epoca, dalla "bohème" del giornalismo post-unitario al ruolo della stampa durante il
fascismo.
Anche la suddivisione temporale in tre parti ci è sembrata la più corretta, laddove si
abbia bene in mente l'evoluzione dell'ordinamento giornalistico negli anni oggetto di
indagine: un primo periodo caratterizzato dall'attività pionieristica delle associazioni
di stampa, dalla giurisprudenza probivirale sulle controversie di lavoro, dalla
battaglia per la libertà di stampa del 1899, dai diversi disegni di legge sul lavoro
giornalistico mai approvati; un secondo periodo, che va dalla creazione della Fnsi
all'avvento del fascismo, con i primi infuocati congressi, la firma della prima
convenzione d'opera, lo scoppio della prima guerra mondiale; la terza fase, infine, che
riguarda essenzialmente lo scontro tra la Federazione poi fascistizzata e il regime, il
complesso ordinamento fascista del giornalismo, le conquiste contrattuali e
previdenziali che si susseguono dal 1925 fino alla caduta di Mussolini.
Parte prima. 1877 -1908: alle origini della Fnsi
Capitolo I. Giornalismo e politica dopo l'Unità d'Italia.
Par. 1.1 -La destra, la sinistra, il giornalismo.
All'indomani dell'unificazione, l'Italia è un Paese afflitto da gravi arretratezze e ritardi
rispetto alle più mature democrazie europee. Alla Destra - che governerà fino al 1876
e sarà poi ribattezzata Destra storica - spetta il compito di avviare il lento processo di
modernizzazione e costruzione di un'identità nazionale, che passerà -oltre che dagli
investimenti pubblici e per la lotta all'analfabetismo -anche attraverso i principi del
giornalismo liberale, consapevole della sua funzione storica, politica e sociale di
influenza sull'opinione pubblica e di libera circolazione delle idee. Sarà un processo
faticoso, fatto di improvvise accelerazioni e passi indietro, di successi e sconfitte, di
onori, clamori e colpi di scena; un processo che vedrà i giornalisti intraprendere il
cammino della propria consapevolezza professionale, fino alla creazione, nel 1908,
dell'organo unico di rappresentanza sindacale, la Federazione nazionale della Stampa
Italiana.
Ancora nel 1871, dopo la presa di Roma e la fine del potere temporale del Papa,
l'analfabetismo si attestava al 68,8%, con punte minime in Lombardia e Piemonte del
42-45%. Anche la partecipazione elettorale, così come la cultura, era affare per pochi:
nel 1861 si contavano 418mila elettori, appena il 2 per cento della popolazione. (1)
Il Sud, poi, versava in condizioni drammatiche, tanto che attraversare la Penisola
dava al viaggiatore l'impressione di aver a che fare con due (o tre) Paesi differenti.
Era inevitabile che in un tale, poverissimo quadro, non ci fosse molto spazio per i
giornali e per un'opinione pubblica matura, libera e diversificata. Scriveva Giovanni
Lanza nel 1865, alla vigilia delle elezioni: "I giornali non sono letti e non esercitano
verun ascendente nell'animo della popolazione, che è nello stato di perfetta
indifferenza" (2). Nonostante le condizioni generali, però, una stampa c'era ed aveva
visto una notevole fioridità con il progresso delle tecnologie tipografiche (le
macchine piane Marinoni, antenate della rotativa che si diffonderà dai primi del '900,
iniziavano a sostituire i torchi a mano da duecento copie l'ora). Il giornale veniva
ancora composto a mano, (la lynotipe era ancora di là da venire), carattere per
carattere, dagli operai (i cottimisti, pagati lire 1,91 a giornata), "che dal loro
ripostiglio potevano sollevare fino ad un massimo di diecimila lettere al giorno, e le
cui mani -in 300 giorni -compivano all'incirca la distanza di due chilometri".(3) Il
giornalismo italiano, in questa fase e almeno fino alla metà degli anni '80, rimane
ancorato alle consorterie o ai personaggi politici più in vista, specialmente ai circoli
di derivazione cavouriana e stampo liberalconservatore, di stretta osservanza
monarchica. La Sinistra costituzionale, che potremmo definire liberaldemocratica, o
demoliberale, vedrà invece rafforzarsi il suo potere editoriale a partire dalla
cosiddetta "rivoluzione parlamentare" de11876, fino alla fine del secolo. Ad ogni
modo i giornali italiani -in questa fase non c'è ancora distinzione netta tra quotidiani e
periodici -rimangono imprese a carattere familiare e artigianale. Il quotidiano-tipo si
presenta "in quarto": quattro facciate, formato grande 60x43 cm o piccolo 39x27 cm,
su tre o quattro colonne (4). Caratteri dal corpo molto piccolo, quasi illeggibile,
frequenti spazi bianchi e numerosissimi refusi per l'imperfezione del mezzo
tipografico. Caratteri poco più grandi per i titoli, tutti sviluppati su una colonna,
articoli di fondo chilometrici e assoluta mancanza di fotografie ( c'erano però
illustrazioni a matita e vignette). La composizione richiedeva una decina di operai e
la stampa di 1500 copie, almeno due ore di tempo (una delle prime rotative,
l'americana Hoe, arriverà al Corriere della Sera solo nel 1906). Il prezzo oscillava tra
i 5 e i l0 centesimi, non poco ove si consideri che il salario medio giornaliero era di 2
lire negli anni '70. Poche le testate che raggiungevano le 15-20 mila copie di
diffusione. Ancora rare le edicole: il giornale era spesso distribuito presso la stessa
tipografia o nelle librerie. Un dato significativo: nel 1873 la tiratura globale di
periodici, giornali e riviste italiane -in quell'anno se ne contavano 555 -era di appena
797.520 copie! A Parigi il Petit Journal sfiorava già le trecentomila, destinate a
raggiungere il milione all'inizio del '900 (5).
Eppure il giornalismo italiano poteva avvalersi di una legislazione tutto sommato al
passo con i tempi: l'Editto albertino sulla stampa (1848), riconosceva ad ogni
cittadino la facoltà di espressione e sanciva l'abolizione della censura preventiva,
oltre alla rinuncia da parte dello Stato a qualsiasi intervento fiscale sulla gestione
dell'impresa giornalistica (tasse speciali sulla carta e imposte di bollo ). Problemi di
interpretazione, però, ne nascevano eccome: specialmente sulla questione della
responsabilità penale del gerente, cioè colui che firmava la prima copia del giornale,
figura poco definita dalla legge, che si prestava all'uso di semplici prestanome da
parte dei giornali e a frequenti abusi da parte dell'autorità. L'istituto del gerente sarà
riformato con l'avvento del fascismo nell'ambito della complessa architettura
giuridica che il regime costruirà intorno al giornalismo. Inoltre l'editto albertino
manteneva intatti gli ampi poteri discrezionali della magistratura e delle forze
dell'ordine riguardo alla sospensione e al sequestro preventivo dei giornali. Il dibattito
su queste nonne si accenderà in occasione dei provvedimenti repressivi sulla stampa
emanati nel 1899 dal governo Di Rudinì.
Par. 1.2- Giornalisti di fine '800.
Ma chi sono, nel ventennio che volge verso il '900, i giornalisti?
Talmente stretto è il rapporto tra stampa e politica che nella grande maggioranza dei
casi si tratta di uomini politici, spesso di secondo piano, a volte deputati, di
concezioni e fonnazione prevalentemente giuridiche.
Personaggi che concepivano la stampa come mezzo esclusivo di lotta politica, ciò che
esporrà molte testate al rischio di fare da cassa di risonanza ai gruppi di potere (più o
meno) influenti, nazionali o locali, e di essere trascinate nel gioco degli interessi di
parte o nelle beghe municipali.
I successi editoriali dell'epoca spettano ad un pugno di testate: La Perseveranza, La
Gazzetta di Milano e Il Secolo. La svolta di fine secolo vedrà irrompere sulla scena
personalità giornalistiche del calibro di Alfredo Frassati, Luigi Albertini e Alberto
Bergamini. Nello stesso periodo nascono testate destinate a giungere ai giorni nostri:
oltre alla Nazione fondata nel 1859 a Firenze dal gruppo liberalconservatore di
Bettino Ricasoli, vedono la luce l'Osservatore romano (1861), il Roma (1862), il
Corriere della Sera (1876), il Messaggero (1878) il Resto del Carlino (1885), il
Secolo XIX (1886) e il Mattino (1892) (6).
Interiori fermenti nella scena giornalistica sono prodotti dalla comparsa della stampa
socialista (nascono l'Avanti! e Critica sociale) e dal processo di organizzazione e
rafforzamento della stampa cattolica, specialmente quella di ispirazione clericale,
intransigente e tradizionali sta che non si riconosceva nello Stato liberale e non
partecipava alla vita politica. Esempio di questo giornalismo fu L'Armonia di don
Giacomo Margotti. I quotidiani cattolici, dai sette che erano nel 1860, divennero
diciotto nel 1874 (7).
In questo periodo è ancora lontana la figura moderna del giornalista, cioè di colui che
fa dell'attività giornalistica l'unico mezzo di sostentamento. Le redazioni sono un
viavai di frequentatori: avvocati, scrittori, letterati e politici, oltre ai redattori che
provvedono alla compilazione del giornale. Scrive Dario Papa, redattore del Corriere
della Sera, al ritorno da un viaggio negli Stati Uniti: "I giornali americani non sono -
come i nostri -infestati da una quantità di uomini di lettere, che non si sentono nati a
fare i piccoli servizi del pubblico, che hanno sempre delle grandi idee da espettorare,
ma rifuggono dalla fatica di are del giornale un veicolo di notizie, anziche
un'accademia" (8).
Il rafforzamento della categoria -vedremo -passerà anche per il principio di
esclusività e autonomia della professione giornalistica.
Ma quanto guadagnava un giornalista di fine '800? Troppo poco per mantenersi da
vivere: Felice Cavallotti, futuro deputato della sinistra radicale ucciso in duello da
Ferruccio Macola nel 1898, affermava di aver guadagnato tra il 1859 e il 1861 nei
giornali milanesi, dalle 100 alle 300 lire al mese: in moneta d'oggi, all'incirca dalle
duecento alle seicentomila lire al mese (9). Ma si tratta di punte massime: un giovane
cronista non ricavava dal suo lavoro neanche il costo delle sigarette e molti giornalisti
-anche noti -potevano finire i loro giorni in miseria.
"La poesia del giornalismo del Risorgimento -scriverà nelle sue memorie Salvatore
Barzilai, futuro -presidente della Fnsi -dava ancora qualche bagliore negli ultimi
decenni del secolo; onde si lavorava con qualche soddisfazione dello spirito,
compensatrice di qualche mortificazione della carne" (10).
Par .1.3 -Soldi alla stampa.
Altro elemento peculiare del rapporto tra la stampa e il potere, erano le sovvenzioni
governative -più o meno celate -ai giornali amici o fiancheggiatori, una pratica
comune tanto ai governi della Destra che della Sinistra, e che proseguirà- in altre
forme ma con lo stesso fine, creare un cuscinetto di "buona stampa" intorno alle
istituzioni -nel periodo giolittiano.
I giornali erano tenuti sotto controllo, ed eventualmente aiutati, tramite i Prefetti, che
puntualmente riferivano al Ministero degli Interni gli orientamenti e le tendenze
politiche di ciascuna testata. Gli aiuti potevano assumere diverse forme: la
sovvenzione vera e propria, con tanto di liste aggiornate dei finanziamenti, o la
cessione in esclusiva per la pubblicazione degli atti e dei provvedimenti governativi
(alla tariffa di 25 centesimi per riga), che permetteva ai giornali che ne fruivano di
contare su un cospicuo numero di abbonamenti.
L 'appoggio o almeno la non avversità della stampa si otteneva anche attraverso una
figura ambigua di giornalista, ribattezzata "giornalista anfibio": un certo numero di
funzionari statali autorizzati a svolgere attività pubblicistica, che fornivano alle
testate fiancheggiatrici corrispondenze gratuite dalla Capitale e "pastoni" politici,
alimentando così, attraverso il risparmio nelle spese di redazione, una catena di
piccoli e medi giornali di provincia. Un sistema che se da un lato sviliva la
professione giornalistica, dall'altro contribuiva alla proliferazione di piccoli giornali,
che duravano lo spazio di poche settimane. Troppi giornali e giornalismo servile,
quindi, come ebbe a notare Gaspero Barbera nelle sue "Memorie di un editore": " (...)
dal 1859 in poi i nostri giornalisti convertirono la nobile missione della stampa
periodica in traffico indecoroso. Giustizia vuole che io eccettui da questa severa
accusa sei o al più otto giornali, gli altri si può dire che di buon grado si mettano ai
servigi e alle voglie degli ambiziosi che pagano per far strombazzare i loro nomi, i
loro progetti e soprattutto le loro candidature. Neanche la stampa che diciamo onesta
naviga in buona fortuna.
La cagione è la grande quantità di giornali che si stampano e che ingombrano le vie
della città e le stazioni delle strade ferrate senza attirare grande curiosità: i più di
questi giornali vivono sovvenzionati per proteggere chiesuole politiche, prive
dell'appoggio di una valida maggioranza (11)".
L 'atteggiamento supino di parte della stampa e il cattivo esempio di molti giornalisti
è alla base anche di un amaro sfogo di Ruggero Bonghi, direttore della Perseveranza
di Milano, poi deputato e presidente dell'associazione stampa periodica italiana: "E'
assurdo pretendere che si possa restare un galanttlomo facendo il mestiere di
giornalista ( ...) più misero è il compenso, più è disposto, più è costretto a vendersi e
rivendersi. Si vende e si rivende a tutti, a banchieri, a capiparte, a candidati, a
ministri. Esercita così il più disonesto ufficio che sia possibile esercitare in una
società civile". Se i giornalisti guadagnano poco è anche perché aumentano i costi per
gli editori: Il Corriere della Sera, per esempio, vede moltiplicarsi le spese di
redazione -tra il 1880 e il 1890 -da 24mila a 177mila lire l'anno: un aggravio prodotto
soprattutto dalle spese telegrafiche, di trasporto e dai costi supplettivi dell'edizione
notturna (12). I giornali, in un faticoso processo a cavallo tra i due secoli, divengono
aziende editoriali moderne, di cui entrano a far parte i gruppi imprenditoriali più
influenti, le dinastie capitalistiche, i grandi industriali.
Le trasformazioni erano inevitabili e necessarie al giornalismo stesso, che trarrà
dall'evoluzione tecnologica e editoriale nuova linfa per la sua opera, spingendo i suoi
membri lungo la via dell'autorganizzazione, della consapevolezza professionale e
sindacale. Il problema della proprietà delle aziende giornalistiche e della trasparenza
dei finanziamenti era destinato a riproporsi, come vedremo, nei primi decenni del
'900.
NOTE - Parte Prima -Capitolo 1
(1) V. Castronovo -N. Tranfaglia, Storia della stampa italiana, Bari 1976-94,vol. III,
pp.10-11.
(2) Ivi,pp. 20.
(3) S. Ajani, Problemi tecnici dei quotidiani torinesi fra il 1860 e il 1870, in: Il
Giornalismo italiano dal 1861 a11870, p. 192.
(4) V. Castronovo N. Tranfaglia,cit., p. 40.
(5) Ivi, p. 66.
(6) P. Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Bologna 1996, p. 69.
(7) V. Castronovo -N. Tranfaglia,cit., p. 48.
(8) Ivi, vol. IV, p. 102.
(9) F. Nasi, Il peso della carta, Bologna 1966, p. 25.
(10) Cfr. G. Tartaglia, La federazione nazionale della stampa e il contratto di lavoro
giornalistico, in: Studiare da giornalista, vol. III, ediz. Ordine dei giornalisti, Parma
1993, p. 184.
(11) G. Barbera, Memorie di un editore, Firenze 1883, p. II.
(12) F. Nasi, cit, p. 26.