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di sofferenza insopportabile, ma anche un fondamentale libertà al centro dell’esistenza
umana.
L’argomento cruciale in un contesto clinico riguarda la relazione tra suicidio e
disturbo mentale: il suicidio è di per sé un disturbo psichiatrico? E’ causato dalla malattia
mentale? E’ sempre associabile alla malattia mentale? L’aspetto fondamentale che il
medico, lo psichiatra, lo psicologo deve affrontare è quello del suicidio come atto
“razionale”. Può essere un atto razionale in chi soffre di malattie psichiatriche? Malgrado
le difficoltà metodologiche, i dati disponibili sono persuasivi. Barraclough e coll. (1974)
nel loro esame estremamente capillare del suicidio in Inghilterra hanno scoperto che, su
100 casi studiati, 93 erano stati giudicati malati di mente da un gruppo di tre psichiatri.
Il nostro interesse per il suicidio ci ha portato a riflettere sull’ambiguità esistenziale
del suicidio, considerandolo anche come un evento radicalmente pertinente alla natura
umana, da analizzare nella sua irripetibile dimensione di singolarità: coglierne il grado di
libertà e/o di illibertà considerando, quindi, il suicidio come modalità primariamente
psicopatologica ma anche come modalità antropologica nel pieno senso del termine. Il
vantaggio delle tassonomie che ci permettono di ordinare i concetti e lo scambio scientifico
trova qui la sua contropartita: il pericolo di congelare certi segnali in rappresentazioni fisse.
Sebbene le considerazioni filosofiche possono dimostrare che non esistono
argomentazioni logicamente valide per preferire la vita alla morte e che la nostra
predisposizione alla vita è irrazionale, in ambito psichiatrico pensiamo di dover sempre
ricordare che il potenziale suicida può, in fondo, condividere con noi questa irrazionale
preferenza. In alcuni casi, il suicidio può essere “l’espressione di una irrefrenabile e
incomprimibile ricerca di autonomia e di autocontrollo: non più quindi semplicemente
sinonimo, larvato o manifesto, di una patologia ma, come aveva suggerito sessant’anni fa
Henry Fedden (1938), «espressione di un desiderio liberamente espresso e razionalmente
agito»” (Crepet & Florenzano, 1998, p.134-135).
Proprio in termini antropologici abbiamo cercato di leggere i dati epidemiologici
mondiali sul comportamento suicidario, focalizzando la nostra attenzione sul fenomeno
suicidario in relazione alla fascia d’età relativa alla popolazione anziana, maggiormente
esposta ad un elevato rischio di suicidio.
I successi scientifici e sociali hanno ormai permesso di conquistare, almeno nella
maggioranza dei Paesi occidentali, risultati che solo un secolo fa sarebbero sembrati
irraggiungibili: la vita media è raddoppiata, la mortalità infantile è diventata una
eventualità estremamente rara, molte delle malattie più diffuse e pericolose sembrano
essere state definitivamente sconfitte. Non per questo, però, al destino dell’uomo è stata
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garantita una migliore qualità della sopravvivenza. “Nuove patologie minano la vita e la
riducono ad una sussistenza dolorosa, gli anni guadagnati alla morte si riempiono spesso di
una angosciosa attesa di un termine innaturalmente protratto” (Crepet & Florenzano, 1998,
p.XXI).
L’età media della popolazione si è costantemente elevata portando ad un
allargamento della popolazione anziana con l’evidente aumento di tutti i fattori di rischio
per la salute legati all’età, compresi quelli psicologici (deterioramento cerebrale,
depressione, diminuzione dell’autostima e della autonomia). L’anziano dunque avverte,
dolorosamente, di essere più esposto alle malattie (percepite come intrinsecamente
connesse al soma). Essere ammalati significa essere ancora più deboli, meno efficienti,
meno produttivi, di maggior onere per la famiglia: aumentano allora l’insicurezza, l’ansia e
la depressione, il sentimento di svalutazione delle proprie capacità, diminuisce l’autostima,
diventano più grandi e dolorosi i sentimenti di solitudine, di isolamento, di abbandono, di
marginalità sociale e di esclusione.
L’elaborato di tesi è diviso in due parti. La PRIMA PARTE segue un ordine
epistemologico ed euristico sulle diverse tipologie e le molteplici condotte suicidarie, sulle
emergenze psicopatologiche che ne determinano o ne favoriscono la messa in atto anche
nelle più diverse condizioni socio-psichiatriche. Nella SECONDA PARTE il tema della
condotta suicidaria viene approfondito nelle persone in età geriatrica, presentando alcune
autopsie psicologiche. Le conclusioni comprendono alcune ipotesi preventive e di
trattamento. In Appendice sono discusse alcune Tavole che suggeriscono segni di
riconoscimento e considerazioni, utili per chi si confronta con persone a rischio suicidario,
tradotte dal volume di Joseph Richman (1993), Preventing Elderly Suicide. Una
Bibliografia aggiornata, completa il presente studio.
Ho il piacere di ringraziare la Prof.ssa Maria Antonietta Aveni Casucci, soprattutto
per essere una maestra di vita e una donna di grande umanità, il Prof. Marcello Cesa-
Bianchi e il Prof. Calogero Di Naro, che sono stati tutti per me guida preziosa in questi
anni, e dai quali ho imparato il rigore della ricerca scientifica, il rispetto della personalità
non solo degli anziani e la professionalità di psicologa, che ha tutte le intenzioni di
continuare a svolgere con impegno e serietà la propria attività di psicologa, specialista e
gerontologa.
Un doveroso ringraziamento al Prof. Domenico De Maio per la generosa
collaborazione nel fornire la preziosa documentazione bibliografica anglosassone, e alla
Dr.ssa Nori Donarini dell’Unità Operativa Psichiatrica di Crema, per avermi concesso
l’autopsia psicologica completa di “Maria e Maria Teresa”.
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PARTE PRIMA:
IL SUICIDIO
“Vi sono parecchie maniere di uccidersi,
e una di queste è il dono totale,
l’oblio della propria persona”.
A.Camus, Il mito di Sisifo (L’uomo assurdo), 1942
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CASISTICA E TIPOLOGIA SUICIDARIA
Chi è in grado di dire fino a quando la vita altrui vale la pena di essere vissuta? Di
certo nessuno. “Quanto più il suicidio è interpretato come un atto individuale, tanto più il
giudizio su di esso diventa un atto di difesa sociale dove l’obbligo alla sopravvivenza è,
ancor prima che un principio etico, un’esigenza di salvaguardia della specie. L’uomo,
tuttavia, non è destinato alla pura sopravvivenza: è l’unico animale che, coscientemente,
può scegliere di togliersi la vita”. (Crepet & Florenzano, 1998 p.XIX)
La morte per suicidio è considerata un evento naturalisticamente innaturale. Non è
la morte che si impossessa del soggetto, e quindi della sua vita, ma il soggetto che si
impossessa della morte. Perché l’uomo avverte la necessità o il bisogno di darsi la morte?
Perché un uomo può giungere, come scrive Albert Camus (1942), a confessare che si è
superati dalla vita o che non la si è compresa... o soltanto che non vale la pena di viverla?
Agire la propria morte è solo un atto patologico o può essere anche “normale”? Può, cioè,
l’uomo decidere di morire quando non ha più voglia di vivere? Possiamo identificare il
suicidio come una scelta di libertà? Secondo quanto affermano Crepet & Florenzano
(1998), sarebbe “ideologico e superficiale: la ricerca sull’utilità di morire implica quella
sulla inutilità del vivere” (p.XXIII).
Scrive James Hillman (1999, Poscritto del 1997): “Se il suicidio come uccisione di
sé indica letteralmente il desiderio di dare la morte a questo sé, l’uccisione a cui mira è la
morte di quell’idea archetipica di sé che ha imprigionato l’anima nella solitudine e mi ha
convinto della mia individualità. La forza dell’idea di singolarità riflette il mito del
monoteismo: un Uno autonomo, concentrato su se stesso, automotivato e onnipotente. In
tal caso l’impulso di sopprimersi può avere la sua radice archetipica nell’esclusione di altri
elementi: altri dei, altri esseri, il loro appello all’anima. La loro vendetta può manifestarsi
nel mio suicidio, allo scopo di liberare la mia anima in un cosmo più ampio e completo di
partecipazione con essi” (p.145).
Per Sissela Bok (1998): “there clearly are cases where suicide can be seen as so
utterly a last resort for relief from suffering as to be a fully understandable choice for
persons who have no religious or moral objections to such acts. These are cases where the
available familial and/or medical support cannot bring adequate relief, where patients are
past wavering between wanting to live and hoping for death, and when they have reason to
believe that any family members would suffer more from their living on than from their
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dying”
1
(p.105). E’ una condizione in cui la persona può arrivare a chiedere di “staccare i
fili” o essa stessa stacca i fili che lo legano ancora alla vita.
Come afferma Bruno Callieri (1997), si possono assumere due tipologie
fondamentali di vita vissuta che può concludersi nel o col suicidio:
1) quella che Karl Kaspers chiama “irretimento e seduzione” del suicidio;
2) quella che Jaspers comprende nella generica condizione di “insopportabilità della vita”.
Nel primo caso si tratta di un tipo di suicidio che “non è veramente un’azione che
come tale sia fatta a ragion veduta, fuori della situazione-limite, ma è un’azione che viene
compiuta da chi si trova come preso in una morsa. Il suicidio in questi casi si presta ad
essere compreso psicologicamente con l’ipotesi di irretimento, che alla propria coscienza
non si presenta chiaro” (K.Jaspers, 1948, La mia filosofia, p.223, cit. da Callieri, 1997,
p.39). In tal caso il suicidio non offre alcuna possibilità di essere inteso o interpretato come
atto autentico, come decisione autonomamente assunta.
Nel secondo caso invece, cioè in quello che si realizza nella condizione di
“insopportabilità della vita”, sembra potersi dare realmente la possibilità di un suicidio
autenticamente esistenziale, di un suicidio scelto, deciso: “Al limite si giunge quando le
sofferenze fisiche e le esigenze del mondo diventano così opprimenti che io non posso più
rimanere quello che sono; quando non è l’eroismo quello che viene meno, ma, con la forza,
viene meno la possibilità fisica; e quando non c’è più nessuno al mondo che
affettuosamente sorregga il mio esserci. Al dolore più profondo posso porre un termine,
nonostante che io sia in tutto e per tutto pronto e disposto alla vita e alla comunicazione, e
anzi appunto per questo” (K.Jaspers, ibid., cit. da Callieri 1997, p.40).
Il riconoscimento del vuoto e della vanità di ogni cosa, col rinnegamento di ogni
“substantia”, spiana la via al suicidio; a questo punto, però, fa giustamente osservare
Jaspers, “l’atto della libertà, colto nella sua più viva chiarezza deve portare, nell’attimo
dell’inizio dell’azione suicida, alla consapevolezza, più o meno chiara, della substantia.
Quando ciò vien meno non c’è ostacolo al suicidio” (ibid., p.41). E’ ciò che appunto
sembra verificarsi, oltre che nei casi ad ovvia motivazione psicopatologica, anche in quelli
per i quali Jaspers parla di “irretimento”.
1
Trad. “Chiaramente ci sono casi in cui il suicidio può essere visto in assoluto come l’ultima risorsa per
alleviare la sofferenza per così dire una scelta del tutto comprensibile per le persone che non hanno obiezioni
religiose o morali per tale atto. Trattasi di quei casi in cui la disponibilità familiare e/o il supporto medico non
possono portare sollievo adeguato, in cui i pazienti hanno atteggiamenti fluttuanti tra il voler vivere e la
speranza di morire, e quando essi hanno ragione di credere che i propri familiari soffrano di più dal loro
rimanere che dalla loro morte”.
9
Ma esiste anche l’altra possibilità, cioè quella della “trascendente attuazione della
substantia nel nulla. Al cospetto di ciò ci assale un brivido. E’ essa vera? Ecco una
domanda che non ci dà pace nel mondo così come è ordinato” (ibid., p.41). Ma è una
domanda che, per il solo fatto di potersi porre, ci offre la possibilità di contemplare la
possibilità di un suicidio autentico, cioè di considerare un suicidio che, prescindendo da
motivazioni psicologiche o psicopatologiche, si attua come situazione-limite, come
possibile categoria antropologica (se qui si può parlare di categorie). Alcuni suicidi,
sostiene Callieri (1997), “potrebbero esprimere, in carenza di altre notizie, l’indicazione di
ammettere tale modalità del vivente, tale modalità antropologica” (p.41).
Le statistiche non ci dicono se oggi ci si uccide più frequentemente che al tempo
dell’impero romano o del Rinascimento, sappiamo però che vi sono più suicidi alle soglie
del 2000 rispetto all’epoca della rivoluzione industriale. Ciò ha fatto ipotizzare un
collegamento causale con il processo di civilizzazione della nostra organizzazione sociale:
il suicidio, affermano Crepet & Florenzano (1998), “rappresenterebbe la contraddizione
più cocente, insita nel cammino stesso del progresso umano. Tutto ciò non trova però
conferma da un attento esame dei dati” (p.XX).
Il suicidio è uno scacco matto per le stesse ambizioni della nostra civiltà. Il
progresso sociale, interpretato avvalendosi di variabili puramente economiche e
macrosociali, ha prodotto una spaventosa illusione: “che sarebbe bastata una migliore
distribuzione delle ricchezze, delle risorse e dei servizi per garantire la felicità. Così non è
stato e la curva dei suicidi è lì a confermare tale fallimento. (..) Come dire che la ricchezza
e lo sviluppo di servizi sono necessari a garantire un progresso sociale ma insufficienti a
raggiungere un benessere psicologico almeno nella componente della popolazione più
fragile” (ibid. p. XIII).
La legge generale del sociologo Emile Durkheim (1897) resta confermata a quasi
un secolo dalla sua formulazione: il suicidio è direttamente proporzionale alla
disgregazione sociale, cioè alla solitudine o emarginazione dell’individuo. Scrive Roberto
Guiducci (1997): “Se, come dice giustamente Durkheim, il suicidio si verifica per la
mancanza di integrazione sociale dell’individuo, è la società stessa che, in ogni suicidio,
rappresenta l’assenza, la lontananza, la disumanità, l’incapacità di parola e l’impotenza nel
messaggio e nella partecipazione” (p.35).
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In particolare, le condizioni di vita della popolazione anziana non sono migliorate,
comportando a volte una vera e propria cronica perdita della speranza di vita. Ciò
spiegherebbe la crescita dei tassi di suicidio tra i più anziani: nella popolazione con più di
75 anni d’età la crescita negli ultimi venti anni è stata del 24.3% tra i maschi e del 9.9% tra
le femmine. La straordinaria solitudine psicologica, di chi si sente solo anche quando non
lo è, rappresenta, per Crepet & Florenzano (1998), il filo rosso che riunisce le diverse
anime del fenomeno suicidario in questo scorcio di secolo.
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SUICIDIO, TENTATO SUICIDIO, PARASUICIDIO: DEFINIZIONE E
SIGNIFICATO
Una distinzione fra i vari comportamenti suicidari è stata proposta nei primi anni
sessanta (Stengel, 1964; Kreitman & Philip, 1969); in precedenza era opinione diffusa
nell’ambiente scientifico che fra “suicidio” e “tentativo di suicidio” non andasse operata
alcuna distinzione psicologica o psicopatologica. Il secondo aveva la medesima valenza
autodistruttiva del primo e solo per un caso fortuito il paziente non riusciva nel suo intento.
Moltissimi casi di suicidio (forse la stragrande maggioranza) oggi appaiono
agevolmente assorbibili e risolubili sul piano patologico. “Ma – scrive Bruno Callieri
(1997) nella presentazione al volume di De Maio, Il suicidio, le condizioni
psicopatologiche non coprono totalmente l’evento, in non pochi casi. Per quanto penetrante
e adeguata possa essere, l’individuazione di una motivazione psicologica non può offrirci
la possibilità di cogliere con certezza l’atteggiamento della persona di fronte all’agire la
propria morte” (p.X).
Secondo De Maio (1997), il suicidio ha implicazioni diverse e contrastanti ed è per
questo che “appare difficile adottare una definizione che non pregiudichi né la finalità del
gesto, né, a maggior ragione, le motivazioni” (p.83), e concorda con Bazzi & Giorda
(1972) i quali “affermano che «definire il suicidio significa porre in essere una
delimitazione del fenomeno. In altre parole, se è suicida colui che comunque intende
morire adeguando tutti gli strumenti necessari al compimento del gesto (intenzionalità), lo
è anche colui che si dà la morte portato a ciò dalle circostanze personali ed extra». In
entrambi i casi il risultato finale è lo stesso: la morte, ma non è uguale la
motivazione”(p.83).
Alcuni Autori (Halbwachs, 1930, Delmas, 1932) affermano che non si può parlare
di “suicidio” in presenza di una componente ideale, sia essa religiosa, politica o sociale.
Colui che si dà la morte per affermare un ideale non sarebbe un suicida bensì dovrebbe
appartenere alla categoria dei martiri e degli eroi. In questo senso, però, se assumiamo la
definizione di Delmas, che il suicidio “è l’atto con cui si dà la morte un individuo che,
potendo scegliere di vivere, sceglie nondimeno di morire, senza obbligo etico (cit. De
Maio, 1997, p.83)”, allora “il suicidio diventerebbe un mero ‘fatto di cronaca’ del tutto
privo di qualsiasi significazione che travalichi l’angusto ambito della soggettività” (ibid.).
Sotto questo aspetto, sostiene Halbwachs (1930), suicidio è unicamente ogni morte
che risulti da un atto compiuto dalla vittima con l’intenzione o in vista di uccidersi, ma che
non sia un sacrificio. L’intenzionalità dovrebbe essere perfezionata dalla riuscita dell’atto.
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Quindi, “per l’allievo di Durkheim – scrive De Maio (1997) – solo il suicidio realizzato è
propriamente tale” (p.84). Tuttavia, “questa limitazione non è più sostenibile; l’esperienza
insegna come molte persone siano sopravvissute miracolosamente all’azione suicida che
aveva tutte le carte in regola per attualizzarsi. La paziente che si defenestra dal sesto piano
e cade su una macchina che, attutendo l’impatto, le salva la vita, non è forse un suicidio in
piena regola? Quante sono le probabilità per una persona di sopravvivere? Teoricamente
nessuna” (ibid.).
Di suicidio si potrebbe parlare unicamente allorché v’è l’autosoppressione della vita
pura e semplice, come atto di negazione (Nuvolone, 1967).
Max Cutler (1954) parla dei pazienti portatori di cancro come di chi abbia messo in
atto un “suicidio passivo e inconscio”.
In alcune pagine dedicate al problema dell’eutanasia Vladimir Jankélévitch (1994)
sostiene che il suicidio segua ad una decisione maturata dietro riflessione. Infatti, “ogni
decisione che uno prende – per quanto riflessivo e filosofo sia –è sempre istantanea,
relativa al momento della giornata, allo stato in cui si è quando viene presa, ecc. Salvo rare
eccezioni, quando si tratta di una decisione maturata dietro riflessione. Come nel caso di
coloro che decidono di suicidarsi. […] Tranne in casi come questi, ogni decisione è
momentanea e soggetta a pentimento – perché l’uomo è un essere fatto di tempo, mutevole,
il cui stesso male per di più può evolvere” (p.83).
Secondo Deshaies (1951) il suicidio è l’atto di uccidersi in modo abitualmente
cosciente, valutando la morte sia come mezzo, sia come fine. Tuttavia, in questo caso,
afferma De Maio (1997), “non vengono chiamate in causa le motivazioni, ma unicamente
l’atto stesso di darsi la morte, spogliato di qualsiasi significazione” (p.84).
Se consideriamo la definizione di Emile Durkheim (1897), per il quale il suicidio è
ogni caso di morte che risulti direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo,
compiuto dalla vittima stessa, nella consapevolezza di produrre questo risultato, in questo
caso, sostiene De Maio (1997), “è necessaria la copresenza di due condizioni: l’azione-
omissione da una parte e la capacità di valutazione degli effetti futuri delle stesse,
dall’altra” (p.84).
Roberto Guiducci (1996) sostiene che il suicidio è direttamente proporzionale alla
divisione sociale e, quindi, alla quantità di potere in alto e alla quantità di esclusione in
basso ed, in generale, al grado di disuguaglianza, di isolamento e di separazione sia in alto
che in basso fra gli uomini.
Come afferma De Maio (1997), suicidarsi significa allora compiere un atto da cui è
assolutamente certo che deriverà la morte. Il suicidio, quindi come “uccisione volontaria di
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se stesso”. Ma la morte in se stessa può non essere il movente vero, reale del suicida che,
nella propria morte, vede o realizza un “ponte tra la morte immaginaria presente e una vita
immaginaria futura dopo la morte”. Si potrebbe dire che il suicida “è colui che si toglie la
vita per averla, che la perde per trovarla” (p.85).
Non mancano definizioni improntate ad un certo fatalismo. “Per Jean Baechler, -
scrive De Maio (1997) - il suicidio è il modo di risolvere un problema che non si crede di
poter risolvere altrimenti. E conta poco che il problema sia reale o immaginario. Quel che
conta è come il suicidando lo viva, come si identifichi in esso, come da esso si senta
coinvolto, come da esso non riesca a sottrarsi, se non con l’annullamento fisico. E in effetti
è un’espressione-giustificazione che ricorre spesso, durante il colloquio con il mancato
suicida, specie se sofferente di depressione, per il quale il presente non lascia spazio ad
alcuna soluzione dei problemi e delle problematiche che gli rendono la vita un inutile,
assurdo stillicidio di sofferenze” (ibid.).
Per la psicobiologia il suicidio è visto come caduta della proprietà di
autoconservazione (istinto vitale) come conseguenza di uno squilibrio del sistema di
controllo serotoninergico.
Stengel (1964) ha individuato per primo una distinzione fra “suicidio”, che è
sempre da considerarsi un atto volto all’autodistruzione, e “tentativo di suicidio”, che può
riconoscere due finalità essenziali: o una “richiesta d’aiuto” rivolta all’ambiente o la
ricerca di un effetto catartico, di liberazione dall’aggressività sia essa auto o eterodiretta.
Tuttavia, sottolinea Tatarelli (1992), “una tale suddivisione, pur avendo il merito di operare
una differenziazione di contenuti, non rendeva conto della possibilità di veri
comportamenti autodistruttivi solo casualmente non giunti a termine” (p.96).
Kreitman e Philip (1969) hanno introdotto una ulteriore suddivisione del tentativo
di suicidio in “suicidio mancato”, assimilabile negli intenti al vero e proprio suicidio, e
“parasuicidio” espressione di un comportamento di “richiesta d’aiuto”.
Secondo De Maio (1997), la definizione di “tentato suicidio” (TS) proposta da
Cazzullo et al. (1975), come di un atto autolesivo consciamente tendente
all’autodistruzione, realizzato con modalità generalmente poco rischiose ed intenzionalità
suicida ambivalente, non rende ragione del fatto che l’obiettivo del soggetto non sarebbe
quello di morire, bensì di far credere di voler morire. “Questo è l’atteggiamento tipico, non
del tentato suicidio, bensì del suicidio dimostrativo, i cui mezzi appaiono sempre
inadeguati a raggiungere lo scopo (un taglietto superficiale al polso, l’ingestione di qualche
sonnifero). E’ il cosiddetto ‘suicidio simulato’. Al contrario anche nel tentato suicidio è
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presente la determinazione moriendi che non si realizza per cause a volte indipendenti
dalla volontà del suicidando” (p.86).
Nel “mancato suicidio” (MS), invece, “la vis moriendi appare più drammaticamente
potente, anche se la salvezza giunta in extremis è uguale per entrambe le situazioni.
L’elemento differenziale è proprio la salvezza in extremis: nel TS l’aspirante suicida può
salvarsi; nel MS invece la salvezza è quasi sempre legata ad un imprevisto” (ibid.).
Con il termine “parasuicidio”, coniato dall’inglese Norman Kreitman, si vorrebbe
differenziare i soggetti che sono sospinti al comportamento suicida per ragioni differenti
dallo scopo di uccidersi, da quei soggetti, invece, che sono realmente intenzionati a morire
indipendentemente dal fatto che il desiderio si realizzi o meno. In tal caso, il primo gruppo
è rappresentato dai parasuicidi; il secondo dai tentati suicidi. “Sfortunatamente, sostiene
DeMaio (1997), l’utilità di tale distinzione non è stata sufficientemente provata, né è facile,
clinicamente, una precisa differenziazione” (ibid.)
In definitiva, afferma Tatarelli (1992), la distinzione fra “suicidio mancato” e
“parasuicidio”, pure concettualmente assai valida, non può purtroppo essere considerata
attendibile in maniera assoluta da un punto di vista operativo. “Per di più, col passare degli
anni, ha ingenerato negli operatori un sentimento, tanto diffuso quanto pericoloso, secondo
il quale un parasuicida non ha in realtà intenzione di uccidersi” (p.97).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (1975) ha proposto una definizione
operativa che vede la differenziazione tra suicidio, tentato suicidio e parasuicidio,
nell’esito, inteso come “fatal out” o “self-harm”. Per cui:
Il suicidio è un atto ad esito fatale che il soggetto, con la coscienza e l’aspettativa di un
esito fatale, ha pianificato e portato a termine per ottenere lo scopo desiderato di
morire;
Il tentato suicidio è un atto non abituale con esito non fatale, deliberatamente iniziato
e condotto a compimento dal soggetto;
Il parasuicidio è un atto non abituale, ad esito non fatale, deliberatamente iniziato e
condotto a compimento nell’aspettativa di un qualche esito, in grado di realizzare il
desiderio autolesivo. Fanno parte di tale condotta il rifiuto delle terapie, la scarsa
adesione a consigli terapeutici e a misure preventive, lo scarso adeguamento a
programmi di follow-up in caso di malattie croniche.
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Secondo il filosofo americano David J. Mayo (1992) chi commette suicidio è colui
che intenzionalmente pone fine alla propria vita nel rispetto di quattro situazioni:
1. La fatalità del suicidio;
2. La reflessività del suicidio;
3. Il fatto che il gesto suicidario possa essere sia attivo che passivo;
4. La presenza di intenzionalità.
La fatalità del suicidio, ossia l’esito letale, è una condizione indispensabile; senza
morte non si può parlare di suicidio bensì di tentato suicidio. Tuttavia, afferma De Maio
(1997), questa differenziazione non sembra molto drastica in quanto viene caratterizzata
solo dall’esito mortale e non tiene conto dell’intenzionalità che può essere realmente
suicida ma che può trasformarsi in suicidio tentato.
Riguardo alla situazione di reflessività, Mayo (1992) precisa che una morte per
essere suicidio deve essere una morte che è stata programmata (intended) ed effettuata
dalla persona che è morta. In questo senso non è necessario che una persona abbia agito da
sola e, secondo l’Autore, in questa tipologia rientrano i cosiddetti “omicidi-suicidi”. In
questo caso si tratta di suicidio perché ha posto fine alla propria vita intenzionalmente (sia
pure con l’aiuto di un altro) ma è anche omicidio perché una persona ha ucciso un’altra.
Poiché gli atti suicidari sono per lo più espressione di un atto “attivo”, è possibile –
si chiede Mayo, parlare di suicidio a seguito di un gesto “inattivo” (passivo)? Mayo (1992)
e De Maio (1997) propendono entrambi per la seconda tesi, e sottolineano che si adatta
bene al suicidio da ‘treno’ o da ‘metropolitana’. In questo caso, il fatto importante non è
che il suicidando si getti sotto il treno o il metrò, ma che egli intenda morire e, rimanendo
inattivo, realizzare la propria intenzione suicida.
I veri suicidi “inattivi” (passivi) sono quelli in cui il suicidando si lascia morire (per
es., rifiutando terapie indispensabili per la propria sopravvivenza).
Il quarto punto, l’intenzionalità, è – come afferma De Maio (1997) il più difficile da
definire; ci riferiamo ai casi di suicidio accidentale, per es. armeggiando una pistola, in cui
spesso la presenza di intenzionalità è difficile da dimostrare, o in cui il suicida intende
morire ma non ci riesce, suo malgrado.
Il suicidologo americano Edwin S. Shneidman (1996) ha identificato dieci
caratteristiche psicologiche (commonalities) presenti in almeno il 95% dei tentativi di
suicidio, tratti comuni che interessano tanto il pensiero quanto l’emotività e il
comportamento:
1. Lo scopo comune del suicidio è la ricerca di una soluzione. In questo caso il suicidio
diventa la risposta, apparentemente l’unica risposta possibile;
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2. L’obiettivo comune del suicidio è la cessazione della sensazione di consapevolezza,
nei confronti della sofferenza vitale e dei problemi;
3. Lo stimolo comune del suicidio è l’insopportabilità della sofferenza psicologica
(psychache). Il suicidio è una risposta esclusivamente umana ad un estremo dolore
psicologico;
4. Lo stressor comune del suicidio è rappresentato dalla frustrazione dei bisogni
psicologici;
5. La sensazione emotiva comune nel suicidio è di disperazione e di abbandono: “non
v’è niente che io possa fare (eccetto che uccidermi) e non v’è alcuno che possa essermi
di aiuto”;
6. Il stato cognitivo comune nel suicidio è l’ambivalenza. Sono onnipresenti le fantasie
di salvezza e ciò costituisce l’imperativo morale per l’intervento clinico;
7. Lo stato percettivo comune nel suicido è la costrizione interessante sia l’emozione
che l’intelletto: “non v’era null’altro da fare. L’unica via d’uscita era la morte”.
8. L’azione comune del suicidio è la fuga o l’uscita: “almeno mi tirerò fuori da questo
tormento”;
9. Il gesto interpersonale comune nel suicidio è la comunicazione delle intenzioni: la
maggior parte dei pazienti che intendono commettere suicidio emettono segnali di
preoccupazione, lamenti, o desiderio di intervento (altrui);
10. Il quadro comune del suicidio è la costanza dello stile di vita. Poiché il suicidio, per
definizione, è un gesto che il soggetto non ha mai fatto prima, in questo caso appare di
utilità l’autopsia psicologica.
E’ evidente, commenta De Maio (1997), che “le dieci ragioni elencate stiano alla
base, e non sono necessarie tutte, del mal di vivere che ha come problem solving behaviour
proprio il suicidio. Esse, però, sono riferibili e rintracciabili con la stessa intensità in
persone che esitano in comportamenti diversi, nell’uomo comune come nell’uomo celebre
o nel genio. […] L’Autore (Shneidman) individua due tipi fondamentali di bisogni
psicologici: quelli del quotidiano (model needs) e quelli vitali o esistenziali (vital needs).
Nel suicida il ‘focus’ slitta dai bisogni ordinari ai bisogni frustrati o contrastati, il che
provoca nel soggetto la percezione di minaccia, di fallimento, di costrizione e di dolore,
che il soggetto considera vitali per potere continuare a vivere” (p.94).
Sia il concetto di suicidio che di tentato (o mancato) suicidio possono venire
considerati manifestazioni differenti del processo suicidario (suicidal process), inteso come
evoluzione del pensiero suicida all’atto suicida. Il processo suicidario, come affermano
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Retterstøl (1993) e De Maio (1997) ha spesso una lunga incubazione: comincia in genere
durante la pubertà e oltre e può completare il suo ciclo nel giro di giorni, settimane, mesi
ed anni. “Il suicidando non vive mai con distacco questo processo; spesso si trova in uno
stato d’animo come da ‘incitamento esistenziale della realtà’; non riesce ancora ad inviare
messaggi chiaramente decifrabili, ma certamente comunica, con modalità che ci sfuggono,
o perché subliminali o perché non riusciamo a decifrarli” (De Maio (1997), p.90).
Il grafico seguente esprime questa marcia di avvicinamento alla morte: il processo
suicidario, a partire dalla tendenza suicidaria, al tentato suicidio e al suicidio, inizia con
una fase comportamentale muta in cui sono tuttavia presenti pensieri, impulsi o progetti
suicidi cui ne segue un’altra, di durata non definibile, caratterizzata dalla presenza di
messaggi più o meno espliciti che precedono sia il tentato suicidio che il suicidio riuscito.
(da N. Retterstøl, 1993, in D. De Maio (1997), Il suicidio, p.91)
Il tentativo degli studiosi, per meglio capire il fenomeno del suicidio ed anche per
darsene una ragione è stato, per molti anni, quello di approfondire la conoscenza del
pensiero, del sentire del suicida prima del gesto finale, operando quello che in termini
filmici si definisce ‘zoommata’: restringere il campo e dilatare i particolari così da vedere
meglio e di più; ci riferiamo alla cosiddetta “autopsia psicologica”.
L’autopsia psicologica, pur con i suoi limiti, si propone di studiare tutte le variabili
che hanno fatto da sfondo al suicidio, “nel tentativo di far confluire nel filone clinico-
diagnostico tanto lo strumento classico della psicopatologia, ossia il metodo della ‘storia
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familiare’ quanto quello della ‘ricerca’ condotta su persone non interessate, direttamente o
no, al suicidio” (De Maio, 1997, p.92).
L’autopsia psicologica prevede la raccolta di informazioni presso congiunti e altre
figure significative, del soggetto che ha completato il suicidio. Questa tecnica da sola
sembra essere solo in parte affidabile, sia per l’ovvia incompletezza dei dati ottenibili che
per la sovente scarsa attendibilità di questi, inevitabilmente inficiati dalle opinioni
personali dei referenti (P.Scocco & D.De Leo, 1995). Per cui il significato “viene sempre
dato a posteriori e, qualora il suicidio sia riuscito, addirittura con metodo indiziario,
impossibile da verificare con il soggetto stesso; anche laddove ci sia stata sopravvivenza,
infatti, la variabile tempo ha modificato i vissuti” (De Maio, 1997, p.88).
Una ulteriore chiave di lettura allarga l’autopsia psicologica ad una ricostruzione
che includa più significati in termini di persone, luoghi, relazioni. “La differenza – scrive
De Maio (1997) - tra questo tipo di ricostruzione e quella messa a punto da Zilboorg, è una
sottolineatura dell’aspetto relazionale. In questa chiave il suicidio è sempre un messaggio
ed allora è essenziale rintracciare mittente-destinatario, contenuto del messaggio e
metacomunicazione” (p.89).
Le comunicazioni e le spiegazioni lasciate dal suicida agli altri sono talora una sorta
di testamento spirituale. La comunicazione del suicida attiene illusoriamente e
paradossalmente alla vita e ai fatti della vita, essa risulta utile ed è mirata a cambiare gli
altri, ad accusarli, a punirli, a ristabilire la verità, ad affermare o restaurare la propria
immagine gradita. Roberto Tatarelli (1992) sostiene che, quello di scrivere, o di registrare
dalla viva voce, le ragioni di togliersi la vita è un fenomeno molto frequente proprio nei
soggetti senza segni palesi di psicopatologia. In questo caso la comunicazione degli intenti
suicidari è assente o compare assai più raramente e dà conto della pubblica sorpresa.
Per quanto riguarda il messaggio presuicidario, gli studi di autopsia psicologica
hanno dimostrato che almeno i due terzi dei suicidi avevano comunicato il loro intento
settimane prima del gesto fatale a persone diverse e che circa il 40% lo aveva comunicato
in modo chiaro. Secondo De Maio (1997) questa è “una caratteristica differenziale tra il
suicidio in corso di depressione rispetto a quello in corso di schizofrenia. Lo schizofrenico
si suicida nel più completo isolamento socio-affettivo, improvvisamente, senza causa
apparente e senza tentativo apparente di inviare qualsiasi messaggio. In corso di
depressione, primaria o secondaria, il messaggio c’è, e talora è anche pressante” (p.91).