II
Qui Leopardi avanza, in modo ancora embrionale, il principio che
troverà poi vastissima materia di trattazione nello Zibaldone, cioè le
contraddizioni esistenti sin dall’origine in natura, una natura che già
dai primordi tende a “danneggiare e a distruggere se stessa”.
Ciò basta a ridimensionare questa convergenza, tanto ingigantita da
certa critica, tra il sistema di natura leopardiano e quello rousseauiano,
e induce a smitizzare e a ridurre a più ragionevoli proporzioni la nota
formula scolastica di un pessimismo leopardiano dapprima storico e
poi cosmico, nonché l’idea imperante, nella storia novecentesca della
critica su Leopardi, di una duplicità di concezione della natura nel
poeta recanatese: dapprima quella provvidenzialistica di una natura
buona e poi quella materialistica, pessimistica e nichilista di una
natura “matrigna”.
Piuttosto, ad una presunta duplicità della concezione di natura,
sarebbe meglio sostituire, come suggerisce il Pelosi
4
, una duplicità di
genesi, in Leopardi, del concetto stesso di natura: mitologico-
rousseaiana, la genesi della concezione provvidenzialistica di una
natura benefica, con la quale l’uomo intrattiene una relazione salvifica
di reciproca corrispondenza, e materialistico-scientifica, quella
dell’interpretazione della natura come circuito meccanico di
costruzione e distruzione, volta alla sola conservazione della specie e
non al benessere o alla felicità dei singoli.
Da una concatenazione di queste due diverse impostazioni di pensiero
sulla natura, Leopardi approda ad un’originale conclusione.
Egli aderisce dapprima al principio preromantico-rousseauiano della
benevolenza della natura; poi, man mano che i suoi orizzonti culturali
si delineano chiaramente in senso razionalista e materialista, abbraccia
l’impianto mentale e scientifico dell’Illuminismo settecentesco, dal
sistema di natura di teorizzatori come Linneo e Buffon, al
materialismo disincantato di La Mettrie o D’Holbach.
Infine, non riuscendo a conciliare quei due diversi presupposti del suo
sistema di natura –come anime divergenti del settecento illuminista-,
ne fonde insieme gli aspetti negativi: dalla concezione mitologico-
rousseauiana della natura buona, trae un’antropomorfizzazione di
4
cfr. P. Pelosi, Leopardi fisico e metafisico, Federico & Ardia, Napoli, 1991, pp.159-172
III
questa nel senso di una madre-matrigna che non si avvede affatto del
della felicità dei mortali, e dalla impostazione scientifico-meccanicista
del sistema naturale, ricava l’idea desolante di un ciclo eterno e
meccanico di vita e di morte, dal quale la felicità individuale è
irrimediabilmente esclusa.
Insomma, come concluse il Pelosi, Leopardi va “dal mito alla scienza,
e successivamente, di nuovo al mito in una sorta di regressione
circolare che fa coincidere i due opposti: madre-matrigna, dal volto
«a mezzo tra il bello e il terribile».(…). Leopardi, così, rimitologizza,
invertendolo, il giovanile mito rousseauiano.”
5
In altri termini, Leopardi approda alla sua finale concezione della
natura adattando un habitus razionalista e scientifico ad un sentimento
irrazionale ed antropomorfo, come ricaduta in un individualismo
antropocentrico di segno opposto rispetto a quello che il poeta aveva
da sempre condannato.
L’uomo non è più il dominatore della natura o, stando alla definizione
del Rousseau dell’Emile, “il re della terra che abita”
6
, ma è la vittima
per eccellenza della natura. Questa inedita riantropocentrizzazione
leopardiana “non studia più i problemi dell’uomo, ma solo l’uomo
come problema.”
7
Sarebbe questa, dunque, la principale differenza di percorso tra
Leopardi e Rousseau nel loro tentativo di relazionarsi alla natura; ma,
di là dalle divergenze anche notevoli che incontreremo tra i sistemi di
natura dei due autori, il confronto qui sollecitato tra il pensiero di
Leopardi e quello di Rousseau servirà soprattutto a sgombrare il
terreno da una costante pregiudiziale: quella volta ad accusare la
riflessione zibaldoniana di Leopardi di una perpetua contraddizione e
di una scarsa sistematicità logica, quando queste gli derivano, invece,
da una certa tradizione mentale del ‘700 e degli autori ai quali egli si
era maggiormente avvicinato, compreso il Rousseau.
Una giusta valutazione del pensiero leopardiano, che per definizione
rifugge dal sistema pur aspirando ad una certa coerenza e organicità,
non può prescindere da questa influenza della riflessione critica del
5
P. Pelosi, Leopardi fisico e metafisico, op. cit., pp.169-170
6
J.-J. Rousseau, Emilio, a cura di P. Massimi, Mondadori, Milano 1997, p.376
7
P. Pelosi, Leopardi fisico e metafisico, op. cit., p.171
IV
‘700 illuminista, oscillante tra costruzioni utopistiche e applicazioni
pratiche, tra teoresi ed empirismo, tra unità e contraddizione.
Non tutti hanno rilevato a fondo che l’essenza dell’opera leopardiana
risieda nel ridimensionamento di un Illuminismo assunto e poi
rovesciato in termini assolutamente negativi, e che ritrovi i suoi punti
di forza nell’illusione, nell’apparenza, nella filosofia salvifica
dell’oblio (visto che la lucidità totale della coscienza conduce
all’infelicità), e infine nell’ironia che tutto dissolve: questo “perché
Leopardi si identifica interamente con la vicenda e il dramma della
più pura lucidità moderna.”
8
Il pensiero leopardiano scopre le più irrisolvibili contraddizioni della
natura, ma esso non è altrettanto contraddittorio, bensì aperto,
volutamente incompiuto, sempre all’inizio. Attraverso le sue modalità
espressive, esso acquisisce una significazione piena, un’incarnazione
reciproca tra idea e linguaggio.
Tra le modalità espressive adottate, l’”appunto” zibaldoniano, molto
più dei classici pensieri rivestiti e addomesticati da forme impeccabili,
lascia il pensiero aperto, vitale nella sua immediatezza e nelle verità
ed incertezze che suggerisce; è il frammento -come forma incompiuta
per eccellenza- a rendere il pensiero in apertura e in movimento
continui, un passaggio da una “filologia esteriore” ad una “filologia
interiore”, da “una funzione che è esercizio letterario” ad una
funzione che è “tessitura di un pensiero”, “anima di un pensiero”
9
.
La frammentarietà di scrittura non è un espediente per esonerarsi dalla
responsabilità delle proprie idee, ma è anzi il veicolo di realizzazione
di una profonda e costruttiva intenzione: perlustrare una realtà che non
può essere ricondotta a sintesi e dimostrare che l’unica verità sia in
fondo l’incertezza, l’assenza di un senso definito, la sospensione.
La circolarità della scrittura zibaldoniana consiste nella successione di
nuclei essenziali di pensiero che nascono soprattutto dalla soggettività
leopardiana e che cercano continue conferme nei contributi di altri
sistemi di pensiero.
8
M.A. Rigoni, Saggi sul pensiero leopardiano, Liguori, Napoli, 1985, p.112
9
S. Natoli- A. Prete, Dialogo su Leopardi. Natura, poesia, filosofia, Mondadori, Milano 1998, p.13
V
Leopardi e Rousseau appaiono accomunati anche
dall’autobiografismo della loro scrittura, benché relativamente limitati
di numero siano i pensieri autobiografici dello Zibaldone leopardiano
rispetto alla vasta mole delle Confessions o dei Dialogues
rousseauiani.
Per Leopardi, quest’autobiografismo sottinteso fu una forma metodica
di organizzazione e di esposizione del pensiero; egli guardò ai propri
problemi di pensiero come a problemi autobiografici, la cui trattazione
ed esposizione costituivano il racconto della propria stessa mente e
non delle proprie vicende biografiche, se non nella misura in cui
queste illuminavano i momenti di quel racconto essenziale: ed è
proprio questo il carattere essenziale dei pensieri direttamente o
allusivamente autobiografici dello Zibaldone. “E secondo queste
osservazioni si conosce come il filosofo non sia filosofo nella vita e
nelle azioni, s’egli non guarda se stesso e i fatti suoi come quelli degli
altri, se egli non si osserva dall’alto, come quelli degli altri, se
insomma non si spoglia dell’abitudine naturale di escludere se stesso
e i fatti suoi dalla dottrina generale degli uomini e de’ fatti del
mondo.”
10
Con un’implicita definizione della sistematicità, la perfezione del
pensatore è qui per Leopardi la capacità di mettere in gioco se stesso e
di autoriflettersi.
L’autobiografismo della scrittura rousseauiana, scaturito dall’intento
di analizzare il proprio io singolare, nella ricerca di un’immagine il
più possibile coerente della propria vita e della propria immagine, ha
spesso suscitato superficiali e fuorvianti analisi critiche da parte di
studiosi che videro in esso un fenomeno morboso, per quanto vissuto
con lucida consapevolezza ed espresso con straordinaria intensità di
forme.
Tuttavia, è proprio dalle pagine più strettamente autobiografiche che
bisogna partire per comprendere a fondo il messaggio globale
dell’opera di Rousseau, da quello pedagogico a quello politico, a
quello religioso, morale e sociale.
10
Zibaldone, op. cit., 1870, p.404
VI
Sottile è, infatti, in Rousseau la relazione che intercorre tra
autobiografia vera e propria e riflessione astratta, e costante è questo
trapasso dall’immediata reazione emotiva alla catarsi razionale da
parte di un filosofo come lui che, similmente a Leopardi, “sente”
prima di pensare e pensa per immagini, ma che è poi ossessivamente
volto alla ricerca di una soluzione razionale alle contraddizioni
esistenziali dalle quali si sente lacerato. E’ assente, invece, in
Leopardi tale riconduzione costante della propria soggettività alla
proposta di esempi o modelli morali e civili per la collettività.
Un’altra capitale differenza tra Leopardi e Rousseau sta
nell’individuazione del male e della contraddizione.
La contraddizione, per Leopardi, s’insidia nel sistema della natura,
disarmando l’uomo in vista di qualsiasi ottimistico tentativo o
desiderio di comprenderlo e gestirlo fino in fondo.
La natura regala all’uomo la ragione, lo strumento per fargli
comprendere che in fondo le sue contraddizioni sono insolubili.
La contraddizione è vista da Leopardi come un evento, come uno
stravolgimento totale della naturalità, costituito dall’insorgere di
un’opposizione fra pensiero e radici primarie dell’esistenza. Essa
coincide con una totale mutazione, con un passaggio dalla condizione
antica a quella moderna.
Se la mutazione è totale, l’immagine e l’esperienza del negativo che
essa porta con sé saranno altrettanto totali e radicali; ma a tale
negatività Leopardi reagisce in un primo tempo in senso fortemente
razionalistico, negando, cioè, la contraddizione in natura, e piuttosto
attribuendola storicamente al distacco della civiltà umana dal
fondamento naturale.
La volontà leopardiana di razionalizzare, ovvero di eliminare la
contraddizione, è condensata in un pensiero sul suicidio, del ’20: ”E
vidi come sia vero ed evidente che(…) l’uomo non doveva per nessun
conto accorgersi della sua assoluta e necessaria infelicità in questa
vita, ma solamente delle accidentali(…): e l’essersene accorto è
contro natura, ripugna ai suoi principi costituenti comuni anche a
tutti gli altri esseri (come dire l’amor della vita), e turba l’ordine
VII
delle cose (poiché spinge infatti al suicidio la cosa più contro natura
che si possa immaginare).”
11
Ma all’interno di questo tentativo “razionalizzante”, Leopardi sembra
già spingersi in direzione del tutto opposta: le due concezioni di
“natura”, benigna (ovvero priva di contraddizioni, anzi, organizzata
secondo una ragione non priva di connotati provvidenziali) la prima, e
matrigna (coincidente con la contraddizione stessa e, dunque, causa e
luogo della sofferenza umana e universale) la seconda, sono due
diverse interpretazioni dell’esperienza della contraddizione e della
condizione esistenziale che ne è derivata, quella di un Io che è venuto
a trovarsi in contraddizione con se stesso e con la propria natura,
attraverso una radicale “autocoscienza” che è all’origine stessa dell’Io:
l’”essersene accorto”, appunto.
Di conseguenza, come osservò acutamente il Colaiacomo, “l’Io è
‘antinatura’ e come tale difficilmente potrebbe essere senza una
percezione della negatività o contraddittorietà della natura. Qui è il
contenuto stesso dell’esperienza della «mutazione», esperienza che
resta di per sé invariata, quale che sia l’interpretazione che ne viene e
ne verrà fornita.”
12
Gli ultimi argomenti adoperati da Leopardi prima di arrendersi
all’evidenza e accettare la contraddizione del suo sistema di natura,
finiranno, attraverso deboli sofismi o contorti giochi di parole, per
dichiarare innaturale la natura stessa, conosciuta quale è in realtà: “la
natura forzatamente e contro natura scoperta e svelata non è più
natura, qual ella è”.
13
Nel ’24, il poeta appare chiaramente cosciente delle più assurde
contraddizioni del sistema della natura rispetto ad una piena
realizzazione dell’individuo: “E da altra parte la vita non è fatta che
per il piacere, poiché non è imperfetta la vita, perché manca del suo
fine, ed è una continua pena, perch’ella è naturalmente e
necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno
11
Zibaldone, op. cit., 66, p.41
12
C. Colaiacomo, Leopardi. Zibaldone di pensieri, in Letteratura italiana. Le Opere, a cura di A. Asor
Rosa, vol.3°, Einaudi, Torino 1995, p.242
13
Zibaldone, op. cit., 1412, 30 luglio 1821, p.323
VIII
di felicità, cioè di piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione
in natura?”
14
In questo modo la riflessione leopardiana chiude la propria parabola
attribuendo la contraddizione alla natura stessa: “cioè facendo
apparire l’impossibilità di concepirla come vera (anzi come vera e
benigna nello stesso tempo), come la massima e la più terrificante
delle verità.”
15
Per Rousseau, invece, l’indizio, se non la fonte del male, è posto nella
contraddizione, -in fondo al cuore dell’uomo- tra coscienza e passioni.
E’ proprio questa sensibilità viva alla contraddizione che spinge
Rousseau verso il tentativo di riconciliare il dualismo morale e sociale
dell’uomo verso il monismo fondamentale della coscienza e della
legge della volontà generale.
Così antropologia e politica sono esemplarmente congiunte: l’Emile
trova compimento in un’educazione politica e il Contrat social
presuppone, per converso, l’antropologia. D’altro canto, il duplice
tentativo di spiegare e superare la contraddizione, non può situarsi che
nel presente e nel futuro dell’Emile e del Contrat social e non certo
nell’innocente ma irrecuperabile passato del Discours sur l’inegalitè.
La matrice della contraddizione è per Rousseau l’angoscia della
lontananza, anzi dell’”allontanamento” doloroso dalla natura. Egli
non sceglie di affrontare tale lontananza sul piano strettamente
religioso, poiché ciò significherebbe il rischio di approdare alla non-
esistenza di Dio; la affronta invece sul piano sociale, il che equivale a
dire anche sul piano politico e morale, e così pone sistematicamente la
contraddizione a fondamento della teodicea che egli elabora su tale
piano.
E’ vero che per Rousseau ogni mutamento finisce per configurarsi più
o meno esplicitamente come una sorta di decadenza, tanto da conferire
al pensiero politico del ginevrino dei caratteri apertamente
conservatori. Ed è anche vero che lo stato di natura è esso stesso uno
stato di “deficienza”, tale che la caduta non ha luogo da un punto
molto elevato.
14
ibidem, 4087, 11 maggio 1824, p.826
15
M. De Las Nieves Muñiz Muñiz, Poetiche della temporalità. Manzoni, Leopardi. Verga, Pavese,
Palumbo,Palermo 1990, pp.183-184
IX
Così Rousseau s’impegna alacremente nella valutazione simultanea di
questi due possibili stati dei viventi, naturale come sociale, e delle loro
rispettive deficienze; egli è ben lontano da una riproposta concreta
dello stato naturale, ma tende comunque a comprendere come e
quanto lo stato di natura possa costituire le basi della realizzazione di
un positivo sistema sociale, politico, morale e pedagogico.
Pertanto, non sembra sussistere tanto contraddizione tra i due stati
quanto piuttosto diversità.
Lo stato di natura è un’armoniosa convivenza di tutti gli elementi
della natura, uomo compreso, contraddistinto dall’unica componente-
natura come organismo unico che, anzi, ritrova nella sua unitarietà la
sua perfezione, e dunque la sua possibilità di essere soggetto ad una
metafisica.
Lo stato civile e sociale, invece, è almeno preliminarmente una
situazione di radicale separazione tra individui umani come esseri
altrettanto radicalmente separati dalla natura; per questa assenza di
organicità ed unità, e dunque di perfezione, lo stato sociale
sembrerebbe del tutto esente da una vera e propria metafisica.
Tuttavia, per Rousseau, sopravvive nell’uomo (nell’uomo civile come
unico uomo di cui si abbia una conoscenza fondata) quel tanto dello
stato di natura che induce a tendere verso l’unità organica e quindi
verso la fondazione di una metafisica che abbia per oggetto tale unità.
Lo stato di natura, pertanto, con questa sua unità organica tra tutti gli
elementi della natura, diventa un modello della futura società virtuosa;
modello, beninteso, illuminante, ma inimitabile, visto che la situazione
di massima differenziazione cui gli uomini sono pervenuti con la
civiltà non è più revocabile.
Il progetto rousseauiano di “società virtuosa”, più che un ritorno vero
e proprio allo stato naturale delle origini, è un tentativo di realizzare la
componente naturale nella contemporanea condizione sociale, ovvero
un’approssimazione alla situazione di unità organica presente nello
stato di natura.
“Nello stato di natura, l’impronta del divino che si è ritratto, è un
vuoto che la natura intera tenta di colmare; nell’ambito dello stato di
X
civiltà quell’impronta segna innanzitutto l’uomo” e pertanto, nel bene
o nel male è” l’uomo che tenta di colmarla.”
16
Dunque, l’uscita dell’uomo dallo stato naturale è una caduta, non tanto
perché la società civile sia di per sé inferiore rispetto alla condizione
di natura, quanto perché l’uomo è passato dallo stato di natura a forme
sempre meno virtuose di società civile.
Se è vero che l’uomo naturale va dalle tenebre ai lumi della ragione,
non è meno vero che questi lumi giocano nella nostra storia un ruolo
ambiguo, nel quale il Discours sur l’inegalitè legge la corruzione e
l’Emile o il Contrat social scorgono invece la possibilità di
rigenerazione.
“L’uomo non è capace del meglio se non è nello stesso tempo capace
del peggio”, scrive Burgelin
17
, ed è solo in questo senso che Rousseau
parla di corruzione o decadenza, ossia di “male”.
L’uomo sfugge all’animalesca felicità naturale per affrontare le
responsabilità della propria volontà e coscienza, per diventare “uomo”
e per ritrovare una natura offuscata dal progresso, ma sopravvissuta in
noi sotto forma di appello alla felicità perduta.
Ma l’uomo può anche mancare questo movimento di progresso,
deviando verso la strada della corruzione e della depravazione. La
moltiplicazione dei suoi bisogni e la sua smodata avidità di superare
introducono il male sulla terra, il disordine in seno all’ordine
universale.
Dunque per Rousseau, che in questo sembra essere distante anni luce
dal “Tutto è male “ di Leopardi, il male viene dal di fuori e non dal di
dentro della natura.,
L’uomo può però benissimo distinguere la natura –non distrutta, ma
semplicemente offuscata ed opacizzata dal progresso-, e costruire su
di essa un’educazione che sia essa stessa un ordine.
Solo così egli manterrà sempre un vigile controllo del proprio
equilibrio, non tralasciando mai i richiami della propria coscienza,
quel principio innato di unità che comprende, giudica ed ama tutto
quel che la ragione propone, e che dirige infallibilmente verso la
16
F. Jesi, La metafisica profana di Jean-Jacques Rousseau, in AA.VV., Rousseau negli scritti, a cura di
M. Antonelli, ISEDI, Milano 1977, p.106
17
P. Burgelin, Fuori delle tenebre della natura, in AA.VV., Rousseau negli scritti, op. cit., p.116
XI
certezza metafisica che la natura e il bene dell’uomo dipendono da un
solo ed unico principio di ordine.
Come concluse il Burgelin, la fede incondizionata in tale principio
costituisce “il fondamento delle nostre speranze e la certezza della
nostra moralità (…), la certezza che nulla è mai interamente perduto,
che i pregiudizi e le abitudini non possono interamente soffocare una
voce che si farà udire quando sapremo far tacere le nostre
passioni.”
18
18
P.Burgelin, Fuori delle tenebre della natura, op. cit., p.120
CAP.1: LA NATURA LEOPARDIANA
INTRODUZIONE
Le due concezioni di natura in Leopardi:
il dibattito critico
Proprio l'impossibilità di dare una definitiva risposta all'interrogativo
"che cosa è la natura in Leopardi?", rende particolarmente
affascinante la ricerca leopardiana, perché impone il confronto con un
percorso di pensiero -per alcuni lineare e coerente, per altri
contraddittorio e labirintico- che attraversa l'intera opera del poeta, dal
giovanile apprendistato alla maturità filosofica, dalle forme liriche e
letterarie a quelle narrative e diaristiche, dalle elaborazioni concettuali
alle figurazioni mitiche, fantastiche e metaforiche.
La particolarità di questa meditazione leopardiana sulla natura, "che
procede per piccoli passi e ritorni, per intermittenze intrecciate
inscindibilmente con memorie e progetti, anticipazioni 'emotive' e
negazioni 'teoretiche'”, consiste per il Folin nel fatto che “essa si dà
nel suo farsi stesso, nelle anse e negli anfratti di un cammino
circolare sempre risalente al punto di partenza. In questa eterna
'ripetizione' della domanda”, precisa il Folin, “non ci troviamo di
fronte, tuttavia, a un tessuto linguistico 'mono-tono'”, visto che “la
tonalità, l''immagine', varia, e in questo variare essa porta con sé
nuove acquisizioni di verità, nuove conoscenze."
1
Questa natura è ora un concetto, ora un impulso, ora un'immagine
poetica: il "poetico" non è un'attribuzione che il soggetto assegna alla
natura, ma è un modo di essere della natura stessa. Lo stesso Leopardi,
in un pensiero dello Zibaldone del 1821 incentrato sull'elogio
dell'immaginazione, ci avverte che riflettere sulla natura, prescindendo
dalla poeticità con cui essa s'impone allo sguardo, significa mancarne
un aspetto essenziale: "Ora,(…)è manifesto che colui che ignora una
parte, o piuttosto una qualità una faccia della natura, legata con
qualsivoglia cosa che possa formar soggetto di ragionamento, ignora
un'infinità di rapporti, e quindi non può che ragionar male, non veder
2
falso, non iscuoprire imperfettamente, non lasciar di vedere le cose le
più importanti, le più necessarie, ed anche le più evidenti."
2
Infine questa natura assume ora implicazioni filosofico-teoretiche, ora
morali, ma sempre intimamente interconnesse; pertanto il Folin
conclude che "l'ascolto del testo non può prescindere dai due livelli,
ma deve mantenersi in una situazione di costante -precario-
equilibrio."
3
La natura è, insomma, vista da Leopardi in tutta la sua ampiezza e
nelle sue implicazioni dirette e indirette: ciò che basta a smitizzare, o,
almeno, a ridurre a più ragionevoli proporzioni, la famosissima
formula dei due pessimismi leopardiani -l'uno storico, e l'altro
cosmico-, applicata al principio del Novecento soprattutto da
Bonaventura Zumbini
4
,e destinata ad una straordinaria fortuna nella
storia della critica leopardiana e nei manuali scolastici, legati ancora
alla sopravvivenza di vecchi schemi.
Essa sarebbe nata proprio sulla base del mutato atteggiamento
ideologico di Leopardi rispetto alla natura, tanto che, intorno al 1935,
Giusso scriveva un saggio intitolato Leopardi e le sue due ideologie,
sostenendovi che "solo distinguendo rigorosamente nello Zibaldone
due ideologie separate e distanti l'una dall'altra, si possono evitare le
accuse di incongruenza e di contraddizione, ed anche le mezze
apologie e le mal rabberciate giustificazioni che si leggono del
Nostro. Spettacolo pietoso”, aggiungeva il Giusso, “è il vedere quasi
tutta la critica italiana, strologarsi ed eliminare l'antinomia esistente
fra l'elogio incondizionato delle illusioni e la riaffermazione solenne,
consegnata nella Ginestra, dell'utilità del 'verace sapere', cioè del
materialismo divulgato alle masse.”
Spettacolo pietoso era insomma “quello degli affettuosi apologisti,
affannati ad accumulare argomenti allo scopo di attenuare il
radicalissimo pessimismo finale, il quale non sarebbe poi così bieco e
cupo, se controbilanciato dalla giovanile fortificazione delle virtù
familiari e civiche di patria e d'onore. Spettacolo insignificante,
quello di studiosi illustri forestieri, come il Vossler i quali, per non
aver seguito la trama da noi indicata, ci modellano un Leopardi
3
giunto, fin dalle prime righe dello Zibaldone, al convinto ateismo
finale."
5
Infatti, il Vossler, dal Giusso criticato, scriveva che la natura "è
dapprima per lui una benigna madre dell'umanità, custode dell'età
dell'oro, nutrice delle belle magnanime e benefiche illusioni e delle
arti, amica dell'antichità greca, divinità della germogliante vita e di
ogni spontaneità, e sinanco unica verità senz'altro, e fondamento
dell'essere(…)Ma poi, a misura che dal suo infinito seno si staccano
le forze e gli esseri, l'istinto si eleva a ragione, la prima natura in una
seconda, il fanciullo a creatura sociale, la volontà di vivere a volontà
di conoscenza e di cultura; questo mondo nuovo e cosciente si
estrania dalla sua naturale e buona origine e(…)trascinato dal suo
proprio mito, Leopardi stesso si rivolge, critico e nemico, contro la
bellissima Dea. Egli ora la sviscera, trova contraddizioni, incertezza,
autodistruzione, crudeltà, indifferenza verso le sue proprie creature e
finalmente stupidità e abissale insensatezza nel suo grembo, una volta
così intimamente riverito."
6
Secondo Giusso, il passaggio, in Leopardi, fra queste due presunte
ideologie diverse, sarebbe un passaggio da un deismo franco-inglese
alla Locke e Voltaire ad un materialismo alla D'Holbach. La fase
deista sarebbe rintracciabile, oltre che nei primi tomi dello Zibaldone,
in poche Operette morali, che "galleggiano come oasi nell'inamabile
deserto pessimista"
7
; tra queste: la Storia del Genere umano,
incentrata sul mito delle epoche rozze ed ingenue, Il Parini, ovvero
della gloria, un analogo panegirico delle vigorose civiltà antiche
"secondo natura", il Dialogo di Cristoforo Colombo e Ramiro
Gutierrez, in cui l'infelicità umana sembra riscattabile attraverso la
temerarietà eroica e l'azione incessante.
Tale duplicità ideologica in Leopardi aveva trovato un'esplicita
confutazione già negli anni '40 del '900 in Giovanni Gentile, che non
amava la rigida distinzione in periodi: "Chi distingue nel pessimismo
leopardiano due fasi o forme, la prima di un pessimismo storico in cui
tutto il male è frutto dell' 'irrequieto ingegno' e dello 'scellerato
ardimento' degli uomini contro gli 'inermi regni della saggia natura
(di cui si parla nell' 'Inno ai Patriarchi'), e l'altra di un pessimismo
4
cosmico che fa gli stessi uomini vittime incolpevoli della immane
natura, si lascia sfuggire l'unità fondamentale dello spirito del Poeta,
dov'è, ripeto, il segreto della sua poesia: di quella dolcezza che ci
suona dentro alla lettura dei ‘Canti’ dal primo all'ultimo, e in forma
più palese e storicamente determinata, almeno nell'intenzione dello
scrittore, nelle 'Operette morali': dolcezza che vince, per così dire,
tutta l'amarezza che negli uni e nelle altre si riversa nelle più varie
forme dell'anima di quest'uomo, che fu certamente tanto grande
quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta onda della sua poesia
tutto il dolore del mondo, ma non per avvolgere il mondo stesso nella
tenebra della disperazione, anzi per illuminarlo coi raggi di
un'indomata fede nella vita con i suoi ideali e i suoi entusiasmi"
8
.
Questo brano sembra ricalcare fedelmente l'interpretazione idealistica
dell'opera leopardiana, nella quale viene privilegiata la personalità di
un Leopardi poeta dell'idillio, sostanzialmente negato all'impegno
ideologico e filosofico. Tale interpretazione, risalente alla lettura De
Sanctisiana dell'opera di Leopardi, sotto la specie esclusiva della
prospettiva estetica di marca romantica, appare piuttosto riduttiva
anche in senso quantitativo, perché costringerebbe a confinare gran
parte della produzione leopardiana -dallo Zibaldone alla Ginestra,
dalle Operette morali ai Paralipomeni e ai Nuovi credenti-
nell'insieme dei progetti non riusciti o falliti sin dalle intenzioni.
Tornando al nostro esame delle diverse implicazioni di "natura" in
Leopardi, conveniamo sul fatto che il poeta non abbia mai fornito una
definizione di natura totalmente decontestualizzata e che piuttosto nel
termine "natura" convergano più e più significati, rintracciabili fra la
componente poetico-paesaggistica, il vivente nel suo complesso, la
parte vitalisticamente biologica e istintuale dell'uomo contro quella
acquisita razionale e culturale, e un'onnipotente volontà che a tutto
presiede.
Circa quest'ultima accezione in particolare, la filosofia di Leopardi
soffre dell'oscillazione tra l'inclinazione benigna e maligna di questo
potere universale, oscillazione, forse, non tanto imputabile a
sconfessioni o ripensamenti, quanto piuttosto, come suggerisce il
Fubini
nel suo commento alle Operette morali, a stati d'animo diversi:
5
"Lo stesso dialogo leopardiano di cui si è tanto parlato (il "Dialogo
della Natura e di un islandese") e a cui è stato mosso l'appunto di
mancare di vera forza drammatica, si può comprendere quando non si
cerchi negli interlocutori un antagonismo di concetti e di caratteri,
ma si senta nello stacco delle battute piuttosto un valore lirico e
musicale che un valore drammatico.(…) Personaggi come il folletto e
lo gnomo, Torquato Tasso e il suo genio, non rappresentano certo due
opposte facce dello spirito leopardiano: bensì permettono al poeta
(…) di cogliere le sfumature del suo unico sentimento(…). Pochi
dialoghi di Leopardi si fondano su di un vero e proprio contrasto di
pensiero e di caratteri: sull'antagonismo iniziale, prevale, si sa, l'onda
del sentimento che si effonde nel discorso(…)
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": ipotesi, questa,
rispettabile, purché non la si collochi romanticamente entro la sfera
lirico- sentimentale, ma la si corrobori, invece, di tutte le implicazioni
ideologiche, psicologiche ed esistenziali in gioco.
Più equilibrata sembra la proposta del Severino, che, negando in
Leopardi il passaggio da un'iniziale concezione ad un'altra, magari
opposta, iscrive piuttosto il senso della natura leopardiana in un ordine
di considerazioni molto più ampio: "E' quindi inevitabile che il
pensiero di Leopardi finisca col vedere che la mancanza di colpa
della 'natura'( intesa come 'ordine naturale'), nell'accadimento del
'male', è irrilevante rispetto al 'male' in cui consiste l'accadimento
stesso in quanto tale, cioè il caso, il divenire senza perché della
'natura' che produce e distrugge infiniti 'ordini naturali'. Ed è
inevitabile che di questo 'male' primordiale (…), comprendente in sé
anche ogni male che accade nel 'sistema della natura', -il pensiero di
Leopardi finisca con l'incolpare il 'gioco' senza perché, il 'gioco reo'
dell'infinito divenire della 'natura'(…).Questi due sensi della
'natura'(…) non segnano due fasi contrapposte del pensiero di
Leopardi, ma sono essenzialmente intrecciate."
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Sia che si accolga la tesi di un passaggio vero e proprio da una
concezione a un'altra di natura, sia che si accetti una convivenza
pacifica tra l'idea di una natura buona e quella di una natura malvagia,
è innegabile la diversità di vedute con la quale Leopardi presenta la
natura a un lettore che, nell'Inno ai Patriarchi, coglie "contra il nostro
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scellerato ardimento inermi regni della saggia natura" (vv.110-112)
e, nel Dialogo della Natura e di un Islandese, teme questa "smisurata
di donna forma(…), di volto mezzo tra bello e terribile"
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,la quale non
si avvedrebbe affatto di un'eventuale estinzione della specie umana ed
è volutamente laconica di fronte alle angosciose domande del suo
interlocutore, fino a infliggergli direttamente la morte.
Si tratta dunque di due concezioni innegabilmente incompatibili,
riferibili a matrici culturali diverse (ad una lunga tradizione di
classicismo, la prima, e ad un impianto settecentesco, la seconda),
complicate dal confronto con la singolare figura rousseuiana, e da
esperienze biografiche ed obiettivi polemici sostanzialmente
differenziati.
Sergio Solmi, nell'intento di ridimensionare le incongruenze, imputa il
divario soltanto ad una semplice confusione terminologica da parte di
un Leopardi non professionalmente filosofo, il quale non fornirebbe
mai un'univoca definizione di natura, ma soltanto le determinazioni
relative al contesto in cui essa è introdotta, e che, da un certo punto in
poi, definirebbe 'natura' delle entità ('caso', 'fato', 'divinità') che
tuttavia nella sua mente restavano differenziate
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.
Se la precedente critica, appena esaminata, poneva le due ideologie
leopardiane in cronologica successione, il Solmi le considera
compresenti e nient'affatto in contraddizione, perché alludenti a due
esiti veritativi diversi: principio informatore, alla maniera illuministica
(da un lato) e ordine cosmico, alla maniera romantica, (dall'altro lato);
non esisterebbe, dunque, una vera e propria svolta a proposito dell'idea
leopardiana di natura, ma piuttosto un progressivo allargamento del
pessimismo dal mondo umano e storico all'intero universo dei
viventi.
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Questa distinzione sarebbe comunque priva di un saldo fondamento
epistemologico, dal momento che essa assumerebbe la propria vitalità
all'interno di un contesto poetico, e dunque in una zona della
conoscenza che poco aveva a che fare con la verità filosofica, e molto
con l'estetica letteraria. Lo stesso Solmi dichiara di essersi attenuto
principalmente a passi dello Zibaldone, e di aver tralasciato i Canti e
le Operette morali, "non altrettanto probanti, perché il pensiero
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leopardiano vi si trova ad uno stadio meno genuino, in quanto
maggiormente soggetto alle esigenze letterarie."
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Secondo il Solmi, l'idea della coesistenza pacifica delle due nature
veniva suggerita da alcuni passi dello Zibaldone posteriori agli anni
1823-27, cosiddetti della "crisi", in cui vi è un alternarsi delle
concezioni contrastanti senza un'apparente soluzione di continuità:
riaffermazione del carattere benefico della natura e attribuzione di
ogni responsabilità negativa al fato o alla civiltà, e riconferma della
funzione distruttiva della natura malefica; sicché fato e natura, (il che
equivale a dire natura innocente e natura colpevole), appaiono a volte
come elementi separati e antitetici, altre volte come sinonimi
perfettamente intercambiabili.
Così il Solmi si domandava: "che le pretese 'contraddizioni' non si
riducano, per Leopardi, ad una pura questione di terminologia?
Leopardi, anzitutto, non ci offre mai una definizione vera e propria
del concetto di Natura. Quanto pare certo è che la sua natura
provvidenziale, di derivazione rousseauiana, non coincide con la
totalità dell'essere, con l'integrità dell'Ordine cosmico, ma
rappresenta soltanto un principio informatore e finalistico di esso.
Esprime in pari tempo lo sviluppo vitale della sua spontaneità,
l'armonia originaria del vivente contrastata dalle deviazioni e
corruzioni apportate dalla ragione e dalla civiltà, e talora, parrebbe,
dalla distorsione degli stessi istinti animali.(…). ” La non coincidenza
di questa 'natura' con la totalità cosmica e il suo rappresentarne,
piuttosto, soltanto un principio informatore è per il Solmi “dimostrato
anche dal fatto che sovente Leopardi si adopera a scagionarla (…)
dai 'disordini nel corso delle cose'.(…) L'altra idea leopardiana della
Natura non è in contraddizione con questa, non ne rappresenta una
correzione o uno sviluppo, ma costituisce, piuttosto, il diverso
concetto di una diversa entità, che Leopardi avrebbe potuto benissimo
denominare altrimenti, evitando le apparenti contraddizioni logiche
che si riscontrano nel suo pensiero.(…)” Se poi questa entità assume
anch'essa in Leopardi il nome femminile di ‘natura’, “il perché di tale
denominazione(..) deve farsi risalire non certo a una ricerca di
concetto filosofico, bensì, essenzialmente, a una "ragione poetica".