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Introduzione
L’idea con cui ci si approccia ad un lavoro condiziona gioco forza il metodo mediante il
quale viene condotto il lavoro stesso; da qui il pericolo di uno studio fazioso che taglia e
cuce le fonti a norma dell’utile sì da deformare il pensiero dell’autore alla forma dell’idea
che dell’autore si è fatto lo studente.
In questo lavoro ho cercato di dimostrare come il tema della violenza sia un argomento
obliquo che, lungi dall’essere una questione centrale, rimane tuttavia una parte importante
della riflessione foscoliana. Se posso assicurare una sostanziale imparzialità nello scegliere
le fonti, non posso tuttavia vantarmi della stessa nel tentativo di delineare quel percorso
che cerca di dare organicità alla riflessione foscoliana circa l’idea di violenza, dal momento
che quest’organicità potrebbe essere pretenziosa e non fattuale, tuttavia ciò non è di certo
nelle intenzioni di chi scrive e, se troverà riscontro, si avrà la bontà di considerarlo come
frutto dell’inesperienza.
Questo lavoro si occupa di tematizzare la questione della violenza nell’opera di Ugo
Foscolo, considerando un arco di tempo che va dagli anni della primissima produzione
poetica fino al periodo immediatamente precedente l’esilio.
Un lavoro di questo tipo si giustifica in un duplice ordine di motivazioni: la prima ragione
è quella della fattuale mancanza, all’interno della critica foscoliana, di scritti che si
occupino precipuamente del tema in questione; non che questo testo abbia pretesa di
completezza, tuttavia mi pare che possa essere un piccolo spunto da cui da cui si potrà
procedere a dissertazioni ben più approfondite. La seconda ragione è di ordine esegetico:
ritengo che a partire dai suggerimenti presenti in questo scritto si possano fornire
interpretazioni nuove sia dell’opera nel suo complesso, sia di alcuni passi più precisi.
Questo testo ha tendenzialmente due obiettivi: il primo è quello di rendere manifesti, e
quindi contestualizzare, quei luoghi della produzione foscoliana in cui più evidentemente
viene alla luce la questione della violenza. Il secondo consiste nel tentativo di
6
sistematizzare questi stessi passi in un unicum organico, sì da mostrare l’evoluzione cui il
concetto di violenza è andato incontro durante l’arco di tempo suindicato.
Il metodo adottato per lo studio della questione è funzionale all’obiettivo che ci si è posto:
partendo da una selectio per loci lungo il maggior numero possibile di testi che il più o
meno ristretto tempo di una tesi triennale ha dato modo di consultare, si è proceduto alla
contestualizzazione degli stessi, interpretandoli secondo il preciso contesto storico di
appartenenza. A questo punto si è divisa la produzione dell’autore in tre macroaree,
corrispondenti peraltro ai tre capitoli del testo, e in ognuna di esse sono stati raggruppati i
passi contigui per dimensione temporale e tematica; si è dunque tentato di interpretare
ogni macroarea definendola in base ad una più o meno precisa idea di violenza.
Lo scritto è diviso in tre capitoli, ognuno dei quali è preceduto da un breve contesto
storico-culturale: nel primo si passano in rassegna i testi della prima produzione giovanile,
quindi quelli che vanno grosso modo dal 1796 al 1799; questi testi vengono interpretati in
base ad un’idea di violenza giustificata in nome dell’atto rivoluzionario. Nel secondo
capitolo si considerano gli scritti stesi tra la fine del 1799 e il 1803, ovvero quelli che
possono essere interpretati alla luce del rifiuto dell’esperienza precedente e dell’apertura
verso una riflessione più consapevole del tema. L’ultimo capitolo è quello che abbraccia
l’arco di tempo più vasto, ossia dal 1803 fino all’esilio del 1813; gli scritti di questo periodo
sono considerati in virtù del tentativo di sistematizzazione del tema operato dal Foscolo
stesso.
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1 In nome di un’idea. La violenza giustificata
1.1 Contesto storico – culturale
Nei primi giorni dell’aprile 1796
1
Napoleone valicava il passo di Cadibona
2
, costringendo
all’armistizio
3
Vittorio Amedeo II ed entrando, il 10 maggio, a Milano, da dove avrebbe
mosso verso sud costringendo alla resa Parma, Roma e Napoli, nonché Pio IX
4
alla
rinuncia dei territori di Ferrara, Bologna e Romagna.
Nel marzo 1797 il Còrso passava nuovamente le Alpi tentando direttamente la via per
Vienna ed ottenendo, il 18 aprile a Leoben, una pace preliminare che riconosceva le
conquiste francesi in Italia.
Contrariamente alle indicazioni del Direttorio, che desiderava utilizzare i territori appena
conquistati come pedina di scambio con l’Austria al fine di ottenere il riconoscimento delle
“frontiere naturali”, il giovane generale decise di creare nell’Italia settentrionale una
repubblica indipendente.
Intanto la secolare Repubblica di Venezia insisteva nel proclamarsi neutrale sebbene la
situazione del suo territorio fosse di fatto diversa: nel mese di marzo, al centro delle piazze
degli ex territori lombardi della Serenissima
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, s’innalzava l’albero della libertà. Nel mese
successivo insorsero anche i territori al di là del Mincio e alla fine di aprile Padova e
Vicenza istituirono la municipalità; era chiaro che la sedicente “neutralità” stava
indebolendo Venezia.
1
I lineamenti storici di carattere più generale sono presi da CAPRA (2016), mentre quelli più specifici del triennio
rivoluzionario da AMBROSINI (2013).
2
Attualmente nella provincia di Savona, è comunemente considerato il passo che divide le Alpi dall’Appennino.
3
Siglato il 15 maggio a Cherasco.
4
Mediante la pace di Tolentino del 19 febbraio 1797.
5
Quindi nelle città di Bergamo, Brescia e Crema.
8
Fu di fatti un grossolano errore della Serenissima che spinse Napoleone a dichiararle
guerra: all’incrociatore francese “Liberatore d’Italia” fu negato l’ingresso nel porto della
città, avendo dunque cercato di forzare il passaggio, fu fermato dalle cannonate esplose
dal forte di Sant’Andrea e quindi abbordato da una compagnia di schiavoni. Questo
avvenimento, unitamente all’episodio delle “Pasque Veronesi
6
”, fu, dicevamo, il pretesto
per il quale Napoleone dichiarerà guerra alla Repubblica. In città non ci fu nessuno
scontro armato; il Maggior Consiglio, ormai resosi conto della situazione irreversibile,
rinunciò di sua sponte al diritto di gestire in completa autonomia gli affari della
Repubblica, avviando trattative dirette con Bonaparte: il 12 maggio si ebbe finalmente il
definitivo passaggio dal vecchio governo alle nuove istituzioni democratiche.
Nel 1792 Niccolò Ugo Foscolo abbandonava definitivamente l’isola di Zante e si trasferiva
a Venezia, dove avrebbe frequentato la scuola di San Cipriano a Murano prima e le
pubbliche scuole degli ex Gesuiti poi. È in questi primi anni che comincia ad entrare in
contatto con la vita politica e letteraria delle città, presenziando di frequente al salotto di
Isabella Teotochi Albrizzi, finché, nel 1796, non si recherà a Padova per seguire le lezioni
dell’ammirato maestro Melchiorre Cesarotti.
L’arrivo delle truppe napoleoniche in Italia significò un rilevante incremento
dell’esaltazione del Foscolo e con lui di un numero vastissimi di giovani borghesi liberali;
non è un caso che in questo periodo il Nostro venne costretto ad una sorta di “esilio” a
Ceriole di Teolo, alle pendici dei Monti Euganei, ciò nonostante una volta riassestatasi la
situazione poté fare ritorno a Venezia, ma non vi restò per molto: poco dopo la
rappresentazione, nel gennaio del 1797, del suo Tieste al teatro Sant’Angelo, prese la via
di Bologna per arruolarsi come volontario fra i Cacciatori a cavallo della Repubblica
Cispadana. Nel frattempo, come già detto, a Venezia si venne a formare un “Provvisorio
Rappresentativo Governo” ed il 16 maggio cominciarono i lavori della nuova municipalità
6
Per “Pasque veronesi” si intende l’insurrezione che vide scontrarsi la città di Verona con le truppe occupanti francesi,
conclusasi con la durissima repressione militare di quest’ultime e che durò dal 16 aprile, il giorno di Pasqua, al 23 dello
stesso mese.
9
a cui Foscolo, precedentemente tornato a Venezia, prese parte in qualità di segretario
verbalizzatore delle sedute della Società d’Istruzione Pubblica.
Per meglio comprendere l’esperienza foscoliana di questi anni ed inquadrarla in un
contesto europeo è necessario che ci si soffermi per qualche riga sul contesto socioculturale
che ha caratterizzato il vecchio continente in questo arco temporale.
È un fatto che i giovani europei attivi nella seconda metà del XVIII secolo abbiano ricevuto
una formazione classica basata soprattutto sullo studio dei grandi scrittori latini quali
Cicerone, Cornelio Nepote, Sallustio, Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio e Plutarco
7
. A questo
dato si affianca poi l’approssimativa conoscenza del mondo greco da parte di questo
stesso gruppo sociale
8
.
Volendo momentaneamente soffermare lo sguardo sulla Francia ed in particolar modo
sulla Parigi del periodo rivoluzionario, si vedrà, il che è stato già osservato
9
, come
l’immaginario classico pervada l’intera società di fine XVIII secolo; si pensi alla
preminenza dell’arte neoclassica e ai soggetti che rappresenta, ma si osservi soprattutto
come la personalizzazione dei temi, e quindi l’identificazione con gli eroi della repubblica
(tra tutti l’esempio di François-Noël Babeuf che diventa Gracchus Babeuf.
10
), sia un nodo
fondamentale per inquadrare meglio il fenomeno che andremo descrivendo; i passi
foscoliani che si osserveranno hanno grosso modo tutti in comune l’esaltazione della
figura napoleonica operata a partire da una rappresentazione, sia estetica che valoriale,
tipicamente classica.
Si osserva dunque come nel tardo Settecento la classicità agisca come generale misura
estetica, tuttavia si noti anche come nella rappresentazione del fatto politico i suoi modelli
entrino con una forza e una complessità del tutto peculiare; si parlerà allora di “mirage
7
PARKER (1937), p.14.
8
CANFORA (1980), p. 12.
9
VIDAL – NAQUET (1996), p. 223.
10
ivi, p.226.
10
spartiate
11
” e si guarderanno con occhio nostalgico ed ammirato i grandi personaggi della
storia di Roma, i quali vengono tendenzialmente identificati in due ordini di soggetti
12
:
il personaggio ricorrente nella narrazione politica è quello del legislatore, da intendere non
come personaggio storico, ma come entità ordinatrice astrattamente intesa. Il modello che
emerge invece dalla narrazione più squisitamente letteraria è quello dell’eroe, nel
particolare l’eroe di Plutarco, del quale sarà necessario ragionare brevemente.
In Plutarco gli intellettuali del XVIII secolo avevano trovato l’armonia, la limpidezza e la
chiarezza che andavano ricercando, ma soprattutto la dimensione morale; a tal proposito,
spostandoci di nuovo da Parigi, potremmo citare Gravina:
Per fondo poi di ogni erudizione, e di Filosofia morale, tanto civile, quanto dogmatica,
basterà di tempo in tempo andar leggendo le Vite e gli Opuscoli del Plutarco.
13
Quindi le Vite Parallele come enorme bacino di exempla all’interno del quale attingere
determinati modelli di comportamento che poi dovranno senz’altro essere inseriti nel
sistema di valori del tardo XVIII secolo, di conseguenza l’inquadramento del personaggio
di ascendenza plutarchiana all’interno dello schema oppositivo eroe – tiranno ed in fine la
sottesa giustificazione della violenza come unico metodo di liberazione dalla condizione
di asservimento e quindi esaltata come strumento di manifestazione della virtù.
Questa lettura esemplare e morale della storia classica veicolata da Plutarco, per dirla con
Vidal – Naquet, «implicava inoltre una cesura della dimensione temporale
14
», faceva, per
così dire, uscire la storia classica dalla storia. Era quindi la personalità del singolo che,
considerata in una dimensione assoluta ed esemplare, veniva completamente strappata e
isolata dal contesto storico cui apparteneva, non sempre con risultati eccellenti; del resto è
stata fatta molta ironia sulla lettera con cui Hérault de Sèchelles domandava al
11
Espressione utilizzata per simboleggiare il vagheggiamento dei valori, ma soprattutto della legislazione, della Sparta
di Licurgo.
12
ivi, p.222.
13
GRAVINA (1757).
14
Vidal – Naquet (1996), p.222.
11
conservatore del Département des imprimés della Bibliothèque Nationale di procurargli
“seduta stante” il testo delle leggi di Minosse di cui aveva bisogno per il proprio incarico
di redattore di un progetto di costituzione
15
.
Sintetizzando si potrebbe affermare che, da un lato per una conoscenza approssimativa
della storia in sé e dall’altro per un utilizzo non esattamente cauto delle fonti, soprattutto
Plutarco
16
, i rivoluzionari fossero giunti ad una concezione della storia classica
completamente distante dal vero, distorta, ma soprattutto mitizzata e quindi strappata dal
tempo ed elevata ad un orizzonte mitico di virtù ideali che si proponevano di riportare
sulla terra. A tal proposito Canfora sottolinea come «i Giacobini nel loro fanatismo per
Sparta, sembrano aver perso – forse anche per l’idealizzazione fattane da Rousseau –
questa dimensione storica e questa capacità di storicizzare
17
».
La demolizione della deformazione del mito greco e romano creato dai giacobini ebbe
inizio a partire dall’omicidio di Robespierre, la fine del Terrore e l’inizio del periodo
termidoriano
18
: Del Vento
19
, Canfora
20
e Vidal Naquet
21
citano tutti l’esempio della lezione
tenuta dal termidoriano Costantin Volney all’Ecole Normale, di poco successiva alla
caduta di Robespierre, di cui si riportano le righe che seguono:
ciò che c’è di bizzarro in questo nuovo genere di religione è che i suoi apostoli non
avevano un’idea corretta della dottrina che predicavano […]. Hanno dimenticato che,
presso i romani, questi medesimi costumi, questo regime dominarono in quelli che si
chiamano i più bei tempi della Repubblica; che questa pretesa Repubblica, diversa
secondo le varie epoche, fu sempre un’oligarchia.
15
ivi, p.227.
16
CANFORA (1980).
17
CANFORA (1980), p. 17.
18
Ibidem.
19
DEL VENTO, (2003), 173.
20
CANFORA (1980), p.17.
21
VIDAL – NAQUET (1996), p. 236