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Essendo mutato l’oggetto dell’antropologia, che verte sull’analisi del rapporto
fra locale e globale, questo periodo vede l’esigenza di una revisione degli assunti
teorici della disciplina, del modello esplicativo di cui si avvaleva e della sua stessa
definizione.
Alla luce dei presupposti teorici dell’etnografia critica degli ultimi anni è, quindi,
criticata la retorica dell’“autenticità” delle culture e di conseguenza il modello
multiculturalista evidenziando il fatto che il culto dell’etnicità irrigidisce il concetto
di cultura in un corpus di principi cristallizzati.
Quando si pensa che una categoria concettuale indica l’“essenza” delle cose,
automaticamente le stiamo assegnando una capacità performativa in grado di
modificare la realtà, pertanto, l’idea che esistano diverse culture di cui si possono
identificare le radici porta a porre l’accento sulle diversità culturali come se
quest’ultime fossero naturali. Nel confronto con le altre culture si pone l’accento su
ciò che è diverso e si creano barriere.
Le comunità si chiudono, le culture sono ben distinte.
Tale retorica dell’autenticità ha pervaso anche il Salento portando alla creazione
di una “cultura salentina” sulla base del recupero della tradizione della pizzica-
taranta che ha subito un processo di folklorizzazione e di reinvenzione della
tradizione secondo criteri a-storici dei tratti culturali che hanno portato alla loro
decontestualizzazione.
Per la volontà di far risorgere la cultura tradizionale locale nella sua autenticità, i
discorsi tendono a sottolineare l’aspetto identitario della società. In realtà, questi
discorsi sottendono un’ideologia autoritaria funzionale all’élite sociale al potere.
Spinti dal desiderio di comprendere e di dare un senso alla metamorfosi in atto
e alle emergenti definizioni identitarie assunte da chi è nativo del luogo, cercheremo
allora di immergerci nel cuore delle dinamiche culturali del Salento per l’esigenza di
smascherare i meccanismi di reinvenzione e “rimodellamento” della sfera culturale e
il legame esistente tra la costruzione di una retorica identitaria e le strategie politico-
culturali tese alla crescita e allo sviluppo del territorio. Cercheremo di comprendere
come si compiono i processi che concernono la problematica della retorica
identitaria basata sul rapporto tradizione-modernità e a quali logiche obbediscono.
Oggetto dell’indagine è proprio quella ragnatela di eventi che tendono a
sottolineare l’autenticità del contenuto culturale e il modo in cui questi processi, che
si basano sulle retoriche dell’identità salentina, vengono praticamente implementati.
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Oltre a cercare di comprendere le dinamiche socio-culturali in atto, prenderemo
in considerazione i soggetti inseriti in tale contesto culturale.
Gli individui adottano o disconoscono le rivendicazioni identitarie oppure
prescindono da esse, ma comunque assumono una posizione. Una posizione, cioè
un’auto-locazione da cui un individuo percepisce la realtà e se stesso. Interpretare
l’auto-locazione dei nativi all’interno della rete culturale in cui sono chiamati ad agire
significa comprendere le reazioni e le risposte al nuovo contesto culturale in cui
stanno agendo. Infatti, ognuno di noi instaura un certo rapporto con il contesto
normativo e culturale imposto in cui è inserito e la scelta consiste nel seguire la
regola o contrastarla.
Questi cambiamenti hanno innescato negli individui una serie di attività
discorsive, sia sul piano individuale sia su quello collettivo, che li ha portati a
rimodellare la loro posizione nel mondo e la visione che hanno di esso. Essi
agiscono in maniera attiva come dimostrano l’esplosioni di iniziative culturali
dell’ultimo decennio: ripresa degli studi demartiniani, valorizzazione della pizzica
come genere musicale simbolo dell’identità salentina, rappresentazioni teatrali e
cinematografici, ecc…
Si va quindi alla ricerca delle proprie radici, per autodefinirsi, per
autoaffermarsi.
Ed é in questo scenario che il simbolo della taranta si affaccia al mondo delle
complessità culturali come tratto distintivo della “salentinità”.
Con il termine “salentinità” indichiamo, appunto, il mito della cultura di cui il
tarantismo ha costituito il perno e la base su cui edificare tutta una retorica
identitaria attraverso la rifunzionalizzazione di elementi tradizionali ricontestualizzati
e destoricizzati secondo quelli che sono i processi di reinvenzione delle tradizioni. Il
tarantismo è stato preso come vessillo della salentinità; è stato reso funzionale alle
esigenze della realtà contemporanea, una realtà in continua evoluzione dove
agiscono forze diverse dal passato. Esse inevitabilmente metabolizzano gli elementi
del passato attraverso un processo di rifunzionalizzazione, adattandoli alla
modernità dove fa da padrone il consumo dell’autentico e dell’etnico.
Paradigma dell’invenzione è la tradizione politicizzata del tarantismo e la sua
spettacolarizzazione. I miti e tutto l’insieme di credenze e pratiche, che riguardano la
relazione di un individuo con la società, s’intrecciano con le procedure razionali di
pianificazione e organizzazione sociale.
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Tra le cause della riscoperta del mito della taranta sicuramente ha inciso la
riedizione de La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud di Ernesto De
Martino nel 1994 dal Saggiatore. Tale testo raccoglie i risultati della spedizione sul
campo nel 1959 del famoso antropologo napoletano. Da questo momento è
scaturita la popolarizzazione del classico in due ambiti che s’intersecano tra loro,
quello accademico e quello locale, scaturendo nel primo vari dibattiti sul lavoro di
De Martino e nel secondo una serie di iniziative di tipo culturale in vari settori, quali
quello cinematografico, letterario, artistico e musicale.
Il tarantismo della Terra del rimorso è un fenomeno culturale degli anni ’50 del
secolo scorso, diffuso prevalentemente nel ceto contadino, impregnato di elementi
religiosi. Consisteva nel curare con una terapia coreutico-musicale un soggetto, per
lo più di sesso femminile, che era affetto da un’alterazione psicosomatica causato
dall’ipotetico e simbolico morso della taranta.
Era un rituale di possessione collegato al culto risanatore di San Paolo.
Oggi riti, danze, credenze legate al tarantismo sono riproposte sottoforma di
spettacolo, feste e manifestazioni culturali. Il tarantismo, in particolar modo, è preso
come tratto identitario distintivo e positivo che, più che altro, si manifesta come
fenomeno di recupero di una pratica culturale, quello della pizzica-pizzica, che ha
dato vita al revival etnico di questa tradizione salentina.
Da un consorzio di comuni salentini è nato, nell’estate del 1997, l’“Istituto
Diego Carpitella” dedicato a uno dei musicologi più interessati alla storia culturale
del Salento. L’istituto si occupa della valorizzazione dei tratti culturali peculiari del
Sud per promuovere un progetto di crescita e sviluppo del territorio.
Nel 1998 nasce un festival musicale di indubbio successo, “La Notte della
Taranta”, dove si può facilmente scorgere un progetto strategico di espansione e
promozione della musica tradizionale salentina.
Si sa che la musica è capace di sfondare ogni barriera politica o culturale e
perciò la pizzica-taranta ben s’inserisce in un contesto mondiale che vede la
promozione della musica popolare. Con “la Notte della Taranta” la musica e il mito
della taranta rivivono nello scenario della cosiddetta “world music”.
Il fatto di dover affrontare le tensioni globaliste attraverso la ricerca delle radici
della propria identità ha come proposito quello di gridare al mondo la propria
presenza per non farsi inghiottire dall’anonimato dell’omogeneizzazione. Infatti,
questa è una delle tante conseguenze della globalizzazione che orienta le mode, che
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canalizza il gusto di migliaia di giovani verso musiche etniche di luoghi lontani ma
nello stesso tempo vicini e conduce alla voglia di far conoscere la propria etnicità.
Da qui la disposizione a “farsi etnici”.
Il revival della pizzica-taranta, decontestualizzando il rito, l’evento danza si
svuota delle funzioni coreutiche proprie del ballo e vi aggiunge forme e finalità
nuove. Il fascino del folk e dei balli tradizionali divenendo un emblema sociale e
ideologico di alternativa culturale alla globalizzazione porta migliaia di giovani
d’estate o nei giorni delle feste tradizionali a partecipare a tarantelle di massa.
L’aspetto più contraddittorio del fenomeno è di giustificare le reinvenzione di nuovi
balli creando attorno ad essi un’aura di classicità (dionisismo, riti di possessione) e di
misticismo (discorso sulla trance).
Il gioco della globalizzazione porta alle ibridazioni, ai sincretismi, gioco che si
svolge sul banco dell’alterità e delle differenze. Le culture si mescolano velocemente,
si confrontano e si diffondono, spinte dalle forze centrifughe di un mondo senza
confini. Ed è in questo contesto che s’inseriscono i Sud Sound System, gruppo
musicale salentino che coniuga passato e presente, locale e globale nella “techno-
taranta” e nel “reggae hip-hop”. La musica di questo e di altri gruppi salentini
rappresenta l’emblema di quel processo di sincretismo che connette cultura del
luogo e culture del mondo. In un certo senso gridare al mondo la propria presenza,
specie nel dialetto locale, e assimilare elementi di altre culture, in questo caso il
rastafarismo, rispecchia l’oscillazione tra termini contraddittori propri della
globalizzazione: dall’esaltazione del locale all’inclusione di un Bob Marley
globalizzato nella retorica dell’identità salentina degli ultimi dieci anni.
Cercheremo quindi di analizzare il concetto di salentinità tenendo presente il
contesto planetario in cui è inserito e analizzando la situazione a livello locale con
l’intento di sganciare da questa retorica identitaria i concetti-pilastro. Tale lavoro si è
svolto seguendo l’approccio antropologico contemporaneo che inserisce i
cambiamenti sociali nella prospettiva della dialettica fra locale e globale.
Il primo capitolo di questo lavoro vede l’analisi dei processi che hanno portato
alla reinvenzione del tarantismo dopo aver presentato una breve analisi del lavoro di
Ernesto De Martino sul tarantismo del 1959. Per “reinvenzione” s’intende un
insieme di attività che hanno lo scopo di creare continuità con tratti peculiari del
passato. Una delle più importanti caratteristiche di questo processo consiste, innanzi
tutto, nel selezionare dal passato storico quegli elementi che potrebbero costituire
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una continuità con il presente ricontestualizzandole in base alle esigenze della
modernità. Le cause del revival del tarantismo sono legate alla ripresa del dibattito
accademico su Ernesto De Martino che vede contrapposti demartiniani e
antidemartiniani e alla parallela produzione culturale degli studiosi locali, bandiere
dell’identità salentina.
Le pratiche e i rituali del tarantismo hanno subito un’inversione del loro uso
pratico che ha dato vita ad un dibattito antropologico sulla natura esorcistica o
adorcistica del rituale.
Tema centrale del secondo capitolo è il revival della pizzica-pizzica nelle piazze
di paese in quanto momento per accedere all’identità salentina tramite la trance, gli
eventi di spettacolarizzazione che costituiscono il neotarantismo, i modi e le mode
con cui i salentini esprimono la loro salentinità a dimostrazione del fatto che si tratta
di un “eccesso di cultura” manipolato e promosso da mediatori di culture
(intellettuali, accademici, istituzioni). Questi eventi sono funzionali alla realtà
mediatica che sta caratterizzando il nostro presente, eventi che rispondono bene ai
canoni del sensazionalismo dei media.
La trance è esaltata come momento per accedere alla salentinità ed assume
forme diverse: dall’estasi religiosa agli stati mentali alterati prodotti dall’uso di
composti psicoattivi.
C’è anche un riconoscimento della trance come risorsa vitale, in grado di dare
un valore all’esistenza, di sfogare o semplicemente liberarsi dalla sofferenza, dalle
frustrazioni, per dare libero sfogo ai desideri sia individuali sia collettivi.
Nel terzo capitolo cercheremo di comprendere in cosa consiste la costruzione
della cultura del tarantismo come tratto identitario della “salentinità”. Proveremo a
definire i concetti intorno a cui ruota l’identità salentina nell’ambito accademico e
cosa invece intende la gente comune quando si riconosce salentina.
Approfondiremo il tipo di relazione instaurata tra mediazione e concetto di cultura
per definire le conseguenze di questa pratica dando una panoramica sui principali
mediatori culturali della cultura salentina. Prenderemo in considerazione il lavoro
svolto dai mediatori culturali. Questi stanno inventando un’identità che rischia di
essere stigmatizzata, un’identità che si basa su un concetto statico ed omogeneo di
cultura. I mediatori culturali assumono il ruolo di promotori della cultura della
società etnica d’appartenenza.
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Il capitolo prevede l’analisi del ruolo che ha avuto la world music, e quindi i Sud
Sound System, nella formazione di un’idea di salentinità tra i giovani.
Il filo rosso che guida questa ricerca consiste, quindi, nel decostruire una
retorica dell’identità che cela strategie politiche di mediazione e che rischia di
sfociare in atteggiamenti esclusivi e regressivi conseguente ad una definizione rigida
e non processuale e fluida del concetto d’identità.
Descrivendo i movimenti sociali che hanno per oggetto l’identità e la cultura si
tiene presente l’importanza di utilizzare strumenti che tengano conto di un’etica
dell’alterità, che, quindi, non cadano nell’essenzialismo ma sono accompagnati dalla
consapevolezza che ogni teoria è un filtro attraverso cui il nostro sguardo sulla realtà
circostante viene elaborato.
In conclusione, questo lavoro è un tentativo di analisi del cambiamento sociale
nel Salento effettuato secondo la logica della dialettica fra locale e globale che oggi
porta le società a mettersi a confronto con le relative differenze, le loro identità e
che le porta alla ricerca di nuovi equilibri.
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1.
Il tarantismo: dal “rimorso” alla rinascita
1.a. Cenni storici sul Salento
Il Salento, sub regione della Puglia in passato comprendente le province di
Lecce, Taranto e Brindisi, si presenta con un territorio per lo più pianeggiante, arido
ed esposto ai venti. Le sue coste s’insinuano profondamente fra due mari, ad Ovest
lo Jonio e ad Est l’Adriatico, fino all’estrema punta di Santa Maria di Leuca, detta
anche, per la sua posizione, “finibus terrae”. La costa si estende per centinaia di
chilometri ma per secoli la popolazione si ritirò nell’entroterra abbandonando le
coste all’impaludamento. Fu con il boom economico che la vita sulla costa si
risvegliò con opere di bonifica e di rimboschimento. Infatti, con l’eccezione di
Otranto e Gallipoli non si ne annoverano altri centri che possano vantare una
vocazione marittima.
Questa scarsa inclinazione verso il mare è dovuta a vicende storiche che videro
la costa più che altro come un pericolo, un ponte per gli assalti di predoni
provenienti dal mare.
Per la sua conformazione geografica, il Salento è comunque crocevia per i
Balcani, la Grecia ed il lontano Medio Oriente. È una terra di approdo, da sempre
attraversata da genti.
La storia della Puglia, infatti, è composta da numerosi capitoli che compongono
un iter storico costellato da dominazioni diverse e conflitti per l’egemonia del
territorio. La penisola salentina ha ospitato, nelle varie epoche, Messapi, Greci, Illiri,
Romani, Bizantini, Angioini, Turchi, Aragonesi: popoli che hanno lasciato la loro
traccia nel costume e nelle forme dialettali.
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Nel IX secolo a.C., i Messapi, detti anche “popolo dei due mari”, giunsero nella
penisola salentina. Quest’antica popolazione veniva dall’Illiria, zona posta tra
l’attuale Albania, Montenegro e Dalmazia.
Nel Salento fondarono importanti centri agricoli e pastorali come Rudiae e
Cavallino e attivissimi centri costieri come Roca Vecchia, Ugento e Otranto.
1
Cfr. Massacra, A. e Salvemini, B. (2005), Storia della Puglia 1, Laterza, Bari, pp. 114-5.