INTRODUZIONE Il futuro rappresenta, per ciascun individuo, un mistero. Chi non ha mai, soprattutto nell’infanzia e
nell’adolescenza, pensato a ciò che avrebbe desiderato fare negli anni seguenti, le utopistiche
esperienze da realizzare non appena avuto libertà e denaro a sufficienza, le professioni cui dedicarsi
e, perché no, le verosimili follie da concedersi. Quando però si inizia a scoprire com’è davvero
strutturata la realtà e la società che ci circonda, il pensiero si rivolge al lavoro, indispensabile per
sopravvivere e permettersi desideri e sfizi. Solo dopo i primi anni lavorativi, la riflessione si estende
ad un aspetto tralasciato dalle generazioni più giovani, ovverosia la pensione. Quale lavoratore,
intorno ai 45/50 anni di età, non si è mai rivolto al proprio istituto di previdenza per richiedere
informazioni sullo stato contributivo personale? Probabilmente solo coloro i quali hanno perso ogni
speranza di ottenere una pensione perché aventi un lavoro poco retribuito e/o solo saltuario.
L’attenzione rivolta all’argomento pensioni è, assai spesso, propria solo delle generazioni più
anziane. La forza lavoro giovanile si interessa maggiormente alla ricerca di un impiego e al
mantenimento dello stesso per un lasso di tempo piuttosto prolungato. A tale categoria appartengo
anche io, autrice del testo: solo dopo aver trattato il tema pensionistico durante un corso
universitario, ho voluto attuare approfondimenti attraverso l’elaborazione di questa tesi. Tutto è
cominciato da una semplice domanda: le generazioni dei giovani d’oggi, impegnati a ricercare e a
mantenere un posto di lavoro, potranno mai, un giorno, andare in pensione? Potranno, come i loro
progenitori, godere di una pensione che gli permetta di lasciarsi alle spalle, in modo definitivo, il
mondo del lavoro e, al tempo stesso, vivere dignitosamente? Ovviamente non è possibile stabilire
con sicurezza quale sia il futuro pensionistico di ciascun lavoratore, data l’incertezza di elementi
quali le attività svolte, le remunerazioni percepite, i possibili periodi di disoccupazione. Tuttavia,
attraverso tale testo, desidero far luce su anomalie e questioni proprie di gran parte della
popolazione attiva. Le riforme attuate, l’odierno contesto pensionistico, le prospettive future sono
temi a cui molti non riconoscono il giusto peso.
Il testo è suddiviso in cinque capitoli. Il primo tratta l’evoluzione legislativa italiana a partire dagli
anni Novanta sino ai giorni nostri. Il capitolo, partendo da una breve introduzione trattante le
fondamenta legislative del sistema pensionistico italiano, si concentra non solo sulle grandi riforme
attuate nel 1992 e 1995, bensì espone tutte le innovazioni legislative succedutesi nel corso del
ventennio analizzato. Tale analisi normativa convoglia quindi interventi legislativi di qualsiasi
tipologia ed entità, poiché ciascuno di essi, seppur ad una prima lettura appare esiguo e trascurabile,
rappresenta un pilastro su cui poggeranno le pensioni delle prossime generazioni.
1
Il secondo capitolo rivolge l’attenzione verso l’aspetto pratico del sistema, vale a dire i futuri
compensi pensionistici. Il testo si sofferma anzitutto sulla comprensione degli obiettivi cui è rivolto
il sistema previdenziale, tra i quali spiccano l’adeguatezza, la stabilità monetaria, l’equità
distributiva e la razionalizzazione. L’esposizione dei lemmi cui il legislatore si è ispirato, nel corso
degli anni, per creare l’attuale sistema pensionistico non è però l’unico strumento attraverso cui è
possibile comprendere la realtà previdenziale che si pone di fronte ai lavoratori italiani. Infatti, nella
seconda parte del capitolo, vi sono svariate stime pensionistiche quantitative, di tipo retributivo e
contributivo, in relazione a differenti carriere lavorative. In questa parte del capitolo non sono
tuttavia tralasciati elementi di notevole rilievo quali, ad esempio, tassi di sostituzione e di
rendimento che, congiunti a preventivi pensionistici, permettono di creare un quadro piuttosto
minuzioso dell’avvenire previdenziale. Il capitolo rivolge infine lo sguardo verso la conformità o
meno delle future pensioni: queste ultime assicureranno ai pensionati e ai titolari di reversibilità un
appropriato tenore di vita, o li accompagneranno verso un radicale cambiamento negli usi e
consumi quotidiani?
I lavoratori dipendenti non sono gli unici individui facenti parte del mercato del lavoro. Difatti, una
particolare tipologia di lavoratori sta ergendo: gli atipici, ovvero i parasubordinati congiunti agli
aventi partita Iva. Probabilmente chi gode, già da anni, di un posto di lavoro a tempo indeterminato
ha solo udito qualche accenno sulla loro realtà, ma non ne conosce gli aspetti retributivi e
contributivi. Coloro i quali, invece, sono privi di contratti lavorativi stabili, alle prime esperienze
nel mondo del lavoro e subenti le conseguenze della crisi economica attuale, sanno esattamente
cosa significa essere lavoratori atipici. Il terzo capitolo illustra a tutti i lettori il significato
dell’espressione “lavoratori parasubordinati”. La parasubordinazione è presentata nel testo non solo
secondo aspetti terminologici e normativi, bensì anche secondo una prospettiva pensionistica, volta
alla comprensione dell’avvenire previdenziale riservato ai lavoratori atipici e delle differenze, in
termini contributivi e pensionistici, che contrappongono questi ultimi ai lavoratori che sino ad ora
hanno prevalso nel mercato del lavoro italiano, ovvero i lavoratori tipici.
Basi legislative e prospettive pensionistiche future appartenenti a diverse tipologie di lavoratori:
sono questi gli elementi su cui il testo si concentra, nel tentativo di offrire un quadro
microeconomico che permetta di comprendere realmente quale sia la realtà previdenziale cui le
generazioni odierne e future andranno incontro. Non bisogna comunque omettere anche gli aspetti
macroeconomici del tema. Questo è ciò cui ambisce l’analisi svolta nel quarto capitolo: essa
presenta le particolari sfaccettature dei conti previdenziali pubblici, approfondendo aspetti quali
deficit, provenienza geografica dei flussi pensionistici, loro quantificazioni monetarie e fluttuazioni,
2
relazione tra produzione nazionale ed importi pensionistici medi, in congiunzione a prospettive
ipotetiche, esibenti un contesto pensionistico privo di riforme o interventi specifici. In ultimo, il
capitolo si concentra sulla comprensione della struttura su cui poggia il sistema previdenziale,
ovverosia la ripartizione. L’obiettivo del paragrafo consiste nella piena comprensione delle
caratteristiche di tale sistema e, al medesimo tempo, dei difetti da questo presentati per i quali,
nonostante i tentativi, nessuno ha sino ad ora trovato soluzioni.
Nel quinto ed ultimo capitolo l’attenzione si rivolge verso un’ipotetica, ma pur sempre attuabile,
nuova configurazione del sistema. In quest’ultima parte della tesi vengono proposte, in primis,
alcune piccole ma significative modifiche all’attuale contesto pensionistico, senza però alcuna
pretesa di eccessiva alterazione dell’assetto. Nella seconda parte del capitolo, invece, la proposta si
estende verso una variazione della costituzione previdenziale, la ripartizione. Secondo quanto
esposto nel paragrafo 5.2, infatti, la capitalizzazione appare quale configurazione, non più
marginale e secondaria, bensì avente considerevole rilevanza nella costruzione di un appropriato
scenario pensionistico, apprezzabile dal punto di vista proprio sia dei lavoratori sia dello Stato.
L’obiettivo cui volge questo paragrafo è dunque l’analisi della fattibilità o meno dell’espansione
capitalistica nel sistema previdenziale italiano.
La tesi si concentra sullo studio approfondito di un sistema che, anche se semplicemente
menzionato, richiama l’attenzione della popolazione e sulla quale l’opinione pubblica si esprime
assai soventemente. Qualche tempo fa, prestando attenzione ad un discorso tra lavoratori pubblici,
ho udito solo critiche nei confronti del sistema pensionistico post riforme. La volontà di tali
impiegati era tornare ai tempi oramai arcaici, antecedenti l’avvento di Amato e Dini. Gli oratori
lamentavano la costruzione, da parte dello Stato, attraverso innumerevoli innovazioni legislative, di
un sistema incapace di soddisfare le necessità dei lavoratori e conducente verso un’anzianità
caratterizzata da stenti e impossibilità di godersi il meritato riposo. Il discorso si manteneva su toni
comunque allegri, ironici, tuttavia queste affermazioni mi hanno fanno riflettere: è proprio vero che
lo Stato ha predestinato la popolazione italiana, attraverso le sue riforme, ad un futuro misero? I
lavoratori saranno dunque costretti a lavorare decine e decine di anni, faticando e cercando di
risparmiare, per poi trovarsi a godere di una pensione lavorativa addirittura inferiore all’importo
ritenuto necessario alla mera sopravvivenza? Questa tesi non vuole certo essere espressione di
personali poteri di chiaroveggenza, bensì un semplice strumento attraverso cui sondare più a fondo
una realtà in gran parte ancora sconosciuta, il sistema pensionistico italiano, tutt’oggi celato da
ambiguità e questioni in sospeso.
3
4
CAPITOLO 1
L’evoluzione del sistema pensionistico italiano
1.1 La rivoluzione degli anni Novanta
Il moderno sistema pensionistico italiano ha affrontato nel corso del tempo un’insolita evoluzione.
Per quasi un ventennio infatti, dal 1969 a fine anni Ottanta, il sistema mantenne una forma
inalterata: conservò un’elevata spesa (tra le più elevate d’Europa), un’alta generosità in prestazioni,
un notevole deficit del bilancio previdenziale, una frammentazione occupazionale (47 casse
pensionistiche) e rilevanti disuguaglianze di trattamento
1
. Il motivo alla base di tale imperfezione fu
l’insieme di principi su cui poggiava il sistema, definiti dalla Legge 13 aprile 1969, n. 153. Tale
normativa stabilì, tra gli altri, un finanziamento a ripartizione, un importo pensionistico massimo
pari all’80 per cento della retribuzione (art. 11), un calcolo della rata pensionistica basato sulla
retribuzione media percepita dal lavoratore negli ultimi cinque anni e talvolta, in caso di impiego
statale, solo l’ultimo della carriera lavorativa (art. 14), un aumento annuale dell’importo
pensionistico pari all’aumento percentuale dell’indice del costo della vita (art. 19). Risultava
dunque alquanto difficile per lo Stato sostenere tale sistema in termini finanziari, assicurarsi input
proporzionati agli output, ripartire equamente i rischi e i profitti. Oltre a ciò, il legislatore all’epoca
non si rivelò in grado di proporre valide innovazioni e riforme, tali da riportare ordine ed equilibrio
economico e finanziario. Al contrario, vi furono casi in cui il sistema legislativo sfavorì
ulteriormente il bilancio pubblico. Ad esempio, nel 1973, il Presidente della Repubblica emanò il
Decreto n. 1092 con il quale concesse le baby pensioni nel pubblico impiego: grazie ad esso le
donne coniugate con figli potevano ottenere la pensione dopo soli 15 anni d’impiego e di
versamento contributivo.
Oltre a tali lacune legislative, l’Italia dovette far fronte a crisi politiche ed economiche che
gravavano su di essa. Tra queste spiccava lo scoppio, nel settembre del 1992, di una grave crisi
valutaria, causata dalla pressione della speculazione internazionale, che comportò una forte
svalutazione della lira, una declassazione dell’economia nazionale e l’uscita temporanea dell’Italia
dal Sistema Monetario Europeo
2
. Sull’economia interna pesavano, oltre agli effetti di tale crisi
economica, anche fattori interni quali un rapporto tra debito pubblico e Pil pari a 94,6 per cento ed
un indice record di disoccupazione
3
. Ovviamente questo quadro economico e finanziario rischiava
di ripercuotersi gravemente sul sistema previdenziale. Ricerche effettuate in quel periodo da Inps e
5
Ragioneria Generale dello Stato mostrarono infatti che, in assenza di interventi statali, la spesa
pensionistica pubblica fosse destinata ad aumentare da un valore pari al 12,8 per cento del Pil del
1992 al 23,4 per cento nel 2040
4
.
Gli anni Novanta rappresentarono il momento di svolta per il sistema pensionistico italiano, un
sistema ritenuto ormai antiquato ed incapace di soddisfare le esigenze della società moderna. Lo
Stato e l’economia interna sentivano l’esigenza di interventi correttivi e modifiche legislative. La
prima svolta avvenne nel 1992 quando il Governo emanò il Decreto Legislativo 30 dicembre 1992,
n. 503, altresì conosciuto come “riforma Amato”, dal nome dell’allora Presidente del Consiglio
Giuliano Amato, volto ad un risanamento della finanza pubblica ed un consistente taglio alle spese.
Questo cambiamento fu sollecitato da diversi fattori tra cui i primi segnali di un rallentamento della
crescita ed un calo dell’occupazione
La riforma Amato, attuata con il Decreto Delegato 21 aprile 1993, apportò rilevanti modifiche al
sistema previdenziale sino ad allora mantenutosi in sostanza inalterato. Il primo punto interessante
su cui soffermarsi è l’innalzamento dell’età pensionabile in tutti i regimi pensionistici: l’articolo 1.3
del testo elevò l’età richiesta per la pensione di vecchiaia da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65
per gli uomini. Inoltre il decreto introdusse nuovi requisiti assicurativi e contributivi: per richiedere
la pensione di vecchiaia era necessaria l’iscrizione del lavoratore da almeno 20 anni a
un’assicurazione generale obbligatoria ed il versamento di 20 anni di contribuzione (art. 2.1). La
piena entrata in vigore dei suddetti limiti di età e di requisiti assicurativi e contributivi fu prevista
per il 1° gennaio 2001. Talune forme professionali, quali gli appartenenti alle Forze di Polizia e al
Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, non subirono l’imposizione di tali limiti di età poiché fu loro
concesso l’usufrutto di norme dettate dai loro ordinamenti interni per il calcolo dell’età pensionabile
(art. 5, commi 2 e 3).
Per ciò che riguarda la concessione della pensione di anzianità, la riforma si limitò esclusivamente a
richiedere il raggiungimento di 35 anni di anzianità retributiva sia per lavoratori dipendenti pubblici
che privati (art. 8.1). Inoltre i lavoratori pubblici e privati ed i lavoratori autonomi, occupati in
attività particolarmente usuranti
5
, acquisirono la possibilità di ottenere uno sconto sull’età
pensionabile di due mesi per ogni anno di occupazione, svolto dall’ottobre 1993 in poi, fino a un
massimo di cinque anni complessivi.
Su questo primo punto è necessario soffermarsi poiché mostra qualche penuria. In primo luogo, il
decreto mantenne il limite di età pensionabile per donne e uomini piuttosto basso rispetto alle
aspettative di vita di cui essi godevano allora. In secondo luogo, il limite di 35 anni per le pensioni
6
di anzianità rese in sostanza nullo l’aumento dell’età pensionabile
6
, poiché gran parte della
popolazione attiva di allora raggiungeva il limite di anzianità assai prima dei 60/65 anni, avendo
intrapreso l’attività lavorativa in età adolescenziale. Il legislatore si limitò ad innalzare l’età
pensionabile senza però tener conto di taluni fattori, quali la longevità in continuo innalzamento e la
percentuale di lavoratori aventi alle proprie spalle già molti anni di versamenti contributivi quindi,
di fatto, risultanti neutri a tali innovazioni.
Il decreto tuttavia non si limitò alla modifica degli anni anagrafici e di anzianità retributiva richiesti,
bensì rideterminò il periodo di riferimento per il calcolo della rata pensionistica, in particolare per
quanto riguarda il pubblico impiego. Difatti l’articolo 3 sancì un progressivo innalzamento del
periodo di riferimento per il conteggio della retribuzione pensionabile agli ultimi dieci anni per i
lavoratori con almeno 15 anni di contributi e a tutta la vita retributiva per i nuovi assunti dunque
non più l’ultimo anno retributivo per i dipendenti pubblici e l’ultimo quinquennio per i privati,
secondo quanto stabilito dalla legislazione antecedente e come già accennato in precedenza. La
riforma Amato, inoltre, prefisse un aumento dei contributi previdenziali al 27,17 per cento del
salario lordo quindi con un incremento di tre punti percentuali rispetto a quanto stabilito
precedentemente, dovuto, molto probabilmente, all’aumento dei costi previdenziali gravanti sullo
Stato.
E’ inoltre necessario ricordare che tale riforma impose l’adeguamento dell’importo delle pensioni
alla variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo, non più dunque alla fluttuazione dei salari
come avveniva in precedenza. In aggiunta, il legislatore consentì l’eventuale incremento di tali
somme in relazione all’andamento dell’economia, tenuto conto degli obiettivi del Pil e previa
consultazione delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale (art.
11).
L’autore della norma trattò inoltre il Trattamento di Fine Rapporto (TFR): egli si rifece alla nozione
di TFR riportata dalla Legge 29 maggio 1982, n. 297, secondo la quale questo è pari alla somma
delle quote annuali di retribuzione divise per 13,5 e soggetto a una rivalutazione pari all’1,5 per
cento sommato al 75 per cento del tasso di aumento dei prezzi al consumo (art. 1). Nonostante il
legislatore si ponesse quale obiettivo la promozione della parificazione delle assicurazioni e dei
fondi pensioni privati a quelli pubblici (art. 5, 6 e 7) e dell’effettivo inserimento, egli non si rivelò
in grado di adempiere a tale compito in quanto non utilizzò uno dei mezzi finanziari più efficaci a
sua disposizione: l’agevolazione fiscale a favore dei lavoratori. Difatti il Governo dispose
l’esenzione fiscale dei contributi del Trattamento di Fine Rapporto a fondi pensione esclusivamente
a favore del datore di lavoro, non del lavoratore
7
. Quest’ultimo è la figura su cui verte il sistema
7
pensionistico, dunque il primo individuo cui il legislatore avrebbe dovuto interessarsi, offrendogli
incentivi e privilegi tributari.
La previdenza integrativa fu definita interamente solo l’anno successivo con il Decreto Legislativo
21 aprile 1993, n. 124, soprannominato “decreto Cristofori”, il quale stabilì, per i neoassunti,
l’obbligatorietà della confluenza integrale delle somme destinate al TFR ai fondi pensione e, per i
lavoratori già attivi, la contrattazione tra i rappresentanti sindacali e i datori di lavoro riguardo alla
quota del Trattamento di Fine Rapporto da destinare al fondo
8
. Per agevolare l’adesione a questa
nuova tipologia di fondi, la normativa concesse la deducibilità del 27 per cento delle quote annuali
di TFR, destinate a date forme pensionistiche, dalle imposte sui redditi. A ciò fu associata la
creazione di due tipologie di piani pensionistici collettivi: fondi pensione chiusi, istituiti tramite
contrattazione collettiva, nella quale le parti sociali rappresentano i lavoratori, e fondi pensione
aperti, gestiti da società abilitate alla gestione del risparmio
9
. La riforma Amato e tale decreto
portarono così alla creazione di un doppio sistema pensionistico: da un lato un sistema
previdenziale obbligatorio nel quale operavano enti pubblici (Inps e Inpdap), dall’altro lato un
sistema di previdenza complementare volontario a cui il lavoratore aderiva senza alcuna costrizione
e dove operavano enti ed organismi privati. Il risultato a cui lo Stato ambiva non fu comunque
raggiunto: a due anni dall’emanazione del decreto, la previdenza complementare italiana si trovava
ancora agli ultimi posti della classifica dei Paesi industrializzati con un’adesione pari a poco più del
2 per cento dei lavoratori. Ai primi posti vi erano invece Francia (87 per cento), Germania (86,5 per
cento), Olanda (70 per cento) e Gran Bretagna (51 per cento)
10
.
Le pensioni di invalidità e ai superstiti, altre due colonne portanti del sistema previdenziale italiano,
non furono trattate ampiamente dalla riforma Amato. Il legislatore infatti si limitò a stabilirne la non
cumulabilità totale con i redditi da lavoro dipendente, ristretta a solo 50 per cento (art. 10.1), mentre
concesse la loro piena cumulabilità con redditi derivanti da attività socialmente utili (art. 10.5),
essendo tali redditi non soggetti alle contribuzioni previdenziali e non dando diritto ad alcuna
ulteriore prestazione pensionistica.
Nel 1994 Silvio Berlusconi, nominato Presidente del Consiglio, tentò di proseguire la linea di
risanamento finanziario intrapresa dai suoi predecessori, operando sin da subito ad un nuovo
progetto di riforma pensionistica vertente, tra gli altri, sull’indicizzazione delle pensioni al tasso
d’inflazione programmata, su un prolungamento dell’attività lavorativa attraverso disincentivi al
pensionamento di anzianità (una riduzione dell’ammontare pensionistico pari al 3 per cento per ogni
anno di anticipo rispetto all’età di pensionamento prevista) e una più rapida transizione all’età
pensionabile introdotta dalla riforma Amato (65/60 anni per il 2000 anziché per il 2001)
11
. Tali
8
misure incontrarono però una ferma opposizione da parte dei sindacati
12
, congiunta a conflitti
interni alla maggioranza parlamentare. La riforma cui puntava il Presidente Berlusconi non fu
quindi attuata.
Il sistema previdenziale italiano fu soggetto a ulteriori modifiche solo nel 1995, con la Legge 8
agosto 1995, n. 335, denominata “riforma Dini”, nominativo ispirato all’allora Capo del Governo
Lamberto Dini. Tale norma verté su tre punti principali: il passaggio del calcolo pensionistico da
sistema retributivo a contributivo con graduale abolizione della pensione di anzianità, flessibilità
dell’età pensionabile e adeguamento della somma pensionistica alle variazioni del Prodotto Interno
Lordo.
Per quanto riguarda il primo punto è necessario precisare che la riforma previde la suddivisione
della popolazione attiva in tre gruppi: coloro i quali avevano nel 1995 già lavorato e versato
contributi per più di 18 anni, coloro i quali godevano di un’anzianità contributiva inferiore ai 18
anni e coloro i quali risultavano nuovi assunti a partire dal 1° gennaio 1996. I primi continuarono a
godere di una liquidazione pensionistica calcolata su base retributiva (art. 1.13); i secondi ottennero
un calcolo di pensione pro rata, ciò significa che l’ammontare pensionistico a loro dovuto fu
calcolato sulla somma delle retribuzioni conseguite sino a dicembre 1995 e dei contributi versati a
partire dal 1996 (art. 1.12); ai terzi infine fu assegnato esclusivamente il sistema contributivo (art.
1.6). La tabella 1.1 mostra in valori percentuali la lenta ma progressiva sostituzione del sistema
contributivo da parte del sistema retributivo.
Tabella 1.1 - Composizione delle pensioni in essere a fine anno
13
Sistema di computo dei trattamenti
Anno Retributivo Misto Contributivo Totale
2002 98,4% 1,6% 0,0% 100%
2005 96,6% 3,4% 0,0% 100%
2010 92,0% 7,7% 0,3% 100%
2020 71,1% 27,2% 1,7% 100%
2030 40,0% 51,9% 8,1% 100%
2040 17,9% 54,4% 27,7% 100%
2050 4,9% 41,4% 53,7% 100%
Fonte: Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato
9
Come è possibile osservare nei dati sopra riportati, le ricerche statistiche indicano il 2030 quale
anno in cui il sistema misto, basato su un calcolo pensionistico in parte retributivo ed in parte
contributivo, diventerà preponderante. Sarà tuttavia necessario attendere sino al 2050 per assistere
ad un netto incremento delle pensioni elargite su base contributiva. Gli effetti positivi del passaggio
da sistema retributivo a sistema contributivo non saranno quindi tangibili sino al 2030 - 2050.
Il secondo punto, la soppressione della pensione di anzianità e l’elasticità dell’età pensionabile, fu
trattato da più commi della riforma (art. 1, commi 19, 20 e 25): il testo prefisse, per la richiesta della
prestazione pensionistica, un innalzamento dell’età anagrafica a 57 anni associata ad un’anzianità
contributiva non inferiore a cinque anni, per la pensione di vecchiaia un’anzianità contributiva non
inferiore ai 40 anni e il graduale passaggio da pensioni di vecchiaia e di anzianità a sole pensioni di
vecchiaia. Come per la riforma Amato, questo innalzamento dell’età anagrafica e dell’età
contributiva fu connesso al progressivo miglioramento dello stato di salute nell’età anziana e
all’aumento della percentuale di popolazione che arrivava a tale soglia di anzianità.
Infine il legislatore prescrisse l’adeguamento del tasso di rendimento alle variazioni quinquennali
del Pil (art. 1.9), pertanto non più alle modifiche dei prezzi al consumo come stabilito dalla riforma
Amato, congiunto ad un innalzamento dell’aliquota contributiva al 32,7 per cento della retribuzione
lorda per i lavoratori dipendenti e al 20 per cento per quelli autonomi (art. 1.10), comportando in tal
modo una notevole scarsità di risparmio per i lavoranti. E’ necessario osservare che, secondo quanto
stabilito dalla riforma Dini, le rate pensionistiche non furono condizionate esclusivamente dalle
modifiche del valore del Prodotto Interno Lordo, bensì subirono anche l’imposizione di
adeguamento inverso alle aspettative di vita. Il montante individuale ebbe la funzione di parametro
per il calcolo della pensione. L’ammontare di quest’ultima non fu calcolata semplicemente in base
alla somma dei contributi versati: essa venne moltiplicata ad un coefficiente derivante dalla durata
media della vita. Come già illustrato in precedenza, la rata pensionistica è quindi destinata a ridursi
progressivamente nel corso degli anni.
Il passaggio da sistema retributivo a contributivo e l’adeguamento delle rate pensionistiche alle
aspettative di vita umane in costante crescita risultarono, da un punto di vista puramente finanziario,
assai validi ed efficaci in quanto permisero di ridurre notevolmente le spese previdenziali ed il
deficit creatosi nel corso dei decenni di stagnazione. Di fronte a noi si prospetta quindi un futuro
mercato del lavoro caratterizzato da una cerchia di popolazione attiva in continua espansione,
composta da un crescente numero di lavoratori anziani, come mostrato nella tabella 1.2.