CAPITOLO PRIMO: LA STORIA
1.1 – Teatro Politico: cenni storici
Il teatro Politico come genere, come concetto unificante un modo di far teatro, nasce solo
nel Novecento, ed il primo a darne un’impostazione teorica ufficiale è Erwin Piscator.
Eppure forme più o meno politiche di teatro sono individuabili già molti anni prima; si tratta
però di intendere questa politicità vedendola in rapporto alla sua definizione etimologica:
politica deriva dal latino polìtica, dal greco politikè, significante “che attiene alla città”; ma a
sua volta il termine “politica” deriva da quello di “polis”, indicante la cosiddetta città-stato
dell’antica Grecia.
C’è quindi, nel termine politica, innanzitutto una volontà di rapportarsi alla collettività, di
coinvolgerla; solo in un secondo tempo questo termine viene ad essere inteso più direttamente
come “l’arte di governare” e di conseguenza di “detenere un potere”.
Considerandolo quindi dal suo lato più generale, fin dai tempi della Grecia antica sono già
individuabili opere teatrali fatte per la città, per rappresentarla, per unire la collettività o anche
per rappresentarne vizi e difetti. Opere anche di carattere satirico; nell’evoluzione della storia
teatrale possiamo comunque poi ritrovare opere con caratteri politici anche in altri periodi:
solo per fare alcuni dei nomi più famosi si possono citare la Commedia dell’Arte,
Shakespeare, Molière, insomma quegli esponenti di un teatro che si rapportava ai vizi o ai
problemi intensi di una determinata società in cui si ritrovavano ad operare.
Come già accennato, col tempo il cosiddetto carattere politico venne sempre più inteso nel suo
lato di “gestione di un potere”, di un governo; perdendo quindi la caratterizzazione più sociale
e vertendo maggiormente su quella organizzativa del potere (ma che implicitamente
comunque deve, per sua natura, relazionarsi alla collettività governata).
Si può dire che il teatro Politico deriva direttamente da quello Popolare: questo tipo di
teatro affonda le sue origini nel millesettecento; Diderot e Rousseau ne parlano definendolo
come capace di avere una funzione unificante e di elevazione culturale-morale nei confronti di
una collettività, allo stesso tempo proprio perché deve rivolgersi ad una grande massa di
persone deve avere un linguaggio semplice, capibile da tutti. Dice Castri nel suo libro: “Il
teatro popolare […] è unificante e tonificante e si basa per questo fine sull’uso massiccio
3
dell’empatia tra platea e palcoscenico e sulla presentazione di modelli eroici di
comportamento”
1
.
Spostandosi un po’ più avanti nel tempo, all’epoca della socialdemocrazia in Germania, ad
esempio, il teatro popolare sembra aver trovato ampio spazio nella produzione teatrale
“alternativa” a quella borghese, ma rimane pur sempre un tipo di messa in scena in cui la
classe popolare “non viene percepita come soggetto di cultura […] ma come oggetto di
acculturazione”
2
, quindi come dei semplici consumatori passivi.
Un primo cambiamento lo si ha a partire proprio dagli sconvolgimenti provocati dalla Prima
guerra mondiale e dalla Rivoluzione d’Ottobre in Russia: in Russia cominciano ad operare i
gruppi Agit-prop, cioè tutta una serie di manifestazioni (anche teatrali) che davano vita a
spettacoli con precise tesi politicamente ben definite; l’obiettivo era indurre i cittadini a
impegnarsi nella lotta politica e soprattutto contro le ingiustizie sociali e il “potere borghese”.
Nell’Agit-prop è giusto anche includere autori e registi di grande fama come Majakovskj e
Mejerchol’d.
Questo modo di agire politicamente si fece strada poi anche in Germania e da questi esempi,
Piscator prima, Brecht successivamente, cominceranno a riformulare l’idea di teatro, dandogli
sempre più un taglio ideologico.
Il teatro Politico nasce in contrapposizione a quello popolare, che dato i tempi caotici, non
sembrava più aver alcun reale significato; Piscator
3
in Germania è il primo che ne tenta una
1
Massimo Castri, Per un teatro politico, Torino, Einaudi, 1973, p. 29.
2
Ivi, p. 36.
3
Nato a Ulm nel 1893 da famiglia borghese, studiò a Monaco. Maturò nello sfacelo della grande guerra, sul
fronte fiammingo, la sua scelta politica e culturale. Piscator fece parte del gruppo dadaista di Berlin, era
impegnato socialmente su posizioni bolsceviche, si identificava con gli ideali del movimento della Volksbühne.
Per la campagna elettorale della KPD del 1924 mise in scena una rivista di propaganda, RRR (o "Revue ro ter
Rummel"): fu in questa occasione che incontrò due dei suoi principali collaboratori futuri, il compositore
Edmund Meisel e il drammaturgo Felix Gasbarra; nel '25 diresse uno spettacolo a episodi sulla storia della
sinistra tedesca, Trotz alledem! (Nonostante tutto) in cui si servì della proiezione di scene di guerra per ottenere
maggiore efficacia visiva. Questo segnò la nascita del teatro documentaristico. Nel '26 Piscator applicò le sue
tecniche a una regia per la Volksbühne, La mareggiata di Alfons Paque, principale caratteristica della
scenografia di Piscator fu un grande schermo cinematografico su cui venivano proiettate una battaglia navale e
scene di massa; sempre nel '26 rappresentò l'opera a episodi di Paul Zech Il battello ebbro su Rimbaud,
proiettando su un triplice schermo nello sfondo acquerelli di Grosz e ricorrendo alla sequenza filmata per
mostrare le onde del mare dietro al battello di Rimbaud. Nel '27 in seguito alla rappresentazione di un dramma di
Ehm Welk sul medioevo (Tempesta su Gottland), che Piscator aggiornò con un prologo filmato e un contesto
estremamente politicizzati, gli fu imposto di adeguarsi a un principio di neutralità politica; ciò provocò una
scissione nella Volksbühne, con Piscator che formò una propria compagnia. Il suo collettivo di drammaturghi
diretto da Gasbarra comprendeva Brecht, Mehring, Jung, il giornalista austriaco Leo Lania ed altri. Nacque così
la prima Piscatorbühne, che nel 1927-28 allestì quattro spettacoli, la cui influenza si è protratta fino ai nostri
giorni. Per primo fu rappresentato Oplà, noi viviamo! di Toller, dramma che riflette in maniera moderata sulla
delusione dell'autore dalla SPD in seguito alle sue esperienze fatte in carcere; la rappresentazione si basò sulla
scena multipla e sull'uso del film. Fu eliminato ogni romanticismo dal linguaggio di Toller e dal carattere del
protagonista trasformato in un semi-proletario; gli episodi si susseguivano nelle diverse sezioni di una
4
formalizzazione teorica e pratica, rivendicando una visione più scientifica della storia che
permetta di indagarne le cause interne e farle conoscere alle persone. Si trattava insomma di
comprendere, analizzare, capire le forze che muovono gli eventi storici, tramite un’analisi
storico-materialista; ma anche di concepire un rapporto nuovo e diverso fra spettacolo e
spettatore. Quest’ultimo aspetto però sembra venire meno o comunque non ricevere da
Piscator l’adeguato approfondimento: se nell’allestimento scenico si tentano nuove vie di
comunicazione come l’introduzione di materiale filmico documentario, film appositamente
girati per lo spettacolo, schermi multipli, scene girevoli, non sembra che ci sia un’altrettanto
approfondimento nel rapporto col pubblico, scrive Castri in proposito:
Lo spettatore partecipa emozionalmente allo svolgersi grandioso e drammatico dell’evento storico-politico
rappresentato sulla scena, così come nell’ “altro” teatro [quello borghese] si immedesimava nelle vicende
tragiche e poetiche dei personaggi.
C’è in fondo una inconfessata sfiducia in questo tipo di comunicazione e nella possibilità che una esposizione
lucida e razionale dei meccanismi storico-politico-economici possa mettere in moto il gesto politico dello
spettatore […] Così vien fatto di pensare, che, man mano che gli spettacoli di Piscator si fanno più
affascinanti per ricchezza di invenzioni, proprio nella loro bellezza e meraviglia si rifletta in negativo la
speranza sempre frustrata che la rivoluzione avvenga realmente.
Piscator giunge ad un magnifico emozionalismo storico, ad un gesto politico evocato ma anche bruciato
emozionalmente dentro il teatro
4
.
Sebbene Piscator inizi la strada del teatro Politico, allo stesso tempo non riesce a rapportarlo
all’uomo stesso, visto come dominato dai processi storici, ma anche probabilmente, non
riesce a trovare un’efficace soluzione all’interno del mezzo teatrale stesso, andando a
ricercarla nel cinema e in tecnologie sempre più complicate, costose (da ricordare che nel
impalcatura a tre piani formata da condutture del gas e con in alto una nicchia centrale per le proiezioni. Nel
successivo Rasputin , si adattò un dramma di Aleksej Tolstoj e dello storico Scegolev sugli ultimi giorni dello
zarismo: si usò un palcoscenico emisferico girevole che si apriva in segmenti, e proiezioni simultanee di tre film,
oltre che di materiale statistico e documentaristico. Costretto dal nazismo a emigrare negli Stati Uniti, insieme
alla moglie Maria Ley, fondò nel 1939 a New York il “Dramatic Workshop”, una scuola di teatro in cui si
formarono molte delle figure più rappresentative dell'avanguardia teatrale nordamericana: da Judith Malina
(fondatrice con Julian Beck del “Living Theatre”), a George Bartenieff (fondatore e direttore del “Theater for the
New City”); frequentata da personalità come Marlon Brando, Tony Curtis, Tennessee Williams, Arthur Miller.
Portando ai suoi allievi due principi fondamentali, quelli su cui ha sempre basato la sua azione teatrale: la
possibilità di sfruttare a teatro la complessità dei mezzi comunicativi messi a disposizione dal progresso e dalla
complessità della possibilità architettoniche e spaziali; e l'impegno dell'attore. (biografia presa dal sito:
http://www.girodivite.it/antenati/xx2sec/_piscato.htm)
4
Ivi, p. 80-83-89.
5
periodo in cui operava, prima alla Volksbühne e poi all’ esterno di essa, il prezzo del biglietto
“politico” era molto basso e inadeguato a ripagare gli alti costi della ricerca scenica). C’era
insomma un’incapacità ci creare un teatro Politico realmente commisurato alle esigenze
storiche ed economiche del teatro stesso.
1.2 – Bertolt Brecht
Bertolt Brecht nasce il 10 febbraio 1898 ad Augusta in Germania
5
, è considerato oltre che
uno dei drammaturghi, registi, più influenti del Novecento teatrale, il maggior esponente e
teorico del cosiddetto teatro Politico; eppure è bene farlo notare che in tutti i suoi scritti egli
non parla mai, riferendosi a sé stesso, di teatro Politico, ma piuttosto di teatro epico.
Brecht riconosce l’importanza della ricerca di Piscator, rimarca il fatto che il suo teatro epico,
senza Piscator probabilmente non sarebbe nato, ma allo stesso tempo ne “mantiene le
distanze”. Piscator del resto ha avviato il fondamentale processo per cui si rifiuta il punto di
vista semplicemente estetico in favore di quello connesso alla lotta politica. Effettivamente ci
sono delle differenze importanti tra i due: pur partendo dal medesimo scopo, cioè cercare una
via teatrale per imporre una nuova visione della realtà e della società, le vie intraprese sono
diverse. Brecht da subito si concentra in un’intensa analisi della realtà capitalistica e
dell’uomo stesso all’interno di questa società, di conseguenza porta molta attenzione anche al
comportamento umano e alla possibilità di comprenderlo per modificarlo. Il teatro comincia
cioè ad essere inteso come strumento per il cambiamento dell’uomo e della realtà, partendo
però dall’uomo, dal quale deriverebbero anche le contraddizioni di una determinata epoca.
Ciò che fa Brecht è quindi cercare la causa prima delle problematiche economico-sociali del
5
Dal 1919 scrive critiche teatrali per il giornale socialista Ausburger Volkswille e nello stesso anno si avvicina al
movimento spartachista. La sua prima commedia di successo è Trommeln in der Nacht [Tamburi nella notte],
scritta nel 1920 e rappresentata a Monaco nel 1922. Nel periodo 1929-32 scrive vari drammi didattici, in cui si
propone di diffondere il materialismo dialettico, di contribuire a rovesciare il regime, di "trasformare" anziché di
interpretare la realtà. Si lega al partito comunista, benché non vi sia iscritto. Dopo l'incendio del Reichstag (27
febbraio 1933), lascia la Germania nazista con la famiglia; in maggio i suoi libri vengono bruciati. Dal 1933 al
1947 risiede in esilio in Danimarca, Svezia, Finlandia, Unione Sovietica e Stati Uniti. Del 1935 è Furcht und
Elend des dritten Reichs [Terrore e miseria del Terzo Reich], nel 1939 scrive Mutter Courage und ihre Kinder
[Madre Courage e i suoi figli] e compone la raccolta delle sue maggiori liriche, Svendborger Gedichte [Poesie di
Svendborg]. Nel 1940 inizia la stesura di Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui [La resistibile ascesa di Arturo
Ui] e nel 1947 viene rappresentata senza successo la seconda versione di Leben des Galilei [Vita di Galileo]. Il
30 ottobre 1947 compare davanti al "Comitato per le attività antiamericane"; ottenuto il visto lascia gli Stati
Uniti e si stabilisce in Svizzera, poi nel 1948 giunge a Berlino Est attraverso la Cecoslovacchia (gli è rifiutato il
passaggio attraverso la Germania Federale). Nel 1949 fonda il "Berliner Ensemble", che diverrà una delle più
importanti compagnie teatrali, e fino alla morte si dedica soprattutto all'attività. Muore il 14 agosto 1956 per un
infarto cardiaco.
6
suo tempo; tali contraddizioni vengono poi ad incarnarsi all’interno dei personaggi dei suoi
drammi, sempre Castri ci ricorda come il personaggio di Madre Coraggio ne sia un
esemplificazione tipica: vive della guerra e nella guerra perde i figli, un procedimento quindi
che tende a illuminare i problemi sociali ed economici attraverso i personaggi.
Ciò a cui vuole arrivare è una nuova presa di coscienza, da parte dello spettatore, della
situazione in cui si trova a vivere; indurlo a pensare in modo nuovo, attraverso una diversa
mentalità, tramite un atteggiamento critico nei confronti della realtà. Se inizialmente la sua
produzione faceva capo a un teatro “didattico” troppo imperniato all’insegnamento
dell’ideologia marxista, successivamente (soprattutto dalla fine degli anni Trenta) comincia a
sviluppare il suo famoso teatro epico. Il termine “epico” sta a delineare un nuovo modo di
intendere la drammaturgia di un testo: una narrazione di vicende, spesso prese dalla cronaca
più comune, non soggetta all’unità di tempo, luogo e azione tipiche, invece, del recupero
classicista del dramma. Per fare questo (oltre alla costruzione di drammaturgie apposite) si
lavora molto anche sulla tecnica recitativa che non deve assolutamente produrre catarsi, ma
trovare un modo per avviare questa analisi dei problemi e creare quindi un “distanziamento”
emotivo rispetto a ciò che viene rappresentato. Lo straniamento è la tecnica con la quale si
perseguirà un nuovo metodo recitativo adeguato ai tempi: si utilizzeranno diversi registri
espressivi, quali la musica, la parola, il gesto, tutti sviluppati in modo da permettere allo
spettatore di partecipare e giudicare quanto rappresentato in scena.
Per raggiungere questa “razionalità” rappresentativa, ad esempio, molto famoso è diventato
l’utilizzo di musiche originali (composte da Paul Hindemith, Kurt Weill, Hanns Eisler) che
permettessero di creare stacchi (riflessivi) tra una scena e l’altra del dramma o l’utilizzo dei
(famosi) cartelli portati in mano dagli attori in cui si specificavano varie cose, dal luogo
dell’azione, a didascalie, a commenti (detti anche a voce) o altro, sempre per evitare
l’immedesimazione e la funzione catartica del teatro di stampo aristotelico.
Brecht insomma fa corrispondere le esigenze di cambiamento “esterno” a quelle di un
cambiamento “interno” del teatro, coinvolgendo recitazione, scenografia, l’atteggiamento del
pubblico e dell’intero sistema produttivo teatrale.
Risulta però molto importante ricordare che lo stesso Brecht afferma che “il teatro ‘che nel
nostro tempo abbiamo visto diventare politico […] non era stato apolitico in altri tempi’ […]
La qualità politica del teatro è dunque determinata dalla corrispondenza che inevitabilmente
7
sussiste tra la posizione che un fenomeno teatrale occupa all’interno del proprio ambito e la
posizione che assume nei confronti dello sviluppo dell’attività politica”
6
.
Allo stesso tempo aggiunge Vicentini:
Da un lato è perfettamente lecito per l’artista orientare il proprio lavoro secondo le esigenze politiche del
momento e costruire la propria opera come strumento per l’azione politica immediata di un partito o di un
movimento. Dall’altro lato non è la conformità dell’opera alle esigenze dell’azione politica immediata che
costituisce la garanzia dell’efficacia della validità politica del lavoro artistico. La garanzia risiede invece
nella conformità del lavoro ai caratteri e alle esigenze che il processo storico generale esprime nella sua fase
attuale. Si offra o non si offra come strumento immediato per l’azione politica delle forze in lotta, l’opera
teatrale esprime la sua piena efficacia e validità politica in quanto è un corretto esempio di teatro dell’era
scientifica.
Ancora:
L’impianto teorico di Brecht consente quindi la definizione di un modello di teatro la cui azione favorisce il
raggiungimento dei fini generali perseguiti dall’azione politica rivoluzionaria. Non permette invece la
definizione di un modello di teatro che costituisca lo strumento per l’azione politica immediata
7
.
C’è però nel libro di Vicentini un discorso che ritornerà sicuramente utile più avanti, quando
si parlerà delle trasformazioni del teatro Politico subite negli anni Sessanta e Settanta.
Si ricordi innanzitutto come l’espressione “teatro Politico” curiosamente mai usata da Brecht
per il suo teatro, oggi invece lo collega immediatamente ad esso, spesso includendovi un ben
preciso metodo di lavoro scenico-drammaturgico strettamente connesso all’ideologia-
propaganda di sinistra; di conseguenza delineando un principio generale per il “teatro
Politico”. Eppure come già delineato da Vicentini, un teatro è politico quando si rapporta alla
sua società, divenendone non uno strumento immediato di azione politica, ma corretto
esempio di quel periodo storico, con determinate caratteristiche ed esigenze. Sembra imporsi
implicitamente quindi un’obbligatorietà di evoluzione del teatro Politico, proprio in base ai
diversi momenti storici in cui può trovarsi ad operare.
Non quindi un teatro definito una volta per tutte, ma solo per quell’ambito storico
particolare in cui Brecht ha operato, ma anche con la possibilità di evolvere e recuperare un
diverso carattere “politico” in base al momento storico in cui lo si vuole “usare”; di
6
Claudio Vicentini, La teoria del teatro politico, Firenze, Sansoni Editore Nuova, 1981, p. 112.
7
Claudio Vicentini, op.cit., p. 113-121.
8
conseguenza si potrebbe anche pensare che questa evoluzione debba avvenire anche nelle
diverse componenti teatrali in gioco.
Se si considerano valide le suddette esposizioni si può allora anche cominciare a pensare che
il teatro Politico/epico brechtiano (come da lui stesso evidenziato) non fosse il primo teatro
politico della storia, ma che Brecht sia stato probabilmente il primo regista/drammaturgo a
fondarne una pratica e una teorica approfondita, di alto livello qualitativo, per uno spazio
temporale ben definito, con definite necessità e bisogni.
È da questa consapevolezza che si vuol partire per rintracciare ai giorni nostri, in Italia, una
evoluzione/rinascita del teatro politico (ma con la p minuscola), la volontà cioè di
intraprendere un viaggio che sia soprattutto di suggestione per un discorso che certo
meriterebbe ancora più approfondimento e discussioni, essendo passato un po’ in secondo
piano a causa spesso di una errata volontà di circoscrivere fenomeni ideologicamente
schierati.
Prima però pare necessario un’ulteriore excursus nelle modificazioni che già negli anni
Sessanta e Settanta pare aver ricevuto un teatro ideologicamente politico.
1.3 – Gli anni Sessanta e Settanta e il Nuovo teatro
In Italia i drammi brechtiani furono introdotti grazie a Giorgio Strehler all’interno del
Piccolo di Milano, ma fu una fase relativamente breve che durò dal 1956 al 1963. Di
esperienze significative nei confronti di un teatro Politico non ve ne sono molte, o perlomeno
riguardanti Brecht e l’ideologia alla base del suo teatro.
Quello che però accade tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta è
comunque importante perché avvengono tutta una serie di rivoluzionamenti teatrali che, in
qualche modo, ridefiniscono lo stesso concetto di politico, facendogli assumere una valenza
meno categorica e definitiva.
Il riferimento, a livello generale e non prettamente italiano, è a tutti quei registi o gruppi
teatrali che rifondano il concetto di teatro su alcuni principi ben definiti da Marco De Marinis:
A volerli riassumere molto in breve, essi riguardano principalmente: a) una crescente dilatazione materiale
del fatto teatrale; b) un sempre più marcato spostamento d’accento dal prodotto al processo creativo; c) una
diffusione di base della pratica del teatro senza precedenti per quantità e per qualità; d) una forte
esasperazione delle rispettive posizioni e una notevole radicalizzazione dei conflitti […] un continuo
itinerario di fuga dal teatro, di una tensione ininterrotta al superamento dei limiti della scena, insomma di una
9
progressiva marcia di avvicinamento verso quella che Eugenio Barba ha chiamato la “rottura dell’involucro
teatrale”.
Tutto questo porta inevitabilmente anche ad una:
a) Negazione di un teatro concepito soltanto come finzione e come rappresentazione; b) negazione del
professionismo teatrale e di quello attorico, in particolare, rigidamente intesi; c) negazione della divisione
netta di ruoli fra attori e spettatori; d) proposta di un teatro come fatto comunitario, processualità creativa di
gruppo
8
.
I nomi di chi decide di percorrere questa via sono vari: Living Theatre, il Teatro
Laboratorio di Grotowski, Peter Brook, l’Odin Teatret di Eugenio Barba, e in un campo molto
più strettamente legato alla politica gruppi quali (oltre al Living Theatre) l’Open Theatre, la
San Francisco Mime Troupe, il Teatro Campesino, il Bread and Puppet Theatre. Si tratta,
come si può notare, di gruppi internazionali che si trovano ad agire in America in un periodo
in cui forte era la protesta civile a causa di alcuni eventi quali la guerra in Vietnam, il
razzismo, la violenza. Gruppi che legano in modo intenso la loro attività teatrale all’idea di
usare il teatro come strumento di azione politica, per risvegliare, far prendere coscienza di
problemi sociali. Proprio sul modo di agire politicamente però si creeranno le prime
importanti divergenze: a chi ritiene che l’azione debba limitarsi a quella teatrale, mantenendo
un’autonomia del teatro e un suo uso allo scopo di sensibilizzare l’opinione ideologica, si
contrappongono coloro che vorrebbero subordinare il teatro ad un’azione più diretta nella
realtà, allo scopo quindi di rendere concretamente efficace l’uso del teatro.
Come si può capire questo modo politico di far teatro è ancora molto legato all’ideologia di
un pensiero contro un altro, anche se non presuppone più il seguire in modo predefinito un
modello brechtiano di fare teatro Politico; indubbiamente però la forte spinta di protesta di
questo periodo fa rinascere anche una forte voglia di discussione sulla politica all’interno del
teatro, del teatro come strumento di lotta politica, riportando quindi l’argomento al centro
dell’attenzione dopo un periodo di dimenticanza. Tutto questo fervore però sembra bruciarsi
molto in fretta: in generale Vicentini ricorda come, all’inizio degli anni Settanta, il teatro
come strumento di lotta politica non sembra essere più in grado di fornire indicazioni utili alla
ricerca sperimentale, di conseguenza piano, piano, si abbandona di nuovo l’argomento e
questi movimenti vengono a frammentarsi sempre più.
8
Sia la prima che la seconda citazione sono prese da: Marco De Marinis, Il Nuovo teatro 1947-1970, Milano,
Bompiani, 1987, p. 232 e 236.
10
Comunque anche l’Italia partecipa a quell’insieme di manifestazioni giovanili il cui scopo
era la voglia e la speranza di creare un mondo diverso, meno violento, tollerante; di
conseguenza anche in Italia iniziano nuove esperienze teatrali che si legano anche alla lotta
politica, ma non solo. Si può dire che iniziano tutta una serie di esperienze che trasmutano il
concetto di teatro Politico, in qualcosa d’altro, che Fabrizio Cruciani definisce in questo
modo:
Il termine [teatro Politico] ha ormai acquisito valore storico e, in quanto usato, sembra ‘significare’: in realtà
designa fenomeni assai diversi fra loro, quali il teatro dell’epopea di Piscator e il teatro epico di Brecht, il
teatro celebrativo di massa e l’ ‘Ottobre teatrale’, la funzione politica del teatro e il teatro di tendenza, il
teatro per il popolo e quello del popolo, il teatro all’interno di una classe e quello fatto in nome di una classe.
Quindi, De Marinis a riguardo aggiunge:
Invece che di Teatro Politico, come genere autonomo e autosufficiente, sarà preferibile parlare, d’ora in poi,
di “usi politici del teatro”, ovvero, per citare ancora Cruciani, di “un esistere politico del teatro dai molteplici
aspetti e dalle problematiche e dalle valenze assai differenziate […].” (l.c.). Invece di continuare a servirsi di
categorie astratte e ormai divenute ‘insignificanti’, sarà meglio cominciare a parlare di un teatro che si
qualifica politicamente, come politico, a seconda dei modi di comunicazione e di produzione che utilizza, a
seconda dei contesti nei quali si situa e agisce, a seconda dell’uso che se ne fa
9
.
È un concetto fondamentale per comprendere sia l’argomento di questa ricerca, sia il fatto
che se molte esperienze di teatro politico si sono poi rivelate non capaci di creare un tessuto
teatrale più coeso, forse è dovuto anche e proprio al grande apporto rivoluzionario del loro
agire, alla ricerca di una rigenerazione del concetto di “politico” all’interno del teatro.
Verrebbe da dire che l’unico reale problema, forse, è che rispetto al periodo di Brecht nessuno
di questi gruppi sia riuscito a trovare una “via maestra” riconosciuta ufficialmente come
predominante, come accaduto invece per il drammaturgo tedesco; ma anche in questa
interpretazione è bene considerare che (come evidenziato da Cruciani) la categoria “teatro
Politico”, definita per circoscrivere un fenomeno, alla fine ha finito per essere un ostacolo
storiografico nel non far comprendere la varietà di quelli che erano i movimenti teatrali in cui
si muoveva questo tipo di teatro tra gli anni venti e trenta del Novecento. Quindi in qualche
modo la varietà ha sempre fatto parte di questo modo di praticare teatro, ma varietà intesa
9
Entrambi le citazioni sono prese da: Marco De Marinis, Al limite del teatro, Firenze, La casa Usher, 1983, p.
174 e 175.
11
anche come alto grado di sperimentazione, di evoluzione di forme e linguaggi, allo scopo
primario di riuscire a comunicare, istruire, far riflettere lo spettatore su problemi sociali che lo
riguardano da vicino; un teatro che quindi si relaziona necessariamente con la collettività, per
la collettività e che insegue i bisogni di questa.
Ma attenzione! Il bisogno di una collettività, la capacità di sentirne i problemi e di ritrovare
con essa un rapporto comunicativo efficace, deve per forza guardare all’evoluzione stessa
della società in cui si vive; di conseguenza un teatro politico fatto in Italia non può avere le
stesse caratteristiche di uno fatto in America o in Africa: le diverse culture, società, tradizioni,
sono importanti per costruire un teatro politico adeguato al luogo. Ecco allora che viene a
cadere piano, piano anche il concetto stesso di un’ideologia più globale a spese di una
riflessione attuata a livello più particolare.
Con questo discorso è ovvio che ci si è spinti ancora più in là degli anni Settanta;
ritornando a quel periodo però è essenziale ricordare due esperienze che meglio di altre hanno
saputo dare nuova forma ad un teatro politicamente impegnato e che sicuramente
costituiscono la base per quelli che saranno gli sviluppi successivi del teatro politico di fine
Novecento e inizio anni Duemila.
La prima riguarda il premio Nobel Dario Fo, la sua esperienza risulta esemplare nel riuscire
a definire un nuovo modo narrativo-recitativo di fare un teatro di protesta e impegnato, ma
strettamente relazionato al popolo, alle masse (essendo uno degli autori presenti
successivamente, non si daranno qui ulteriori delucidazioni, ma si rimanda al capitolo
relativo).
Nell’ambito invece delle esperienze di quello che è stato definito teatro “dilatato”, “a
partecipazione”, è Giuliano Scabia l’esponente di maggior spicco e iniziatore di esperienze
del tutto originali. La ricerca di questo autore/attore/regista/drammaturgo/poeta e forse anche
altro, appare fin da subito proiettata oltre gli schemi chiusi e obbliganti del teatro
convenzionale ed estetico, in direzione di un teatro visto come viaggio, scoperta, strumento di
ricerca comunicativa a trecentosessanta gradi.
Dal 1964 al 1969 (poi ne esce) si può dire che operi all’interno dell’Istituzione teatrale, ma
avendo da subito rapporti non troppo facili a causa (oggi possiamo dire “grazie”) alle sue idee
creative del tutto nuove, incapaci di essere assorbite dal sistema ufficiale del teatro, sia per
problemi politici, che per cause strutturali dell’Istituzione.
Zip e All’improvviso, due testi composti nel 1965, sono anche i primi testi del cosiddetto
“nuovo teatro italiano”: in ambedue si ha un tentativo di riformulare la scrittura drammatica,
12
cercandovi un collegamento sempre più stretto fra il testo e la scena e la scrittura. Zip in
particolar modo rappresentò il primo concreto tentativo di collaborazione tra un teatro
ufficiale (lo Stabile di Genova) e la sperimentazione dell’epoca, nel quale si era cercato di
realizzare una messinscena in collettivo, cioè cercando di coinvolgere l’autore, lo scenografo,
il musicista, i tecnici, gli attori; un testo in progress, come si direbbe oggi. Lo spettacolo alla
fine andò in scena ma non senza destare diverse tensioni fra lo Stabile di Genova e i
responsabili maggiori del progetto Scabia e Quartucci.
L’episodio che però esemplifica perfettamente sia il clima contraddittorio dell’epoca, che
l’espandersi di un’idea di un uso politico (non più strettamente ideologico, ma connesso
all’idea di polis) del teatro, è rappresentato da Scontri Generali (1969) e soprattutto dalle
Azioni di decentramento (1969-70) nei quartieri operai di Torino. Per il primo si era avviata
una collaborazione con la Comunità Teatrale dell'Emilia Romagna, allo scopo di sperimentare
un progetto di teatro collettivo esteso alle assemblee dei militanti di tutta l'Emilia Romagna; il
contenuto ritenuto troppo politico e pericoloso per gli equilibri politici della regione viene
bloccato dall’ATER. Scrive Franco Acquaviva a riguardo:
Una delle costanti operative dell'attività scabiana consiste non solo, com'è ovvio, nello stabilire dinamiche
creative tra persone che partecipano a uno stesso progetto, ma addirittura nel progettare - testi o altro -
pensando specificamente a persone o gruppi con cui condividere interessi culturali e/o politici o riconoscere
affinità artistiche e/o umane profonde. E' una ricerca di ambiti umani e di sensibilità comune prima ancora
che di situazioni produttive
10
.
È però dalle Azioni di decentramento che si attua la prospettiva di un “teatro a
partecipazione”: l’iniziativa avviene in collaborazione col Teatro Stabile e si tratta del
tentativo (primo in Italia) di produzione “dal basso”, che impegnasse cioè direttamente le
persone coinvolte e riuscendo effettivamente, a coinvolgere in modo attivo le persone dei
quartieri operai, organizzate in Attivi teatrali e ritrovatesi a discutere, creare, giocare, su
argomenti che li interessavano direttamente. Qui sta sia il successo che il motivo per cui
l’iniziativa ad un certo punto viene boicottata dagli stessi enti organizzatori: una volta che si
resero conto che erano sorti nei quartieri luoghi di dibattito politico liberi, in una situazione
politica generale già instabile, vollero a tutti costi portare a conclusione il progetto insistendo
sulla messinscena prematura di spettacoli che non resero palese l’importanza di queste azioni.
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Franco Acquaviva, Il “teatro stabile” di Giuliano Scabia, in “Prove di drammaturgia”, 1997, anno III, numero
2.
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Il progetto nato tra mille difficoltà (pochi soldi, un lavoro molto grande da fare, i
condizionamenti esterni) aveva però dato forti indicazioni sulle potenzialità del teatro, quale
strumento di autoconsapevolezza, di cultura, di comunicazione e relazione; ma servì anche ad
evidenziare come i teatri stabili non riuscissero più a perseguire la loro idea di relazionarsi al
popolo. Inoltre in questa esperienza ancora una volta si comprende come quella stessa sinistra
politica che promuoveva il cambiamento, lo faceva solo a parole, ma nel momento in cui per
davvero si potevano creare situazioni in cui dalle parole si passava a fatti concreti, fuori dal
loro controllo, si è dimostrato che più di una volta ritiravano la loro idea “rivoluzionaria”.
Scabia riguardo all’esperienza nei quartieri ricorda che:
Il teatro fungeva da ponte e da introduzione a un discorso politico più generale, già in atto. In tal senso il
collegamento con il quartiere era scattato. Il teatro non arrivava dall’alto e dall’esterno, ma si collegava a una
precisa situazione di lotta, esaltandola. Contribuiva a far emergere tensioni e contraddizioni. La comunità
ricostituita […] prendeva posizione, muoveva accuse, rispondeva, interrogava, decideva azioni politiche
(Scabia, 1970, 20).
Che rapporto deve stabilire un teatro (politico di ricerca) col suo pubblico? Un rapporto di collegamento
organico, attivo, provocatorio, il più possibile dirompente: non apologetico, non comiziesco ma dialettico.
Ossia capace di mettere in moto delle domande, delle prede di posizione radicali. Un teatro che sia dentro la
lotta di classe, ma che proprio per questo ne metta in luce tutte le contraddizioni […] Poiché un teatro è tanto
più vivo quanto più è legato organicamente al suo pubblico, quando giunge a rappresentare la metafora delle
sue contraddizioni esistenziali di fondo, facendole scoppiare e costituendosi come atto essenziale di
autoverifica comunitaria
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.
Inizia quindi un percorso di maggior consapevolezza e studio del teatro visto più come un
abile catalizzatore della comunità intorno ai suoi problemi.
I progetti teatrali, fuori dal teatro, cominciano ad coincidere perfettamente con la vita teatrale
di Giuliano Scabia, un percorso molto vario, teso al cambiamento continuo per necessità di
ricerca, sperimentazione di nuovi metodi di produzione, di incontro, di partecipazione; non un
teatro chiuso in sé stesso, ma aperto verso l’esterno e gli altri, verso il mondo, verso le
persone e le loro caratteristiche individuali.
L’azione teatrale di Scabia tende quindi a coinvolgere tutti gli elementi del teatro all’interno
di una loro ri-significazione sempre provvisoria e sviluppata all’interno di un contesto ben
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Per la prima citazione: Marco De Marinis, Il Nuovo Teatro, op.cit., p. 248. Per la seconda: Marco De Marinis,
Al limite del teatro, op.cit., p. 42.
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definito e a partire da quest’ultimo. Potremmo dire un teatro che cerca la vita, inserendosi
direttamente nella vita, per imparare di continuo i suoi segreti.
Altre saranno le esperienze di “teatro a partecipazione”, ma il 1972 segna una piccola-
grande svolta nel suo lavoro: a dicembre di quell’anno Franco Basaglia lo invita ad attuare
interventi di animazione nell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste; è la prima volta che
il teatro o le tecniche teatrali vengono invitate all’interno di una struttura manicomiale, ma
senza l’idea di fare “teatro terapia”. L’obiettivo è cercare di capire se è possibile permettere ai
pazienti di ricostituire un rapporto con l’esterno da cui sono stati separati, in un percorso che
necessariamente deve prima passare dalla messa in comunicazione del paziente con sé stesso,
successivamente tra di loro ed infine con la città stessa. Il desiderio è quindi quello di
restituire loro (per quanto possibile) la consapevolezza di essere persone, e non
semplicemente pazzi da nascondere e vergognarsi o averne paura; quello che poi diventerà il
simbolo di questa avventura sarà l’immagine di un cavallo (Marco Cavallo), da tempo
impressa in molti dei pazienti che ricordavano come, fino a pochi mesi prima, un cavallo
aveva trasportato avanti e indietro dall’ospedale il carretto della loro biancheria. Marco
Cavallo già di per sé è un’immagine che nasce dalla visione collettiva dei partecipanti; la cosa
che viene ricordata con maggior interesse e che fa di questa esperienza un punto cardine per
molte che ne deriveranno successivamente, è che si è riusciti a creare la situazione per cui i
malati hanno cominciato ad imparare ad usare diversi mezzi di comunicazione, fondamentali
paiono essere divenuti quelli a carattere collettivo, come la musica, il canto, il ballo. Il
progetto vedrà la sua conclusione all’interno di una festa allestita nel quartiere di San Vito e
preceduta da un corteo, ma ciò che si vuol mostrare non è l’aver risolto dei problemi o aver
trovato le soluzioni definitive, quanto il voler mettere in luce delle contraddizioni forti
esistenti nel sistema sociale, nelle idee che fino a quei tempi si aveva sul manicomio e sui
pazienti reclusi all’interno; è una tappa importante che segna un punto a favore per la
ridefinizione delle leggi sul manicomio, che porterà, poi, alla famosa legge Basaglia
12
.
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La legge 180, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, del 13 maggio 1978, meglio nota
come legge Basaglia è una nota e importante legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il
trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Successivamente la legge
confluì nella legge 833/78 del 23 dicembre 1978, che istituì il Servizio Sanitario Nazionale. Prima di allora i
manicomi erano poco più che luoghi di contenimento fisico, dove si applicava ogni metodo di contenzione e
pesanti terapie farmacologiche e invasive, o l'elettroshock. Le intenzioni della legge 180 erano quelle di ridurre
le terapie farmacologiche ed il contenimento fisico, instaurando rapporti umani rinnovati con il personale e la
società, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità dei pazienti, seguiti e curati da
ambulatori territoriali. Da allora i malati di mente devono essere trattati come uomini, persone in crisi, non come
individui pericolosi da nascondere in manicomi. (Tratto da: http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Basaglia).
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La storia di Scabia prosegue in mille direzioni diverse, anche all’interno dell’Università di
Bologna, in cui è stato docente del corso di Drammaturgia dagli esordi del DAMS (1972) fino
al 2005-06, e nella quale ha continuato il suo lavoro teatrale con gli stessi studenti della
facoltà, ma alternandolo anche ad altri progetti da solista o meno. All’interno dell’università
resta memorabile l’esperienza del Gorilla Quadrumàno (1973-74), un modo per aprire
all’esterno l’università mettendola in relazione con esso.
Si parte da un’idea di uno degli studenti che, ritrovati dei testi teatrali scritti ad inizio secolo
da contadini emiliani all’interno delle stalle (testi di stalla), li propone al gruppo facendo
iniziare una ricerca linguistica e drammaturgica, allargatasi poi al tema della cultura popolare
contadina. Se ne ricaverà uno spettacolo, che riuscirà anche ad essere portato al Festival di
Nancy, ma il cui centro focale è comunque non tanto costruire lo spettacolo, ma la ricerca che
vi era alla base:
Ci ha colpito la dimensione del divertimento collettivo legato a questo modo di fare teatro ed esprimersi, e la
dimensione di partecipazione e di organicità a un luogo: gli attori non erano professionisti, ma contadini che
mettevano a disposizione degli altri la loro fantasia, per scatenare il divertimento e la partecipazione
collettiva.
Continua De Marinis:
Si trattava […] di studiarli, quei modi associativi ed espressivi, e di confrontarsi con essi, per ricercare quali
forme di aggregazione e di elaborazione culturale ‘dal basso’ è possibile ricostruire oggi, nei quartieri e nei
paesi […] Il laboratorio del Gorilla veniva così a configurarsi - secondo un’immagine dello stesso Scabia -
come un duplice viaggio: “il progetto è dunque di un teatro come viaggio verso le radici profonde di una
cultura – la nostra , quella di chi ci sta accanto, quella che non conosciamo – come itinerario profondo verso
le radici del nostro io e la sua forma primaria e povera di comunicazione elementare e plurima
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.
Si è voluto riportare solo alcuni episodi della carriera (molto lunga ed eterogenea) di Giuliano
Scabia allo scopo di voler far notare come nella sua azione teatrale, all’interno di quello da lui
definito “Teatro Vagante” (un teatro cioè che trova la sua stabilità proprio nella ricerca
continua di nuove situazioni ambientali e umane), vengano a svilupparsi un’idea di un teatro
politico come lo si vorrebbe oggi (in questa ricerca) intendere: un teatro che non
necessariamente fa dell’ideologia politica un sua prerogativa, ma che traspone il concetto di
politico all’interno di un contatto comunicativo-relazionale che deve avvenire con la società
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Per tutte e due le citazioni: Marco De Marinis, Al limite del teatro, op.cit.,p. 60-61.
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