla fine del mondo, e una volta che si è arrivati alla fine non è più
possibile raccontare, ma solo mostrare, i gesti, le espressioni, gli spazi di umani primordiali,
bestiali, che gesticolano e ripetono sempre le stesse azioni, perennemente in attesa di
qualcosa, con la consapevolezza, in fondo, che non succederà mai niente
2
. Nonostante tutto
questo, «l’umano di Tarr» continua ad avanzare, facendosi scavare il volto dalla pioggia ed
erodere la pelle dal vento.
I personaggi tarriani camminano in virtù di una promessa di speranza, forse perché
qualcuno li ha ingannati, forse perché non riescono a rassegnarsi all’annichilimento.
Sognano di fuggire alla ripetizione incessante degli eventi, alla monotonia di una
quotidianità caratterizzata esclusivamente da una pesante, sfiancante e amareggiante lotta
per rimanere in equilibrio sul confine tra una povertà ancora decente, socialmente
accettabile, e la più totale indigenza
3
. Secondo Jacques Ranciere, nei film del regista
ungherese, «perché ci sia una storia, è necessario e sufficiente che ci sia una promessa di
2
J. RANCIERE, Béla Tarr: il tempo del dopo, trad. it. di I. Floreano, Edizioni Bietti, Milano 2015, pp. 56-
58.
3
A. B. KOVÁCS, The cinema of Béla Tarr. The circle closes…, cit., p. 156.
6
sottrarsi alla legge della pioggia e della ripetizione»
4
. È senza dubbio una promessa di
riscatto.
Ritengo che questa necessità di imporsi, di raccontare a tutti i costi la dignità umana di
personaggi già sconfitti che, ricercando il cambiamento, sfidano disperatamente lo spazio
filmico, sia la più dichiarata manifestazione di un regista che ribadisce con forza che il
proprio è un cinema di costruzione. I film di Béla Tarr guardano al futuro mostrando un
presente eterno, il presente delle strutture sociali con il quale ognuno di noi ha
quotidianamente a che fare, crudelmente vuoto e privo di senso. Lo fa perché è il compito
del cinema: mostrare, affinché nella realtà si possa costruire.
In queste pagine mi propongo, quindi, di porre l’attenzione proprio sul tempo mancante
nel cinema di Tarr, quello del futuro che, come ho detto, rappresenta il motore delle azioni
umane, la speranza, che si oppone all’eternità dell’unico tempo possibile da mettere in scena
– quello che Ranciere definisce il tempo del dopo: il tempo dopo le storie, il tempo in cui ci
si interessa direttamente alla stoffa sensibile
5
–, cercando di dimostrare come sia non solo
uno degli elementi fondanti e ricorrenti di tutta la sua filmografia, ma anche il vero e proprio
personalissimo principio d’azione dello stesso Tarr.
Per fare questo procederò per gradi, analizzando, prima di tutto, il rapporto del regista
con lo spazio e in che modo questo si relazioni al tempo, i due elementi che ritengo siano al
di là di ogni dubbio, gli specifici filmici del suo cinema, per poi esplicitare in che modo la
relazione tra questi vada a influenzare, sul piano formale e contenutistico, l’interezza della
sua opera. Successivamente concentrerò la mia attenzione sulle possibili influenze che
possano aver giocato un ruolo nel determinare lo sviluppo del cosiddetto «stile Tarr», per
poi soffermarmi sul perché un cinema della lentezza sia «importante ed efficace» nel
panorama cinematografico attuale. Mi soffermerò infine a indagare il rapporto tra presente
e futuro e i modi in cui questo si articola all’interno di tutta la sua filmografia.
4
J. RANCIERE, Béla Tarr: il tempo del dopo…, cit., p. 32.
5
Ivi, p. 56-57.
8
1.1. Il tempo in relazione allo spazio nel cinema di Béla Tarr
L’elemento per cui certamente Béla Tarr si è reso noto, a livello registico, almeno da
Perdizione in poi, è l’uso del piano-sequenza.
Ovviamente è facile intuire come l’utilizzo di questo strumento, pressoché totale nei film
della seconda metà della carriera di Tarr, sottintenda che il nodo centrale della messa in
scena cinematografica riguardi, per l’appunto, proprio la rappresentazione del tempo nel suo
svolgersi nello spazio.
Già André Bazin, in riferimento proprio a questa tecnica, sottolineava come,
svincolandosi dalle regole del découpage classico, il regista potesse rompere con le regole
dei rapporti tra le inquadrature, per concentrarsi sul fatto che il racconto che andava a mettere
in scena fosse indiscutibilmente vero grazie allo svolgersi del tempo, la vera nuova lingua
specifica del cinema in grado di mettere la settima arte in diretta concorrenza con la
letteratura, liberandola dalle convenzioni narrative che derivava dal mondo del teatro e dello
spettacolo, di fatto, emancipandola
1
. Questa capacità di riprendere fedelmente il tempo rende
il cinema, oltretutto, l’arte che porta a compimento la pretesa di oggettività della fotografia
2
– ancora immagine istantanea di un singolo istante e quindi meno vera – e pone fine
definitivamente alla ricerca di verosimiglianza da parte delle arti visive, macchiatesi del
peccato originale della prospettiva
3
.
Tarr è quindi, da questo punto di vista, decisamente debitore delle teorie baziniane, nella
misura in cui, essendo interessato a raccontare o, per meglio dire, a lavorare con la materia
del reale, con i suoi elementi vivi fin dagli esordi, sfrutta il tempo documentandolo in modo
continuativo grazie proprio al piano-sequenza, rinunciando, nella produzione più matura,
quasi interamente alle possibilità del montaggio delle attrazioni di Ejzenštein
4
.
Da quanto detto possiamo già affermare che per Béla Tarr il tempo, più specificatamente
quello della realtà, è un primo specifico filmico.
Non si può quindi non tenere conto di un’altra opinione autorevole a riguardo, l’opinione
di un regista affine a Tarr anche in alcune scelte riguardanti l’uso della macchina da presa:
Tarkovskij. Scrive il regista russo in riferimento al film dei fratelli Lumière L’arrivo di un
1
A. BAZIN, Che cos’è il cinema?, trad. it. di A. Aprà, Garzanti Editore, Milano 1999, pp. 91-92.
2
Ivi, p. 9.
3
Ivi, p. 6.
4
Nonché dalle teorie di Pudovkin del montaggio come specifico filmico.
9
treno alla stazione de La Ciotat: «L’uomo ha ricevuto così, nelle proprie mani, la matrice
del tempo reale.»
5
. Per Tarkovskij non c’è dubbio che sia proprio il tempo lo specifico
filmico, che viene scolpito dal regista in modo fattuale ed è proprio questa sua presenza
indiscutibile, questa sua congruenza con la quotidianità che rende il cinema l’unico
linguaggio che permette davvero allo spettatore di riflettere su sé stesso
6
. Il cinema è lo
specchio della realtà in cui lo spettatore può ritrovarsi.
Questa riflessione interessa a Tarr nel momento in cui, attraverso la già citata tecnica, gli
è possibile mettere lo spettatore davanti al tempo della quotidianità, che progredisce
lentamente in maniera realistica, continua, priva di ellissi, di tagli di montaggio. Si tratta non
più di un tempo cinematografico, ma del tempo della vita stessa, che sullo schermo viene
percepito come più reale della realtà
7
. Tutto ciò avvalora la tesi di Tarkovskij, di cui sopra,
per cui il regista cinematografico, che lavora «scolpendo il tempo», compie un lavoro sia di
restituzione della vita che di ricreazione di una vita nuova, più autentica forse, poiché priva
del superfluo e quindi in grado di permettere allo spettatore, come già detto di ritrovare sé
stesso, ma anche di riappropriarsi del mondo
8
.
Una cosi rigorosa messa in scena del tempo, fatta di silenzi, di non azioni, di rarefazione,
presuppone un approccio allo spazio e al modo in cui i personaggi si muovono all’interno di
esso altrettanto rigoroso, radicale.
Scrive Ranciere: «La costruzione di un film di Béla Tarr inizia sempre con la ricerca del
luogo che possa prestarsi al gioco delle attese. Questo luogo è il primo personaggio del
film.»
9
; le parole del critico ci dicono innanzitutto che lo spazio per il regista è un elemento
importante tanto quanto gli attori e per questo deve avere la stessa quantità di peso visivo
che hanno questi ultimi (aspetto che approfondirò nel prossimo paragrafo, riguardante lo
stile) e oltretutto, dovendo veicolare specifici significati, può essere sia costruito che
naturale, ma costruito non nel senso di set cinematografico allestito ad hoc dal nulla in uno
studio, bensì nel senso di assemblato con pezzi di realtà
10
. Si tratta di uno spazio reale-non
reale formato, ad esempio, da scorci di luoghi realmente esistenti che vanno a restituire, di
5
A. A. TARKOVSKIJ, Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema, trad. it. di V. Nadai, Ist. Internazionale
Tarkovskij, Firenze 2015, p. 60.
6
Ibid.
7
G. GELENCSÉR, «Danse macabre», ovvero esiste la vita prima della morte. La filosofia delle immagini
in movimento nell’arte di Béla Tarr, in, A. SIGNORELLI, P. VECCHI, Béla Tarr, Edizioni di Bergamo Film,
Bergamo 2002, p. 11.
8
A. A. TARKOVSKIJ, Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema…, cit., pp. 60-63.
9
J. RANCIERE, Béla Tarr: il tempo del dopo, trad. it. di I. Floreano, Edizioni Bietti, Milano 2015, p. 59.
10
Ibid.
10
piano-sequenza in piano-sequenza, villaggi del tutto inesistenti (come in Satantango o in
Perdizione), oppure da casupole diroccate perfettamente abitabili costruite vicino a un albero
in una pianura ungherese (è il caso de Il cavallo di Torino).
Se Tarr, all’inizio della propria carriera, si interessa agli spazi umani chiusi delle case
proletarie, prigioni statiche dell’individualità più che ambienti da osservare
sociologicamente – a sottolineare già una distanza filosofica di fondo dall’approccio quasi
documentaristico, pur caratteristico del suo stile d’esordio
11
–, approda poi progressivamente
ad uno spazio più aperto, per certi versi metafisico – seppur, è bene sottolinearlo, il cinema
tarriano è quasi totalmente privo di aspetti dichiaratamente metafisici, poiché si interessa di
un’umanità che ne è ormai del tutto priva
12
– non solo perché non più unitariamente vero,
ma perché idealmente rappresentativo dell’interiorità dei personaggi e quindi paradigmatico
dell’uomo. È un allargamento di campo che ricerca l’intensità di sguardo
13
.
L’unione di questi due elementi, il tempo della vita e lo spazio paradigmatico
dell’esistenza – che, a questo punto, possiamo ben riconoscere come gli specifici filmici
della teoria cinematografica del regista –, rende il cinema di Tarr un cinema moderno affine
a quello del già citato Tarkovskij e non postmoderno, in quanto non più cinema della forma
che nasconde l’essenza, ma uno in cui la forma – una forma che racchiude un nuovo
linguaggio cinematografico – è essa stessa l’essenza
14
.
Gàbor Gelencsér lo definisce «cinema dell’attenzione intensiva», ovvero quello in cui gli
eventi esteriori (la pioggia, il vento, il fango etc.) si trasformano, grazie alla macchina da
presa in eventi interiori
15
, un tipo di esperienza che invita, quindi, lo spettatore a guardare,
atto fondamentale che gli permette, osservando la realtà che si svolge davanti a lui in modo
quasi del tutto privo di compromessi (la realtà dell’inquadratura, che è ovviamente
congruente allo sguardo del regista), di affacciarsi a un mondo del presente privo di
speranza
16
e a riconoscere quanto questo sia inquietantemente simile al proprio.
Possiamo quindi concludere affermando che nei film di Béla Tarr il tempo del presente è
l’unico tempo costitutivo della narrazione, così come lo è nella realtà e la stessa cosa si può
dire dello spazio, che è una composizione di elementi paradigmatica dell’uomo.
11
G. GELENCSÉR, «Danse macabre», ovvero esiste la vita prima della morte. La filosofia delle immagini
in movimento nell’arte di Béla Tarr…, cit., pp. 8-9.
12
Ibid.
13
Ivi, p. 12.
14
Ivi, pp. 7-8.
15
Ivi, p. 12.
16
A. PICCARDI, Visioni d’utopia, in, A. SIGNORELLI, P. VECCHI, Béla Tarr, Edizioni di Bergamo Film,
Bergamo 2002, p. 39.