2
Si è potuto constatare che le trasformazioni che di recente hanno investito il
sistema moda italiano hanno modificato e modificheranno i tradizionali
processi di comunicazione.
Un’analisi dei rapporti e dei paradigmi comunicativi tra i soggetti presi in
esame (produttore, distributore, consumatore e stilista) evidenzieranno
quanto il processo comunicativo non si esaurisca nel solo messaggio
pubblicitario, ma rappresenti una funzione primaria per tutta la filiera della
moda.
Attraverso una ricostruzione di come si articolano i diversi rapporti tra i
protagonisti e in cosa consistono le loro esigenze di comunicazione è
possibile identificare i punti di forza e di criticità nonché una
gerarchizzazione dei diversi strumenti di comunicazione, da quelli classici
a quelli più innovativi.
I risultati che si intendono raggiungere sono i seguenti:
- analizzare l'evoluzione del gusto del consumatore nell'ambito dei
prodotti-moda, confrontando le scelte effettuate nel decennio passato,
quello del "boom" della Moda, con quelle del decennio corrente;
- fare una "panoramica" sulle attività del marketing mix delle case di
Moda;
- analizzare come le diverse attività di promotion vengono impiegate
nell'ambito della comunicazione della Moda, soprattutto per quanto
riguarda la pubblicità, e più in particolare quella a mezzo stampa, che
sembrano essere l'una l'attività più utilizzata e l'altra il mezzo cui si fa
più frequentemente ricorso.
Proprio su alcuni annunci pubblicitari a mezzo stampa è stata svolta
un’analisi della presentazione degli stessi, suddividendoli in diversi
modelli rappresentativi.
A tal fine la tesi è stata strutturata in cinque capitoli:
3
Il primo relativo alla situazione attuale del sistema Moda, comprende una
panoramica sulla storia del settore tessile-abbigliamento, il quadro attuale
di tale settore ed una presentazione dell'immagine del Made in Italy
all'estero.
Il discorso relativo al consumatore-moda verrà invece trattato diffusamente
nel quarto capitolo; si sottolineeranno i motivi che guidano le scelte dei
consumatori-moda, le differenze fra gli atteggiamenti verso la Moda dei
giovani rispetto a quelli degli adulti.
La parte a cui si è inteso dare maggiore rilievo è quella relativa alla
comunicazione della Moda ed al suo modo di proporsi.
La strategia di comunicazione è analizzata nei suoi aspetti gestionali, con
riferimento al comportamento delle imprese contattate.
Un'attenzione particolare viene rivolta al rapporto con gli intermediari
commerciali, perché il trade è un tramite essenziale e perché la
comunicazione non si dirige solo al consumatore finale come si potrebbe
intuitivamente pensare.
Inoltre la dinamica degli investimenti pubblicitari suddivisi per tipo di
canale di comunicazione, ci consente di cogliere le differenti esigenze di
ciascuna categoria merceologica compresa nel vasto settore
dell'abbigliamento e le diverse opportunità offerte da ogni canale di
comunicazione.
Dalle statistiche che si riferiscono al sistema moda italiano oggi,
confrontate con quelle di qualche anno fa non può sfuggire la profondità
dei mutamenti che hanno investito il settore negli ultimi anni. Se il ruolo di
settore simbolo della produzione nazionale rimane inalterato grazie al
contributo costantemente positivo dato alla bilancia dei pagamenti, l’assetto
dell’intera filiera appare profondamente trasformato.
4
CAPITOLO PRIMO
IL SETTORE TESSILE-ABBIGLIAMENTO E IL FENOMENO
DELLA MODA
1. La nascita dell’industria tessile in Europa
Nell’Europa del XVIII sec., durante la Rivoluzione Industriale, l’industria
tessile svolse un ruolo di fondamentale importanza.
Da sempre, infatti, quello tessile è stato un settore industriale che ha offerto
notevoli vantaggi, legati al limitato investimento in capitale fisso iniziale.
Prima di arrivare all’industrializzazione vera e propria, quella che
comportò l’impiego di macchine e di processi lavorativi dotati di una certa
sistematicità, si è passati attraverso una fase di transizione che alcuni storici
economici hanno definito “proto-industrializzazione”.
Particolarmente diffusa durante questa fase è stata l’industria a domicilio,
che consisteva nel distribuire il lavoro tra diversi artigiani che lo
svolgevano rimanendo nelle proprie dimore ed erano padroni dei mezzi di
produzione che impiegavano. Ciò consentiva ai datori di lavoro di ottenere
notevoli economie, grazie alla divisione del lavoro in assenza di
investimenti in capitale fisso.
Non mancavano ovviamente gli svantaggi dovuti alla mancanza di controlli
di qualità e sulla quantità dei prodotti, fattori questi che, con l’aumento
della domanda, provocarono un aumento dei costi ed una contrazione dei
profitti.
Per ovviare a questi inconvenienti i datori di lavoro ricorsero al
raggruppamento dei lavoratori in grossi opifici. Ciò consentì di evitare
5
l’eccessiva atomizzazione del lavoro, per una maggiore regolarità ed un
migliore e più efficiente controllo del lavoro stesso.
Migliorarono in questo modo la qualità e l’uniformità del prodotto finito,
fattori che compensavano i costi sostenuti per gli immobili, per la direzione
e la sovrintendenza del processo produttivo.
Solo in questo stadio del processo di industrializzazione si ebbe
l’introduzione delle macchine. Questa fase fu di particolare importanza in
quanto divenne più semplice ottenere prodotti con una certa uniformità;
tuttavia la sua influenza positiva si esplicò solo nel caso di merci che
avevano già mercato, l’applicazione delle macchine azionate da una forza
motrice all’industria divenne rivoluzionaria soltanto quando servì a
produrre merci per un mercato che esisteva già, o che stava sorgendo in
seguito alla caduta dei costi di produzione e dei prezzi
1
.
Nel settore tessile l’introduzione di macchine segnava veramente una
svolta: il mercato dei prodotti semilavorati, come filati e tessuti, o dei
prodotti finiti, come le maglie, che conosceva un certo sviluppo già con
l’industria a domicilio, con l’introduzione delle macchine iniziava un
“nuovo capitolo”.
Tale sviluppo, in Gran Bretagna, avvenne in modo graduale e si
caratterizzò per la complementarità nei diversi settori industriali. Tutto ciò
la portò ad elevarsi dal punto di vista tecnico ed organizzativo rispetto al
resto dell'Europa.
Tuttavia questo distacco è stato rilevante a livello quantitativo ma non
qualitativo. Ancora non esisteva un’industria dei beni strumentali: anche
nell’industria tessile le macchine che erano impiegate nel processo
produttivo erano semplici, tanto da poter essere realizzate sul posto da
operai qualificati.
6
Solo con la creazione di un mercato dei macchinari per l’industria tessile, le
macchine a vapore, ci si orientò verso la produzione in serie.
Questo processo ebbe luogo soprattutto in Gran Bretagna; la situazione nel
resto dell’Europa era diversa a causa del persistere delle guerre e dei forti
legami con l’agricoltura.
La Gran Bretagna, inoltre, si creò un vasto impero coloniale che costituì sia
la fonte delle materie prime impiegate nelle industrie inglesi, sia un
mercato di sbocco per i prodotti finiti, non venduti nel Continente.
D’altra parte, la netta inferiorità dei Paesi europei che alla fine del XVIII
sec. erano ancora impegnati in una guerra e quindi vedevano le proprie
risorse impiegate in attività meno produttive rispetto a quanto avveniva
oltremanica, portò all’applicazione di un regime protezionistico (soprattutto
in Francia e Germania), contrapposto al libero scambismo britannico.
Questa scelta però non bastò da sola a controbilanciare la superiorità
dell’industria inglese.
Più opportuna si rilevò, invece, la scelta di coloro che, accettata l’egemonia
della Gran Bretagna in determinati settori come la produzione di fibre
tessili a basso prezzo, cercarono di spostare la propria attenzione verso
settori in cui vantavano o potevano agevolmente raggiungere un certo
vantaggio, come il settore dei beni di qualità superiore. Per realizzare ciò,
gli imprenditori dell’epoca si orientarono verso un più elevato livello della
qualità e delle finiture e verso un maggiore assortimento, oltre a prestare
una certa attenzione all’evolversi delle mode.
In questo, la Francia si distinse nettamente: essa riuscì a raggiungere e a
mantenere una posizione prioritaria nel campo delle produzioni di qualità e
di lusso. Fu esportatrice di manufatti raffinati, provenienti da piccoli
laboratori e destinati ai consumatori delle fasce più alte di reddito.
1
T. Kemp, L'industrializzazione in Europa nell'800, Il Mulino, Bologna, 1988, p.34.
7
In conclusione nell’Europa del XIX sec. si presenta una netta divisione
internazionale del lavoro: da una parte un’industria per prodotti durevoli di
massa, a bassi costi unitari (quella del Lancashire) rivolta a mercati lontani,
soprattutto quelli produttori di materie prime; dall’altra l’industria dei beni
di alta qualità (quella continentale), ed in particolare quella francese, di tipo
più artigianale, che si indirizzava a mercati di più elevato reddito.
1.2 I primordi dell’industria tessile in Italia
Parlare di industrializzazione nell’Ottocento in Italia è difficile, il nostro
Paese, infatti, superò le divisioni al suo interno solo nel 1860.
Di conseguenza l’industrializzazione in Italia è stato un fenomeno che si è
manifestato in tempi successivi rispetto agli altri Paesi europei.
I problemi relativi all’unificazione dei diversi Stati preunitari non
costituivano l’unico intoppo all’industrializzazione. Si trattava, soprattutto,
di un problema di cultura economica e politica: l’Italia era ritenuta dalla
nobiltà fondiaria e dalla borghesia terriera una Nazione fondamentalmente
agricola, i cui interessi erano rivolti alla rendita agraria o alla domanda
estera di beni agricoli.
L’unica industria che presentava una certa consistenza era quella tessile,
anche se la maggior parte della manodopera era costituita dalla popolazione
rurale sottoccupata, disposta a lavorare per delle remunerazioni basse.
L’industria della seta era concentrata soprattutto in Lombardia, Piemonte,
Veneto; tuttavia essa non era ancora in grado di passare dalla materia prima
al prodotto finito, attraversando un ciclo di produzione integrale: non
andava infatti oltre l’ottenimento di seta greggia ed organzini, che venivano
per la maggior parte esportati.
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Simile era la situazione dell’industria laniera, ad eccezione delle zone di
Biella e Vicenza, dove lo sviluppo di tale industria era ad un livello
apprezzabile grazie alle iniziative di alcune dinastie imprenditoriali che già
dalla seconda metà del secolo precedente avevano indirizzato i propri
investimenti all’attività industriale invece che alla gestione di terre, al
prestito di denaro o al commercio. Furono introdotte innovazioni tecniche e
si pervenne ad una parziale meccanizzazione degli impianti.
Rimasero in ogni caso dei problemi: la concentrazione della manodopera
nella fabbrica non era molto diffusa ed era contrastata dai tessitori stessi;
inoltre la produzione era “polverizzata” in numerosi articoli e le
disponibilità finanziarie dell’azienda si basavano solo sulle ristrette risorse
dei gruppi familiari che, dal canto loro, erano restii a trasformare lo statuto
finanziario delle imprese. La concorrenza straniera era notevole e l’unico
mezzo per contenerla era il protezionismo doganale.
La stessa realtà si presentò per l’industria cotoniera che, rispetto alle
precedenti, presentava un maggiore sviluppo: più forte era la
concentrazione della manodopera come le risorse tecniche e finanziarie
impiegate.
Nonostante ciò la produzione “italiana” di cotone non era competitiva né
per qualità, né per prezzo, distaccata come era dal grado di
meccanizzazione della Gran Bretagna.
Gli albori dell’industria tessile italiana quindi non furono dei più rosei;
l’industria presentava infatti problemi a livello di meccanizzazione, di
organizzazione, di finanziamenti e, come per le altre industrie del Paese,
problemi a livelli politico.
L’industria dell’abbigliamento italiano nacque ed ebbe i primi sviluppi a
partire dal decennio del 1870 ed i centri propulsori dell’industria a livello
di confezione furono Milano e Torino.
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Tale concentrazione era legata ad alcuni fattori:
• la presenza in tali centri della più antica industria tessile;
• il carattere prevalentemente cittadino dei consumi di capi pronti di
abbigliamento;
• la disponibilità nell’area urbana di manodopera femminile specializzata.
In origine l’industria dell’abbigliamento si distinse per prodotti di qualità
più che per la quantità.
Con gli inizi del nostro secolo, col progredire dell’industrializzazione e
dell’inurbamento, si crearono i presupposti per una crescita del mercato di
prodotti di abbigliamento pronti, come era già accaduto in Francia ed in
Inghilterra.
La produzione però restò limitata ai capi più semplici fino alla Seconda
Guerra Mondiale: biancheria maschile e camiceria (considerata parte
dell’intimo), cappotti, soprabiti, impermeabili.
Alla fine degli anni Quaranta inizio anni Cinquanta l’industria
dell’abbigliamento iniziò una sorte di diversificazione del prodotto, delle
tipologie fisiche e del contenuto moda, specie per l’abbigliamento
femminile.
Si ricorse a nuove tecniche di produzione e si fece ricorso a tecnici
provenienti dagli Stati Uniti, iniziando così la produzione di massa di
pantaloni, giacche ed abiti da uomo e, in seguito, di gran parte del
guardaroba femminile.
10
2. La nascita della moda italiana e l’evoluzione del Made in Italy
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’industria italiana, che già non
era particolarmente competitiva prima del conflitto stesso, faticò a
riprendersi.
Nel 1946 la capacità produttiva degli impianti era sfruttata solo per il 50%.
Causa di questo ritardo era la difficoltà di approvvigionamento dei tessuti,
oltre, ovviamente, al minore assorbimento della produzione.
La confezione in serie non aveva ancora avuto piena diffusione: il 90% dei
consumi era assorbito dalla produzione sartoriale. Solo alla fine degli anni
Quaranta si passò a questo tipo di produzione.
Dagli Stati Uniti vennero chiamati dei tecnici della confezione, per
presentare nelle più affermate imprese le metodologie più avanzate di
organizzazione del lavoro.
Tutto ciò consentì un miglioramento del livello qualitativo della
produzione, specie nell’abbigliamento maschile.
E’ nel 1952 che ebbe luogo l’avvenimento che segnò l’inizio della Moda
italiana: la sfilata alla Sala Bianca di Palazzo Pitti, organizzata da Giovanni
Battista Giorgini con l’intervento di un pubblico internazionale, tra cui
molti buyers americani.
Firenze rimarrà capitale della Moda italiana fino al 1965, dopo di che
avvenne la scissione: Alta Moda a Roma e prêt-à-porter a Milano.
Il made in Italy, così come lo conosciamo oggi, è una realtà piuttosto
recente: essa deriva dall’unione tra l’industria italiana dell’abbigliamento e
la collaborazione degli stilisti, unione avvenuta verso la fine degli anni
Sessanta, cioè nel momento in cui iniziò la crisi dei consumi di massa,
legata ai movimenti ideologici di quegli anni.
11
Con gli anni Settanta la tensione sociale in Italia si acuisce, ha così inizio
un processo di deterioramento della produttività industriale in tutti i settori
e, nel settore dell’abbigliamento, si modificano i consumi di vestiario:
acquistano sempre maggior diffusione fra i giovani gli indumenti di tipo
informale, semplici, dai costi contenuti.
D’altra parte a livello di consumo diventa particolarmente evidente un altro
fenomeno: il passaggio dalla sartoria all’industria è praticamente ultimato.
L’insieme di questi due fenomeni ha i suoi risvolti sull’industria della
confezione in serie, specie per quanto riguarda l’abbigliamento
tradizionale.
Nel decennio che va dal 1976 al 1985 ebbero luogo i cambiamenti più
sostanziali e le innovazioni più consistenti a livello produttivo, come il
decentramento produttivo e lo sviluppo dell’esportazione. E’ in questo
periodo che ha inizio il fenomeno del “Made in Italy”.
L’avvento degli stilisti costituì per i produttori la soluzione alla crisi del
settore iniziata verso la fine degli Sessanta con la crisi del consumo di
massa.
In realtà anche negli anni Sessanta esistevano delle forme di collaborazione
stilistica, ma è il massiccio sviluppo che caratterizza il decennio successivo
a segnare una svolta significativa.
L’accordo tra il Gruppo Finanziario Tessile - GFT e Giorgio Armani ebbe
luogo nel 1979 e fu il primo contratto di licenza stipulato in Italia.
Inizialmente riguardò un prêt-à-porter femminile intermedio, ma dato il
successo dell’iniziativa, tale proposta venne estesa alla produzione uomo.
Il “segreto” di questa forma di collaborazione consisteva nell’aggiungere
un “qualcosa in più” alla produzione industriale, praticamente come
avveniva agli inizi del secolo per "l’industrial design", conferendo un
aspetto più gradevole e ricercato alla produzione.
12
D’altra parte il momento storico agevolò questo successo in quanto dal ‘75
si sviluppò la fase cosiddetta di restaurazione dopo le istanze libertarie e di
contestazione che avevano caratterizzato i dieci anni precedenti. L’interesse
personale si sposta dalle ideologie ai valori personali
2
Segue un periodo che potremmo definire di “boom della moda”: “è di
moda essere di moda”.
L’elemento fondamentale da tenere presente è che tutto questo processo è
stato reso possibile grazie all’appoggio delle industrie già affermate, dato
che finanziariamente non sarebbe stato possibile per gli stilisti
intraprendere dal nulla produzioni industriali, caratterizzate da una certa
qualità del prodotto.
Con l’affermarsi dei grandi nomi dello stilismo italiano, col diffondersi
della cultura delle firme, si instaura un processo per il quale il gusto del
consumatore si affina: si ricerca la qualità dei capi anche quando non si
acquistano le “griffes”, con evidenti risvolti sull’abbigliamento non
firmato.
2.1 L’immagine della moda italiana all’estero
Il vissuto del made in Italy è stato studiato da parte di Mc. Cann-Erickson
Italiana nell’ambito del “Progetto Globale di Promozione della moda
Italiana in Giappone, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania,
Spagna” commissionato nel 1994 dall’Istituto per il Commercio Estero,
dalla Federtessile e dalla Federpelle.
Vediamo in dettaglio quali sono i risultati di tale ricerca.
2
A. Bucci,L'impresa guidata dalle idee, Electa, Milano, 1992, p.60
13
Giappone
La moda italiana rappresenta “il polo di attrazione più significativo nel
mercato dell’abbigliamento ed accessori”
3
.
E’ considerata superiore a quella americana ed in contrapposizione a quella
francese, che appare troppo tradizionale, specie nella fascia giovane della
popolazione.
Dal punto di vista del consumatore la moda italiana è superiore per:
- scelta di accostamenti di colori e materiali;
- design;
- vestibilità facile e moderna;
- originalità/distintività,
anche se il prezzo è elevato rispetto alla concorrenza.
L’operatore commerciale riconosce la remunerabilità della moda italiana,
oltre ovviamente a tutti i pregi riconosciuti dal consumatore.
Esprime le proprie riserve su:
- qualità;
- rifiniture;
- stagionalità/consegne;
- rispetto degli accordi.
Nel confronto con la moda europea la moda italiana:
- rispetto alla maglieria inglese, è migliore solo a livello estetico; la qualità
ed il prezzo rendono il prodotto inglese preferibile;
- è meno conveniente rispetto alla produzione tedesca;
- per la produzione di articoli in pelle è la migliore insieme al Belgio;
- a livello di notorietà, sta per offuscare quella delle griffes francesi;
- a livello di calzature è nettamente superiore a tutti i concorrenti.
3
Mc Cann-Erickson Italiana, Progetto globale di promozione della moda italiana in sei paesi, Milano,
1994
14
Stati Uniti
Il made in Italy è considerato eccellente, specie per ciò che concerne:
- bei tessuti;
- buona lavorazione;
- design e creatività;
- rapporto prezzo/qualità, pur essendo il prezzo molto elevato.
Il prodotto francese, dotato di un contenuto moda superiore rispetto a
quello italiano, è molto caro, quindi riservato ad una ristretta élite.
In generale i consumatori americani preferiscono la moda italiana a quella
francese, americana ed inglese, per qualità, stile e design, ma riconoscono
allo stesso tempo che è molto costosa.
Francia
Il consumatore francese considera migliore il prodotto italiano per:
- materiali;
- taglio;
- ampia scelta dei colori;
- innovazione;
- rapporto qualità/prezzo,
anche se i prodotti sono più cari rispetto a quelli degli stilisti francesi.
Anche il giudizio degli operatori è positivo su questi fattori.
In generale i francesi non ammettono la perdita del ruolo di leader nella
moda.
15
Gran Bretagna
Vengono riconosciuti i caratteri di raffinatezza e classicità alla moda
italiana, anche se è sempre molto radicato il vissuto emozionale della moda
francese.
La moda classica nazionale viene difesa, anche se quella italiana, pur
essendo molto costosa, viene acquistata perché la qualità è veramente
superiore.
Il prodotto ha un elevato contenuto moda, ma non è molto commerciabile,
contrariamente a quello tedesco che è invece più adeguato alla
commercializzazione. A livello di distribuzione, si distingue fra piccole
case di moda, che non presentano una grande affidabilità, e grandi case,
considerate invece eccellenti da questo punto di vista. Peraltro è lamentata
qualche carenza dei produttori nazionali nelle consegne e nella qualità.
Germania
Per il consumatore tedesco il prodotto italiano è caratterizzato da valenze
moda, bei colori e disegni, articoli di qualità.
Dal punto di vista della distribuzione il prodotto italiano è riconosciuto
superiore per:
- valenze moda;
- attualità dei colori;
- articoli di attualità;
- equo rapporto qualità/prezzo,
ma è criticato per
- qualità (standard e costanza);
- durata/affidabilità;
- servizio;