In che misura la gravità e la dimensione della crisi fossero da ritenere conse-
guenze della prima guerra mondiale è stato un argomento molto discusso, sulla
base di diverse opinioni relative alla natura stessa della depressione. Alcuni
hanno attribuito la sua virulenza agli squilibri di base degli anni venti, altri
hanno ritenuto che all’ inizio, la Crisi del ‘29, si presentasse sostanzialmente
non dissimile dalle altre recessioni, ma venisse aggravata da una particolare re-
azione dei principali governi, altri ancora hanno visto sia la guerra che la gran-
de crisi come sintomi di un “malessere” di fondo che poteva far esalare l' ulti-
mo respiro al capitalismo mondiale.
Parzialmente diversa è la questione della cosi detta “natura economica del fa-
scismo”, strettamente legata a quella delle caratteristiche della politica econo-
mica del regime; nella mia analisi, talune conclusioni in merito, emergono piut-
tosto chiaramente. A parte i nodi economici relativi all’origine della dittatura,
che vengono parzialmente esaminati, il quadro economico generale che emerge
presenta vistosi chiaroscuri accanto a numerose aree grigie, ed è, dunque, di
non agevole lettura a causa delle difficoltà del periodo.
Gli anni di De Stefani costituiscono, dal punto di vista delle politiche economi-
che fasciste, un tentativo di riagganciarsi all'età giolittiana; le differenze che e-
sistono tra i due periodi sono, ovviamente, dovuti alla eredità della guerra ed
alle mutate condizioni internazionali. Quota 90 costituisce un importante mu-
tamento di rotta ed influenza la politica del decennio successivo e coincide
cronologicamente con analoghi processi di “stabilizzazione” non solo moneta-
ria posti in atto in tutta Europa. Ho anche analizzato i provvedimenti adottati
da Volpi, ministro delle finanze, subentrato a De Stefani,, e le politiche di sta-
bilizzazione della lira che portarono alla cosiddetta “battaglia della lira” così
definita da Mussolini.
La Grande Crisi, di inaudita violenza, che imperversò dal 1929 al 1932, travol-
gendo le economie di ogni paese, compresa quella italiana, ha messo in evi-
denza la scarsa capacità della politica economica italiana di fornire risposte in-
novative alla “sfida” posta dalla nuova situazione economica generata dalle
devastazioni della prima guerra mondiale e mai sanata completamente nel de-
cennio successivo, a causa della discordia internazionale, causando un fulmi-
neo “crollo dei prezzi”. Le industrie di ogni sorta dovettero sospendere la pro-
duzione, generando così il fenomeno della “disoccupazione” caratteristica
principale di questo periodo.
Dopo il 1931, si fa più palese il contrasto tra quanto avviene in Italia ed i fer-
menti innovatori emergenti in alcuni paesi a capitalismo più avanzato.
Durante la mia analisi ho evitato di parlare di una economia fascista come tale,
e resta il dubbio che essa possa venire chiaramente individuata; ad ogni modo,
se ci si riferisce al controllo forzoso del mercato del lavoro con i metodi rudi
della dittatura e se ci si accontenta di questa caratteristica, è probabile che si
possa anche parlare di una economia fascista in quanto tale.
Come ho messo in evidenza, il regime fascista non fece alcun tentativo di iso-
larsi dalla “deflazione” internazionale, nemmeno quando ne uscì la Gran Bre-
tagna nel settembre 1931 o gli U.S.A. nel 1933; gli interventi si concretizzaro-
no in una più attiva politica di spesa pubblica con l’aumento delle opere pub-
bliche. Altro aspetto che la crisi mise in evidenza fu la debolezza strutturale
dell’ intero sistema bancario italiano, il quale attraversò grandi difficoltà eco-
nomiche e finanziarie e riuscì molto lentamente a superare le conseguenze
dannose della crisi dovute in gran parte ai legami con l’industria italiana, che fu
pesantemente colpita.
Il nostro paese continuò il suo processo di Industrializzazione, iniziato ai primi
del novecento, ma come ho osservato tale processo si svolse per altre vie, pro-
babilmente diverse da quelle che ci si sarebbe potuto aspettare. I processi di
crescita economica si misurano sul lunghissimo periodo: venti anni sono trop-
po pochi per poterli modellizzare adeguatamente; è indubbio che il livello di
sviluppo italiano all’alba della prima guerra mondiale era assai insoddisfacente
e si era allontanato rispetto agli U.S.A., alla Francia, alla Germania; la storia
ha insegnato che non solo gli inizi possono essere assai sfasati, ma che i fattori
che decretano il primato di un paese in una certa fase di crescita possono anche
determinarne il rallentamento in una altra fase e viceversa.
Particolare attenzione, anche se marginale, è stata dedicata alla politica di in-
tervento la quale ha raggiunto risultati largamente positivi quando l'assetto del
paese era sufficientemente solido e quindi in grado di fornire precisi punti di
riferimento agli operatori e di concedere loro tempi sufficienti, perché la ge-
stione imprenditoriale potesse integrarsi con la politica degli investimenti dello
Stato. Molto breve è stato il periodo di consolidamento dei nuovi enti creati
nel periodo descritto: sono stati necessari quattro anni dal 1925 al 1929 per
condurre a termine le trasformazioni che hanno determinato la costituzione
della Banca Nazionale del Lavoro, ed altri quattro anni dal 1933 al 1937 per
dare all’I.R.I. una struttura pressoché definitiva.
La maggiore rapidità di queste realizzazioni è da ricondursi ai “vantaggi della
dittatura” (ma sono in realtà i vantaggi della stabilità economica), al punto che
l’imposizione dall’alto rese più facile il superamento di molti ostacoli.
CAPITOLO PRIMO
Situazione economica dell'Italia prima della crisi ed i fattori economici che
la determinarono.
Par. 1.1 CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA PRIMA GUERRA
MONDIALE ED AVVENTO DEL FASCISMO.
La storiografia economica
1
che ha considerato le tappe dello sviluppo italiano
e la caratteristica
del processo di industrializzazione che si andò concretizzando nella penisola
dopo il raggiungimento dell'Unità, non ha mancato di rilevare come tra le cause
del ritardo, con cui nel nostro paese quel processo si avviò e proseguì
attraverso sentieri aspri e tortuosi, andasse considerata anche la carenza di
spirito e capacità imprenditoriale. Scarsa attenzione e stata però riservata, in
sede di ricerca, dagli storici dell’economia, salvo rarissime eccezioni, al
problema della formazione del ceto imprenditoriale e allo studio della funzione
che esso ha di fatto svolto nel processo di sviluppo economico del nostro
paese.
L’intervento pubblico nell’ economia italiana, con l'utilizzo dei due strumenti
classici di politica economica, fiscale e monetaria, ha avuto nel suo
svolgimento alcune caratteristiche particolari.
Lo Stato e la Banca furono i due protagonisti, che lavorando in coppia,
assicurarono il funzionamento del meccanismo accumulativo, soprattutto è
nella seconda metà del periodo giolittiano che si registrano le prime forme di
intervento pubblico nel senso più completo del termine.
Si tratta di interventi, che, interpretando in modo pragmatico esigenze politico -
sociali sempre più pressanti nel paese, portano a dotare lo stato e la pubblica
amministrazione di più incisivi strumenti di sviluppo economico; vengono
creati nuovi meccanismi di politica monetaria e creditizia, la politica dei
1
A. Mortara, I Protagonisti dell’Intervento Pubblico, pg. 11
trasporti viene razionalizzata con la statizzazione delle ferrovie, ed infine lo
stato si pone tra i suoi compiti primari quello di avviare a soluzione i problemi
della agricoltura attraverso l'impostazione di un piano di bonifica integrale,
così come i problemi del mezzogiorno furono affrontati in modo specifico
attraverso la legge per la Industrializzazione del napoletano.
La politica di Giolitti aveva un’attenzione alle classi lavoratrici, avendo
istituito le assicurazioni contro l'invalidità e la vecchiaia ed una legislazione
regolatrice del lavoro per le donne e i bambini; cercò di proteggere
energicamente l'emigrazione la quale, in seguito al forte incremento
demografico degli ultimi anni aveva raggiunto, soprattutto nel mezzogiorno,
cifre imponenti ( nel 1913 emigrazione temporanea 313.000; quella
permanente di 559.500 ); favorì con una politica protezionistica il progresso
della borghesia e la formazione della grande industria (Milano –Torino –
Genova ) e curò il miglioramento delle finanze, riducendo a tre sole le banche
di emissione (Banca d’Italia, Banco di Napoli, Banco di Sicilia).
Sicuramente l'intervento dello Stato fu determinante con lo scoppio della prima
guerra mondiale, la prima guerra moderna che vide uno sviluppo della
potenzialità produttiva dei paesi belligeranti, che cambiò l'intero sistema
economico italiano. L'apparato industriale del nostro paese in quel periodo era
arretrato, e non aveva facilità di produzioni belliche come gli altri paesi
europei.
Quando nel maggio del 1915 l'Italia entrò in guerra
2
, l'apparato statale si
dovette quindi impegnare in un grosso sforzo non solo di finanziamento, ma
soprattutto di propulsione della produzione bellica, di reperimento e
allocazione delle risorse non disponibili sul territorio nazionale.
2
V. Zamagni, Dalla Periferia al Centro, ed. Mulino, Bologna 1990 pg. 266 - 70
Come si può osservare ( tab. 1.1), il costo economico che lo Stato italiano
dovette sostenere fu elevato, si trattò di una guerra in cui tutta l’economia
venne coinvolta, si arrivò a spendere per essa 1/3 dell’intero reddito nazionale
nel 1917-1918.
Tab. 1.1 Costo della guerra, 1914 – 1923 .
Anni (1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9)
1914 5, 9 92 2687 100 15 , 8 ------ 58 , 8 28 13, 2
1915 18, 3 48 4443 165 18,4 ------ 51,1 29,9 19,0
1916 27, 3 31 5352 199 23,3 2, 7 40,8 39,6 19,6
1917 33, 1 29 7180 267 32,3 6, 8 50,9 22,1 27,0
1918 33, 1 32 11915 443 46,9 13, 9 49,2 16,6 34,2
1919 24, 8 38 14171 527 58,1 22, 3 39,5 18,1 42,4
1920 17, 0 56 19808 737 76,9 27,0 55,0 11,3 33,7
1921 19, 1 69 20028 745 84,5 31,1 51,4 12,1 36,5
1922 10, 2 64 19529 727 91,2 32,9 47,3 12,7 40,0
1923 3, 9 67 19375 721 94,2 34,0 45,4 15,8 38,8
Fonte: V. Zamagni, Dalla periferia al centro, pag. 267 (1) = Spese di guerra in %del P. i . l .; (2) = Entrate statali
come copertura; (3) = Circolazione cartacea; (4) = n. indice di (3) 1914 = 100; (5) = debito interno; (6) = debito
estero; (7) = consolidato; (8) = redimibile; (9) = fluttuante.
Le tre fonti di finanziamento furono i tributi, la circolazione monetaria, il
debito pubblico.
Per quanto riguarda i tributi, ben poco si riuscì a fare durante la guerra; il
disavanzo del bilancio dello stato aumentò vertiginosamente, l’Italia risultò
l’unico paese che non utilizzò questo strumento di politica economica. Essendo
lo strumento fiscale di scarsa entità, fu dunque sullo andamento della
circolazione monetaria e sul debito pubblico che si andò a ribadire
maggiormente l'onere del finanziamento della guerra.
La circolazione monetaria cartacea quadruplicò durante gli anni bellici, ma
continuò a crescere anche nel 1919/20. La maggior parte degli economisti ha
ritenuto sbagliato l’uso di questo strumento in quanto fonte inevitabile di
inflazione e di deprezzamento del cambio come si può osservare dalla tabella
(1.2).
Più interessante e complicata è la storia del debito pubblico, che aumentò di
oltre cento miliardi passando dallo 81% del PIL nel 1914 al 125% nel 1920;
però il nostro paese, benchè uscito vittorioso dalla guerra, cadeva in preda ad
una profonda crisi politica - economica. Le sofferenze della guerra, la crisi
economica del dopo guerra (crollo di molte industrie belliche; svalutazione
della lira) avevano contribuito a diffondere tra la popolazione un grave disagio.
Gli anni immediatamente successivi alla guerra furono caratterizzati da
agitazioni popolari: scioperi di operai, di pubblici funzionari e di impiegati che
culminarono nell’occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920.
Tab. 1. 2 Andamento dell’inflazione e dei cambi, 1914 – 1922.
Anni A Costo vita Dollaro ($) Sterlina Francofranc. Oro
1914 100 100 5,28 25,86 103,21 105,80
1915 133 107 6,69 31,00 112,30 120,35
1916 193 134 6,86 32,62 117,30 128,85
1917 286 189 7,41 35,28 128,29 134,04
1918 431 264 7,85 37,60 140,18 149,49
1919 470 268 9,79 41,54 121,31 164,70
1920 617 352 21,19 77,46 145,76 307,06
1921 565 417 23,50 91,19 174,68 393,92
1922 569 414 21,19 93,74 172,94 408,75
Fonte: (1) (2) – ISTAT, Il valore della lira dal 1861 al 1965, Roma, 1966; (3) (6) – Annuario Statistico Italiano,
1913 – 1925. Nota : (a) valore in lire di 1 oncia d’oro. A= prezzi all’ingrosso.
Molti furono i motivi di disagio economico
3
che spinsero alla protesta, anche
violenta, vari gruppi sociali nel dopoguerra: i sacrifici effettuati durante la
guerra che non si vedevano compensati, l’inflazione che rendeva precario lo
standard di vita di molti, il mercato del lavoro profondamente alterato dalle
3
V. Zamagni, Dalla periferia al centro, pag. 300 – 303.
vicende belliche e in via di progressivo restringimento per effetto dei massicci
licenziamenti.
Il livello di sindacalizzazione di braccianti ed operai si impennò, come si può
vedere dalla (tab. 1.3), gli scioperi si susseguirono intensissimi nel cosiddetto
"biennio rosso", mentre nel 1919 ci fu l'occupazione delle terre e nel 1920
quella delle industrie. Il risultato congiunto dell'inflazione, della crisi
economica e delle proteste popolari, furono le cause di un generale e violento
spostamento di reddito dai redditieri e dalle classi medie urbane verso
braccianti, operai e mezzadri.
Tab. 1. 3 Sindacalizzazione e scioperi, 1919 – 1922 .
Iscritti ai sindacati. N. di giorni perduti in scioperi.
Anni Braccianti Operai Braccianti Operai
1919 --------------- 1.500.000 3.437 18.888
1920 1.790.000 2.387.000 14.171 16.398
1921 ---------------- --------------- 407 7.773
1922 ---------------- ---------------- 250 6.667
Fonte : Ministero dell’Economia Nazionale, I Conflitti del lavoro in Italia nel decennio 1914 – 1923, Roma ,
1924.
Il 1921 rappresenta sicuramente un punto di svolta non solo economico ma
anche politico; fino ad allora, il panorama politico era stato caratterizzato dalla
vittoria dei due grandi partiti di massa esistenti, il partito socialista e il partito
popolare, fondato da Don Sturzo il 18 gennaio 1919.
Mussolini aveva fondato a Milano, il 23 marzo 1919 i fasci di combattimento,
ma essi rimasero fino alla fine del 1920 ed ai primi del 1921 un fenomeno
quantitativamente e politicamente irrilevante, partecipe di tutta una serie di
caratteri ambigui e contraddittori sia di destra che di sinistra.
Quello che fece passare il fascismo dallo squadrismo puro e semplice ad un
movimento politico, che riuscì a conquistare consensi nelle classi medie e
borghesi durante il 1921, fu la crisi economica precedentemente analizzata.
Con la salita al potere di Mussolini il processo di industrializzazione dell’Italia,
iniziato negli anni precedenti non si fermò, ma sicuramente prese strade diverse
da quelle che ci si sarebbe potuti aspettare.
Nel periodo 1919/22 vi furono ben cinque ministeri a testimonianza del
difficile periodo politico -economico chi si venne a creare: ministero Nitti
(1919/20) che fece approvare dal parlamento il nuovo sistema elettorale della
proporzionale; ministero Giolitti (1920/21); ministero Bonomi (1921/22); il
primo ed il secondo ministero Facta (1922) il quale si dimostrò il più debole
dei precedenti. Le conseguenze politico - economiche della prima guerra
mondiale ebbero sicuramente un’importanza cruciale per quanto riguarda
l’economia del nostro paese, che nella prima metà degli anni Venti cambiò
lentamente, anche a causa dello instaurarsi del Fascismo.
I mutamenti verificatisi nel sistema economico mondiale tra il 1919/1939
4
ebbero, più di quelli che caratterizzarono altre epoche, un segno estremamente
ambiguo. Ciò accresce l’interesse per questo periodo, ma spiega le difficoltà
dei contemporanei, come interpreti più recenti nel convergere su un giudizio di
sintesi. La situazione che si venne a creare ebbe conseguenze ben precise per il
nostro paese. Uno degli economisti che studiò questo periodo, come ad
esempio J.M. Keynes
5
, ha affermato “che è finita l’ epoca di enorme
progresso economico che aveva caratterizzato il XIX secolo e che la crescita
del nostro benessere è destinata a rallentare”
6
.
4
G. Toniolo, L’economia dell’Italia fascista, Laterza, Bari, 1980 pag. 3
5
J. M. Keynes, The economic possibilities of our Grandchildren, in Id., essays in persuasion,
Norton e Co., New York 1963, pag. 358.
6
G. Toniolo, op. cit., pag. 3
Nel nostro paese gli anni Venti e Trenta furono “unificati dall’evento
macroscopico della dittatura ed è ovvio che ogni interpretazione debba fare i
conti con questo nodo fondamentale e con i complessi problemi storiografici
che esso solleva”.
Uno di questi problemi riguarda, per usare le parole del Castronovo “
l’interpretazione del fascismo come ristagno economico o come rafforzamento
di un certo modello di sviluppo capitalistico”
7
. Per restare al tema limitato, ma
molto rilevante, dei risultati economici complessivi conseguiti dal nostro
sistema economico tra le due guerre mondiali, si deve osservare che sulla
scarsa dinamica dell’economia italiana hanno posto l’accento tanto autori di
estrazione liberale che studiosi di scuola marxista. Le premesse da cui
partivano non erano del tutto lontane ; i primi si sono occupati dell’abbandono
del laissez-faire, di forzatura dei “vantaggi comparati” e di predominio dei
grandi monopoli
8
; quest’ultimo punto è stato sottolineato anche dai secondi
9
che hanno insistito sulla restaurazione di un capitalismo meramente finanziario,
in un quadro generale di conservazione sociale e politica
10
.
Queste visioni dell’economia fascista, orientata tendenzialmente al ristagno,
sono fiorite nell’immediato secondo dopoguerra. Dopo un certo raffreddarsi
degli interessi alla ripresa degli studi sul fascismo è emerso un filone
storiografico importante, soprattutto marxista, che ha proposto
un’interpretazione del periodo come momento di “razionalizzazione
dell’organizzazione capitalistica del lavoro”
11
e perfino di notevole espansione
complessiva dell’economia italiana
12
.
7
V. Castronovo, La storia economica, Vol. IV, tomo I, Einaudi, Torino 1975, pag. 314.
8
G. Demaria, Il problema industriale italiano, 1941, pag. 516 –551.
9
Tipica è la posizione di E. Sereni ( La politica agraria del regime fascista; Fascismo e
Antifascismo, Feltrinelli, Milano 1962).
10
P. Grifone, Il Capitale finanziario in Italia, Einaudi, Torino 1971.
11
E. Ragionieri, La storia politica e sociale, Vol. IV, tomo III, pag. 2182.
12
G. Gualerni, Industria e fascismo, Vita e Pensiero, Milano 1978.
La linea di ricerca su cui muoversi per poter dare contenuti più concreti e
precisi alla contrapposizione pura e semplice delle due ipotesi della
“cristalizzazione” e del “dinamismo”
13
è con ogni probabilità quella suggerita
di recente dal Ciocca: “guardare all’economia italiana , di questi anni, nel
contesto internazionale” , caratterizzato da trasformazioni complesse disegno
molto ambiguo e contraddittorio oltre che da una instabilità ciclica senza
precedenti. La vicenda fascista, tutt’altro che immobile lungo tutto il
ventennio, fu accompagnata da mutamenti congiunturali, strutturali e di
politica economica di ampia portata; tra il 1921 ed il 1938 il P.I.L.
dell’economia italiana aumentò in termini reali al tasso annuo composto del
2,2%, la crescita del reddito per abitante, malgrado la forte dinamica
demografica, fu in linea con il trend 1861-1967, ma al di sotto di quella
realizzata nei momenti di massima espansione del nostro sistema economico
(età giolittiana, secondo dopoguerra); si tratta di valori positivi che impongono
molta cautela nel parlare di “ristagno”, anche se il nostro paese non riuscì tra le
due guerre a continuare quella “rincorsa” dei paesi più avanzati, che aveva
iniziato in età giolittiana, sfruttando alcuni “vantaggi” dell’arretratezza e
avrebbe continuato tra il 1948 ed il 1963.
In base ai dati dell’O. E. C. E.
14
, tra il 1922/1925 la crescita della produzione
manifatturiera italiana fu seconda alla Danimarca, tra gli undici paesi
occidentali di cui si possiedono stime.
Durante la prima metà degli anni Venti, caratteristica del modello di sviluppo
del settore più avanzato, quello industriale, fu una relazione produttività/salari
–prezzi che consentiva una crescita del prodotto per lavoratore superiore a
quella dei salari; un aumento della quota dei profitti sul reddito permetteva una
forte dinamica nella domanda di beni d’investimento e nuovi aumenti di
13
P. Ciocca, L’economia italiana nel contesto internazionale, in P. Ciocca – G. Toniolo,
L’economia italiana nel periodo fascista, il Mulino, Bologna 1976, pag. 19
14
O.E.C. E., Industrial Statistics, pag. 11
produttività in una sorta di “circolo virtuoso”. Tale processo era sostenuto, nel
caso specifico degli anni Venti, anche dalla possibilità che un mercato
scarsamente concorrenziale dava alle imprese di molti settori di scaricare sui
prezzi gli aumenti dei costi .
Condizioni ben precise alla realizzazione di questo modello di sviluppo furono
una elevata elasticità nell’offerta di lavoro, una politica monetaria e di bilancio
volta a favorire la formazione del capitale nel settore privato una forte
dinamica della domanda assistita da un favorevole andamento del cambio.
Caratteristica peculiare dell’economia fascista fu quello di rendere la variabile
salariale sostanzialmente “esogena”, attraverso un controllo diretto e coattivo
del mercato del lavoro; quindi il verificarsi di un meccanismo di sviluppo e
accumulazione come quello realizzatosi all’inizio del fascismo deve la sua
esistenza a determinate condizioni non facilmente realizzabili e ripetibili
simultaneamente:
a) un’offerta di lavoro particolarmente elastica;
b) un mercato di capitali ed un politica monetaria che facilitassero il
trasferimento delle risorse ai settori produttivi e assicurassero che gran
parte del risparmio si trasformasse in investimento reale;
c) una forte domanda estera assistita da una adeguata politica tariffaria e da
un favorevole andamento del cambio.
Un meccanismo di sviluppo come quello realizzato tra il 1922/1925 richiede
una elasticità nell’offerta di lavoro che consenta al settore più dinamico di
assorbire quote crescenti di manodopera senza dover pagare incrementi
salariali pari agli aumenti della produttività. Questa condizione si sarebbe
verificata durante gli anni Venti; il fascismo, dapprima con la violenza
squadrista e poi con quella istituzionalizzata, aggiunse un ulteriore elemento di
compressione della dinamica salariale. Le grandi lotte operaie del 1919/1920 si
svolsero in un contesto congiunturale particolarmente favorevole, caratterizzato
da livelli di disoccupazione bassi. Nella sola industria si contarono nel 1919
18,9 milioni di giornate – uomo di sciopero e 16,4 milioni nel 1920
15
. Il
movimento operaio conquistò la giornata lavorativa di otto ore e un aumento
della busta paga giornaliera che portò nel 1920 il salario reale ad un livello
superiore di circa il 30% rispetto al 1913
16
. Dato che la produzione industriale
non era aumentata, ciò ebbe come conseguenza un notevole spostamento delle
quote distributive a favore dei salari. In Italia, prima ancora delle squadre
fasciste, fu il meccanismo stesso del mercato, con la crisi del 1921, a operare
una nuova ridistribuzione del reddito ed a restituire elasticità all’offerta di
lavoro. Questi dati indicano una forte capacità di lotta e di resistenza della
classe operaia, anche in un momento in cui le condizioni del mercato del lavoro
erano le meno favorevoli, con un livello di disoccupazione quintuplicatosi nel
giro di dodici mesi.
15
Department of Overseas Trade, report on the commercial industrial and economic situation
of Italy, revised to march 1925, a cura di J. H. Henderson – H. C .A. Carpenter,
London 1925, pag. 65.
16
V. Zamagni, La Dinamica cit., pag. 311