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Introduzione
Un patrimonio condiviso di racconti è alla base di ogni cultura. La narrazione
riguarda la trasmissione di memorie, personali, storiche, o del repertorio popolare,
che nell’atto della condivisione assumono il valore di collante sociale; alimentano,
cioè, l’idea stessa di collettività, una delle condizioni a cui l’essere umano tende più
spiccatamente, in modo più marcato nell’antichità, ma tuttora ben presente, anche
se in forme meno osservabili a prima vista. È quella che Gerardo Guccini ha
definito «la permanenza a-storica del narrare», di contro «all’identità storicamente
determinata delle forme narrative»
1
, nel senso che se la funzione rimane la
medesima, a prescindere dal contesto, i modi attraverso cui realizzarla si
diversificano, e risentono invece di tutti i fattori storici caratterizzanti una
determinata società in un determinato tempo.
Il teatro di narrazione si propone, all’inizio degli anni Novanta, come un fenomeno
di innovazione che paradossalmente ripropone una pratica antica e largamente
utilizzata come il racconto, grazie ad un attore che agisce senza un’identità
sostituita, solo con il suo corpo e la sua voce, in uno spazio scenico sgombro,
opponendosi così alla chiusura e all’autoreferenzialità delle avanguardie degli
stessi anni. Figlio degli anni Ottanta, nasce come tentativo di svecchiare un teatro
inadatto a parlare della modernità e, scegliendo di immergersi nel mondo reale,
riflette di conseguenza le contraddizioni di un’Italia che, tenacemente proiettata in
avanti, insegue lo sviluppo economico e ignora il suo passato. È stato etichettato
come teatro di impegno civile, di denuncia e rivendicazione sociale, che sono solo
gli effetti della reazione ad un mondo spesso lacerato da veloci trasformazioni e
sradicamenti, da dubbi ed ambiguità: le performance dei grandi narratori, civili e
non, degli ultimi vent’anni, non nascono per essere opere politicamente impegnate,
sebbene sia giusto notare questa tendenza, piuttosto mirano esplicitamente al
1
GERARDO GUCCINI, La bottega dei narratori. Storie, laboratori e metodi di: Marco Baliani, Ascanio
Celestini, Laura Curino, Marco Paolini, Gabriele Vacis, Roma, Dino Audino, 2005 p. 35.
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recupero di un’identità collettiva, accantonata dall’individualismo della modernità.
Identità che si costruisce solo ed esclusivamente tramite una memoria comune,
ricomponendo cioè una sorta di substrato terroso in cui affondare le nostre radici.
Che si sia persa la capacità e soprattutto la volontà di rielaborare gli eventi che
hanno recentemente caratterizzato la storia dell’Italia, e dunque la nostra, è un
fatto tristemente indiscutibile, i cui effetti si possono vedere ogni giorno nella
nostra difficile condizione politica, economica, e culturale. Non ci poniamo più
domande perché non ne abbiamo o perché le risposte ci disturbano? E proprio
adesso che il progresso ha sviluppato ogni sorta di tecnologia per comunicare,
conoscere, condividere?
Marco Baliani, abile e lungimirante raccontatore, spiega il successo (enorme e
pressoché unanime) del teatro di narrazione, individuandolo in un naturale
antidoto al bombardamento di immagini di televisione e Internet, a cui è seguita
una ‘disattivazione’ dell’orecchio e dell’aggregazione sociale a favore di un
sovraccarico dell’occhio e della dimensione individuale.
Quello che hanno fatto egregi narratori come Marco Paolini, Laura Curino, Marco
Baliani, Ascanio Celestini, e molti altri, è stato chiudere gli occhi delle persone e
aprirne le orecchie, usando il potere evocatore delle parole per richiamare alle
coscienze dei comuni cittadini le grandi tragedie italiane e i problemi più urgenti
(eppure ancora insoluti) della nostra società contemporanea: ho scelto di trattare
questo argomento in ambito di tesi per la disarmante verità di cui il teatro di
narrazione si fa portatore, in un mondo di tante parole accattivanti urlate da
schermi ad una risoluzione sempre più alta. Abbiamo abbandonato la riflessione,
preferendole un’accettazione passiva (ma quanto più facile e comoda!) di una
verità somministrata dall’alto. Invece, il teatro di narrazione si propone di
rielaborare assieme, in quel momento, in quel luogo (non per forza un teatro) le
storie che ci appartengono ma che ancora non abbiamo totalmente assorbito, vuoi
per una scomoda vicinanza temporale, vuoi per scarsa informazione.
Gli ingredienti sono semplici e naturali: un narratore, un pubblico. Così la memoria,
attualmente bistrattata da politici, giornalisti, intellettuali, torna a farsi materia di
rievocazione, voglia di conoscenza, legame tra passato e presente, partecipazione.
3
Il teatro di narrazione non è, in quest’accezione, solo una modalità teatrale,
l’etichetta degli spettacoli aventi un certo tipo di caratteristiche tecniche o
tematiche, ma comprende un universo ben più ampio, quello della narrazione,
tradizionale per definizione ma allo stesso tempo mai così originale come ai giorni
nostri. Noi non raccontiamo più, e allo stesso modo non ascoltiamo più, intontiti
forse da troppi stimoli e da informazioni superflue; abbiamo perso la capacità di
stare insieme, condividere e indignarci, le nostre coscienze sono spesso silenziose
e inattive. In questo scenario di atrofizzazione di massa emerge la figura del
narratore, il cui scopo è salvare la Storia e le storie, metabolizzarle, ritrovare
l’equilibrio perduto tra l’identità personale e il vissuto preesistente, tra gli
elementi della cultura popolare e l’attualità: in poche parole, attenuare ogni sorta
di distanza per creare una collettività coscientemente critica.
Il mio punto di vista non sarà teatrale né tecnico, non ho considerato, ai fini di
questa mia tesi, le tecniche attoriali, la scenografia o la drammaturgia, per
questioni di ampiezza e competenze: ho preferito concentrarmi sul discorso
narrativo e, inizialmente, cercare un filo conduttore che dai tempi passati ha
portato oggi al teatro di narrazione, una realtà giovane e tipicamente italiana.
Partendo, quindi, da un rapido excursus storico ho cercato di rintracciare in che
modo, nell’antichità, ci si rapportava al mondo presente e passato attraverso la
narrazione, come si costruivano degli orizzonti comuni e come i fatti
contemporanei erano affrontati ed elaborati. Se è vero, infatti, che ogni storia
concorre a dare significato ad un’identità, è anche vero che l’identità necessita
dell’altro per essere avvalorata: la narrazione lega il particolare al generale, nasce
dal singolo ma lo supera.
Solo dopo questa contestualizzazione, finalizzata a fornire un quadro esauriente
del fenomeno dal punto di vista storico, mi sono dedicata al teatro di narrazione in
modo specifico, distinguendo le diverse correnti che scorrono al suo interno e
cercando di coglierne gli aspetti più significativi ed originali, esplicitati, nel modo
più concreto possibile, nell’ultimo capitolo di approfondimento, che vuole appunto
dare un esempio pratico di ciò che ho scritto in precedenza; l’ho dedicato allo
spettacolo-simbolo, cioè Il racconto del Vajont di Marco Paolini e alla sua
trasposizione televisiva.
4
Un’altra precisazione doverosa: si può pensare che il teatro di narrazione riguardi
unicamente una dimensione di performance, ma esso esiste anche in forma
letteraria, cioè la trascrizione delle opere messe in scena dai più famosi autori. In
questa sede, però, mi riferisco alla forma ‘spettacolare’ e alla fruizione orale,
consapevole delle differenze che intercorrono tra le due dimensioni.
Messe quindi opportunamente le mani avanti, posso anticipare il protagonista di
questa tesi, la figura mai quanto oggi degna di attenzioni e riguardi: il narratore,
come lo definisce Walter Benjamin l’artigiano della parola che modella l’esperienza
propria e altrui, «qualcosa di già remoto che continua ad allontanarsi […] privati di
una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di
scambiare esperienze»
2
.
L’operazione culturale che i maestri del teatro di narrazione hanno portato avanti
è di grande spessore e innovativa, perché hanno sopperito alle mancanze di una
società debole e frammentaria, ponendo in primo piano storie che appartengono
poi a tutti noi, aventi la precisa caratteristica, nel tempo del cinema e della
televisione, di evocare.
Come sottolinea Paolo Jedlowski nel suo Storie comuni
3
, la facoltà di narrare è
implicita all’uomo, che l’ha sempre esercitata, fin dalla preistoria, quando la
famiglia si riuniva intorno ad un fuoco: si raccontavano storie per imparare a
conoscere cioè che appariva estraneo, per dare un nome e un senso a ciò che stava
intorno, poi per insegnare ed educare: sempre la nostra civilizzazione è dipesa
dalla nostra capacità di raccontare e raccontarci. È facile rendersi conto, alla luce di
queste riflessioni, dell’imbarazzo provato fino agli anni Ottanta del Novecento di
fronte ad una storia: smarrita la dimensione dell’immaginazione, indebolita la
famiglia, il gruppo, la collettività, si è vissuto unicamente nel presente, rifiutando la
diacronia che sempre le storie presuppongono e affidando, dall’altro lato, alla
narrazione campi che invece non dovrebbe toccare, come l’informazione, la
politica, il marketing.
2
WALTER BENJAMIN, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov, note a commento di
Alessandro Baricco, Torino, Einaudi, 2011, p. 3.
3
PAOLO JEDLOWSKI, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Milano-Torino, Mondadori,
2000.
5
Il successo del teatro di narrazione però ci dice chiaramente che l’arte del racconto
esiste ancora, eccome; dal momento che la narrazione è azione, è parte integrante
della nostra vita, e raccontare faccia a faccia qualche cosa a qualcuno significa
instaurare una relazione che produrrà, almeno in minima parte, effetti reali, così
come è reale prestare ascolto a qualcuno. Se già raccontare è quindi un’azione
quotidiana che instaura relazioni, pensiamo allora all’immenso potenziale che può
avere un «discorso definito»
4
come quello proposto dal teatro di narrazione, che
agisce senza la mediazione di alcun mezzo di comunicazione: c’è uno storyteller e
un pubblico, tanto più coinvolto quanto più si immedesima in ciò che ascolta, come
Ulisse alla corte dei Feaci, commosso perché si riconosce nel racconto dell’aedo
5
.
Paolini, Celestini, Baliani e gli altri più giovani creatori-interpreti che con le loro
storie hanno riempito teatri, arene, piazze di tutta Italia, ci offrono la possibilità di
raccontarci la nostra storia, di cui siamo protagonisti ma non autori, perché
‘agiamo ’ la nostra vita ma non ne siamo testimoni: «dopo tutto, noi possiamo
guardare dovunque, ma non possiamo vedere i nostri stessi occhi»
6
.
4
PAOLO JEDLOWSKI, Storie comuni, cit., p. 64. Con questo termine si definisce un racconto in cui gli
eventi sono connessi tramite una trama.
5
ADRIANA CAVARERO, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano,
Feltrinelli, 1997.
6
PAOLO JEDLOWSKI, Storie comuni, cit., p. 118.
7
Capitolo I
«NARRARE È FORSE L’ARTE PIU’ ANTICA CHE ESISTA»
7
Narrare ha a che fare con la nostra identità ma anche con quella degli altri, in
quanto ponte o meglio, parafrasando Paolo Jedlowski, transito fra soggetti diversi:
si connettono eventi e persone, spinti dal desiderio di dare un ordine e un senso.
Questo collegamento è implicito nella natura dell’essere umano, come se fosse un
fattore antropologico: la sua vita è fatta di storie perché essa stessa ha una
dimensione storica, cioè per entrambe il tempo è un elemento fondamentale e
imprescindibile.
In questo capitolo vedremo le forme più caratteristiche della narrazione nei tempi
antichi e come essa ha mutato modalità di interazione a seconda dei cambiamenti
sociali, religiosi e politici, senza però mai perdere la sua capacità di compattare le
comunità, più o meno estese, partendo dall’uno per rivolgersi ai molti.
E. M. Forster, teorico dei testi narrativi, afferma che l’arte del narrare risale alla
preistoria, forse addirittura al paleolitico. Non avendo alcuna possibilità di stabilire
con certezza alcun dato, posso fare delle supposizioni e immaginare che la
funzione primaria dei racconti intorno al fuoco fosse di tipo pratico, cioè istruire i
vari membri della famiglia a proposito dell’ambiente al fine di conoscerlo e meglio
piegarlo alle proprie necessità. Solo successivamente (ma non deve essere
trascorso molto tempo) il racconto è scivolato verso l’intrattenimento e la funzione
ludica, ha toccato il discorso religioso e ha svolto funzioni sacrali, ma anche in tutti
questi casi ha sempre soddisfatto la necessità di costruire un senso. Con lo
sviluppo di forme di società sempre più complesse, anche la narrazione si è
frammentata, andando dai racconti di famiglia, alle fiabe, fino ai testi di diritto.
Cosa c’entra tutto questo con il teatro di narrazione? Domanda lecita e per nulla
fuori luogo.
7
PAOLO JEDLOWSKI, Storie comuni, cit., p. 45.
8
Il fatto è che queste forme di narrazione antiche erano così efficaci e coinvolgenti
proprio perché trasmesse oralmente, senza alcun supporto di mediazione, che oggi
invece diamo quasi per scontato; i racconti tradizionali si basavano sulla memoria,
fino a formare, con un gioco di parole, la memoria del gruppo stesso. Avvenivano
faccia a faccia e dunque l’impatto emotivo era forte ma soprattutto spontaneo,
come può avvenire in uno spettacolo odierno di Paolini, giusto per citare un nome.
Certamente vi si possono ravvisare altrettante differenze, ma ho trovato
importante e in un certo modo toccante come ai giorni nostri, in un mondo che ha
davvero stravolto se stesso, si ripetano modalità rituali di un tempo tanto lontano.
Certe caratteristiche sono dunque sopravvissute a secoli di cambiamenti in molti
casi eccezionalmente rapidi, e si ripropongono in spettacoli che non sono mai
identici, sebbene replicati decine di volte. Cambiano sfumature a seconda del
pubblico e della situazione; con il suo corpo e la sua voce, il narratore/attore
condivide il suo racconto usando le tecniche millenarie dettate dall’oralità, leggi
valide tutt’oggi, tramite le quali «si mette una storia in comune»
8
.
1.1 Denunce sociali e politiche nel teatro greco
Nella Grecia delle polis il teatro aveva un ampio seguito, tant’è che Platone, nella
sua opera Repubblica, vuole cacciare i drammaturghi dalla sua città ideale, poiché
avevano un’influenza troppo marcata sulla comunità. Quello che sappiamo per
certo del teatro greco (non è molto ma ci può bastare) è che non esisteva il diritto
d’autore, per cui era da prassi una notevole libertà testuale in ogni
rappresentazione, e che era un mondo governato dall’oralità, dalla voce, dalle
parole, tutti elementi che rispondevano alle necessità della comunità, molto attiva
8
Ivi, p. 159.
9
e compatta proprio grazie a questi spettacoli drammaturgici. Come afferma lo
studioso H. C. Baldry
9
, bisogna pensare a quell’epoca come a un mondo rovesciato
rispetto al nostro, dove quindi il teatro era il fulcro della vita pubblica e la
popolazione accorreva in massa, non essendoci la lettura privata.
Bisogna quindi ricordare che la caratteristica principale di queste opere era la
rappresentabilità, dunque andavano in scena storie alla portata di tutti, semplici e
conosciute, con una scenografia quasi inesistente, senza illuminazioni artificiali; gli
spettacoli erano legati a festività religiose e, poiché il teatro rientrava nell’interesse
della collettività, il prezzo del biglietto era a carico della tesoreria!
Il pubblico era eterogeneo, costituito soprattutto dai cittadini, dai membri del
Consiglio e dai meteci, i non ateniesi residenti in Attica che non avevano però la
cittadinanza, schiavi che accompagnavano il padrone, uomini per la maggior parte.
Nonostante il diverso grado di cultura e di attenzione, era un pubblico critico, che
partecipava con grande entusiasmo.
Agli albori della tragedia, vi era un unico attore: l’autore stesso, un parente lontano
del narratore moderno, che dialogava solo con il corifeo, il capo del coro (ecco
perché l’attore era chiamato hypocrites, ovvero colui che risponde
10
), ed aveva il
compito di «unificare l’azione e legare attore e pubblico in un’unica esperienza
comune»
11
.
Ciò che ci interessa maggiormente, in questo caso, è proprio la commedia,
strettamente legata all’attualità, che raccontava con ironia: ammiccava agli
scandali più recenti, sbeffeggiava i potenti, ritraeva la realtà deformata dalla
parodia e dagli scherzi, mentre il pubblico veniva arringato dal coro e rispondeva
animatamente alle provocazioni degli attori. Questi caratteri principali si
desumono principalmente dalle opere di Aristofane (ca 448 – ca 380 a.C.), l’unica
testimonianza diretta della commedia ateniese, dalla quale emerge con forza il
riferimento esplicito ai problemi o alle discussioni di quegli anni, in ambito sia
9
H. C. BALDRY, I Greci a teatro. Spettacolo e forme della tragedia, Roma, Laterza, 1987.
10
Ivi, p. 89.
11
Ivi, p. 101.
10
politico che sociale: «[…] ai due poli della sua comicità sono la rappresentazione
degli istinti dell’uomo e la satira politica»
12
.
Un momento fondamentale era costituito dalla parabasis, in cui il coro si rivolgeva
direttamente al pubblico, prendendo spesso di mira i sacerdoti e i capi militari e
politici nelle prime file ( ὀνομαστί κωμ ῳ δε ῖ ν), in modo piuttosto aggressivo e non
di rado molto volgare, e affrontando le questioni più spinose della città. Come è
facile intuire, questo momento di invettive non durò oltre il IV secolo: i personaggi
più illustri della Grecia non amavano essere ridicolizzati di fronte alla popolazione.
Ecco un esempio tratto dalla commedia aristofanea Gli Acarnesi, scritta durante le
guerra del Peloponneso e famosa per le sue idee pacifiste e per la sua velenosa
invettiva contro le personalità più in vista di Atene, considerate dall’autore
guerrafondaie. Essa racconta di Diceopoli (letteralmente cittadino giusto), un
contadino ormai stanco di vedere i propri campi distrutti dalla guerra, che decide
di chiedere la pace, rivolgendosi prima all’assemblea ateniese, senza successo, poi
direttamente a Sparta, che gliela concede. Cerca aiuto presso Euripide, affinché gli
insegni l’arte della retorica (una pungente insinuazione contro la filosofia e la
tragedia) per contrastare gli Acarnesi, la popolazione di un demo di Sparta che lo
insegue infuriata alla prospettiva della tregua. Così Diceopoli riesce ad avere la
meglio contro coloro che sono favorevoli alla guerra.
Il protagonista rappresenta le migliaia di contadini che, in seguito al conflitto,
dovettero rinunciare alle proprie terre in Attica e rifugiarsi nella città, governata
da Cleone che, con atteggiamenti ipocriti e adulatori, era diventato il leader degli
strati più bassi della società. Infatti nella parabasi Aristofane si rivolge
indirettamente a lui, criticandolo per la sua demagogia corrotta e il suo desiderio
di combattere Sparta con ogni mezzo, anche il più spietato.
Da che direttore di comici cori fu il nostro maestro,
non mai lo sentiste vantarsi in teatro com'egli sia destro.
Ma poi che i nemici, fra il popolo precipitoso d'Atene,
lo accusano ch'egli trascini la vostra città su le scene,
convien che al mutevole popolo ei faccia le proprie difese.
Gli avete, il poeta ci dice, degli obblighi molti. Ei v'apprese
a non farvi troppo gabbar dalle chiacchiere degli stranieri,
12
DARIO FO, Manuale minimo dell’attore, a cura di Franca Rame, Torino, Einaudi, 2001, p. 361.