appartenente alla condizione umana in quanto tale,
indipendentemente dagli sforzi che l’uomo fa per allontanarla o
rimuoverla, essa mostra l’aspetto più raccapricciante quando è
considerata in stretto rapporto con l’uomo e non solo con l’uomo
che ne è vittima, ma principalmente con l’uomo che se ne serve
intenzionalmente senza alcun sentimento di pietà. In quest’ultimo
caso sembra possibile poter parlare di Male intenzionale, voluto,
anzi addirittura di fascinazione per il Male, di Male a cui ci si
abbandona in una sorta di vera e propria libidine che riposa
sull’indifferenza del carnefice verso il volto del suo simile
considerato come estraneo e perfino come estraneo all’umanità.
Le atroci crudeltà commesse dai serial killer sembrano di per
sé sufficienti a creare una distanza rassicurante che consente al
sentire comune di proclamarne la disumanità per scongiurare
qualsiasi similitudine. Ma un accostamento meno semplicistico e
forse più coraggioso al problema consente di leggere tali
comportamenti, contrassegnati senza dubbio da eccessivi difetti di
immedesimazione e da radicali eccessi di proiezione di pensieri e
sentimenti inammissibili, come gli esiti di distorsioni estreme di
processi psicologici comuni a tutti gli uomini.
Riconoscere la loro umanità sembra, però, rappresentare una
minaccia per la “gente per bene”. Proprio tale sentimento di
minaccia sembra sottolineare che qualcosa di loro deve essere
presente in noi, altrimenti la nostra porta psichica non sarebbe
aperta ad alcun contagio. Scrutando l’animo umano, infatti,
ritroviamo sia il bene che il male, sia l’amore evangelico per il
prossimo e la solidarietà per i deboli sia l’odio e il piacere per il
male. L’essenza umana è una sfaccettatura continua e mutevole di
infinite caratteristiche: in certi momenti prevalgono le une, in altri
ne coesistono di diverse, talora di opposte, in un continuo divenire.
Infinite, quindi, sono le composizioni che si possono costruire con
le note musicali: le più sono armoniche, altre sono dissonanti; e
questo dato, valido per ogni persona, non solo ci accomuna tutti
quanti, ma anche contraddice la visione manichea e monocroma
dell’uomo secondo la quale, da un lato ci sono i buoni,
testimonianza vivente di incorruttibile splendore, e dall’altro i
cattivi, fonte di ogni male per la società.
Jung era ben consapevole della realtà del Male nella vita
umana e nel 1945 formula, a tale proposito, una esaustiva
definizione dell’Ombra: “Ciò che uno non vorrebbe essere”. Egli
afferma, inoltre, che tutti abbiamo un’ombra, che essa sta all’Io
come l’oscurità alla luce e che è proprio l’Ombra a renderci umani.
“Ognuno di noi è seguito da un’ombra, e meno questa è
incorporata nella vita conscia dell’individuo, tanto più è nera e
densa. Se un’inferiorità è conscia si ha sempre la possibilità di
correggerla. Inoltre essa è continuamente a contatto con altri
interessi, cosicché è costantemente soggetta a modificazioni. Ma
se è rimossa e isolata dalla coscienza, essa non viene mai corretta.
Sussiste allora, inoltre, il pericolo che in un momento di
disattenzione essa erompa improvvisamente. In ogni caso essa
resta un inciampo inconscio che fa naufragare i tentativi meglio
intesi” (Jung, 1945).
I serial killer sembrano, dunque, paradossalmente gettare luce
sui recessi più bui della nostra psiche che, una volta illuminati, non
possono più essere ignorati. Ciò non può che generare un profondo
turbamento in quanto non solo scopriamo in noi inquietanti segreti,
ma sentiamo di avere nei loro confronti un controllo precario tanto
da sentircene a tratti dominati. Tale condizione sembra richiamare
il sentimento di Unheimlich che, secondo un’osservazione che
Freud mutua da Schelling, “è tutto ciò che avrebbe dovuto
rimanere segreto e che invece è riaffiorato” (Freud, 1919). Tale
sentimento viene suscitato da qualcosa di pericolosamente
minaccioso per la persona, ma che appare anche intriso di qualità
misteriose e spettrali. L’elemento distintivo sembra essere
rappresentato dalla sua forte ambiguità. Esso, infatti, ci appare
come una corrente di affetti contraddittori in cui la paura è unita
alla fascinazione, la repulsione all’attrazione. Das Unheimlich è il
sinistro, il lugubre, il non familiare; Das Heimlich in prima
accezione è ciò che è noto, intimo, familiare, rassicurante e in
seconda accezione è il nascosto, il segreto. Il prefisso Un
rappresenta il segno della rimozione per la quale ciò che è nascosto
si rivela mantenendo la sua segretezza. Scoprendo ciò che è
nascosto, il Perturbante svela ciò che nel familiare è inquietante.
Le condizioni affinché esso possa emergere implicano, dunque, il
ritorno di un contenuto rimosso, “rianimato”, afferma Freud, “ad
un contenuto esteriore”, che “sopraggiunge facilmente quando i
limiti tra immaginazione e realtà sbiadiscono” (Freud, 1919). Ciò
sembra generare una falla nei meccanismi del processo secondario
che lascia l’Io sospeso e disorientato; tuttavia il sentimento del
Perturbante viene spesso esperito insieme a quello dell’orrore,
entità affettiva che non è sinonimo di terrore, paura, spavento, ma
che rappresenta un specifico segnale di allarme. La funzione
dell’orrore, all’interno dell’apparato psichico, è quella di stimolare
al massimo l’Io per permettergli di resistere a certe pulsioni
egodistoniche dell’Es o per farlo resistere, quanto più
energicamente possibile, ai pericoli od alle minacce più
raccapriccianti provenienti dall’esterno.
Nel caso dei serial killer l’assenza dell’effetto inibitorio
esercitato dagli affetti di disgusto, senso di colpa e vergogna e la
presenza di una determinazione mirata, provocatoria e
incontenibile a usare una violenza non trattenuta, al punto da poter
parlare di amore per il Male, non può che provocare in noi l’affetto
dell’orrore. Infatti, l’orrore che accompagna le azioni di coloro
che, mutuando Nietzsche, potremmo chiamare “dispregiatori del
corpo”, caratterizzate dal trionfo della perversa ricchezza degli
istinti e dall’esaltazione delle forze distruttive non tenute a bada
dal sacrificio e dalla colpa, richiama alla coscienza adulta, cioè alla
coscienza che si considera una volta per tutte giunta al massimo
dispiegamento delle sue possibilità, il pericolo di un ritorno a una
condizione di disordine dell’anima, a quel caos istintuale dal quale
con un costante lavoro (sublimazione) ha sempre tentato di
emanciparsi. Se da un lato l’affetto dell’orrore come meccanismo
di difesa favorisce ciò che Derrida definisce “la catena della
supplementarietà”, che consiste nel frapporre simboli, sostituti e
supplementi all’immediato godimento e soddisfacimento
pulsionale, dall’altro fa si che venga distolto lo sguardo senza
alcuna esposizione al confronto. Quando ci si allontana da questi
fenomeni con disgusto, dichiarando con indignazione che
rappresentano un ritorno alla barbarie, una regressione al primitivo
e all’animalesco, nello stesso momento viene perduta la possibilità
di ottenere una migliore conoscenza dell’aggressività umana e una
maggiore padronanza di essa. Un atteggiamento di rifiuto verso le
parti di sé ritenute inaccettabili perché legate a sentimenti negativi
quali l’aggressività, la collera, alcune forme del desiderio e del
piacere, unitamente al bisogno di espellerle da sé e di negarle,
rappresenta sostanzialmente un’operazione analoga alla
repressione culturale e psicologica che ha presieduto alla stessa
formazione dell’Ombra e, quindi, non può che ingigantirla e
potenziarla. Espulso così da sé, il demone del Male diviene tanto
forte e potente da consentire una deresponsabilizzazione talora
fatale. Nonostante la rassicurazione che tale meccanismo fornisce,
esso non appare, però, risolutivo in quanto l’universo sotterraneo,
sebbene nascosto, non smette di agitarsi nel tentativo di soddisfare
i propri desideri proibiti. Una sorta di compromesso e allo stesso
tempo testimonianza dei nostri profondi bisogni in tal senso è
rappresentato dalla finzione letteraria. La bassezza di talune anime
o la loro propensione al Male sembra rappresentare, infatti, sia un
potente eccitante per l’immaginazione creativa degli artisti, sia uno
strumento atto a placare le tensioni di coloro che hanno il piacere
di accostarsi alle loro produzioni. La riuscita letteraria sembra
coronare il vizio molto più facilmente della virtù. E’ sufficiente
prendere in considerazione anche solo l’arte di uso corrente, di cui
i media hanno amplificato la produzione, per constatare la
diffusione e il consumo impressionante di contenuti quali violenze
aggressive e sessuali, omicidi e massacri, che si ripetono
eternamente con poche varianti senza per questo annoiare mai. Tali
produzioni sembrano diffondere in modo inoffensivo e quasi
profilattico soddisfazioni impossibili o proibite. Attraverso la
finzione letteraria, infatti, appare possibile contattare i propri
fantasmi erotici e aggressivi (soddisfazione della pulsione) senza
per questo mettere in pericolo il sistema difensivo dell’Io. L’Io
nell’esperienza mediata dalla fiction sembra potersi accostare alle
parti più oscure all’interno di un’area protetta in cui le
rappresentazioni psichiche più inquietanti appaiono contenute e,
attraverso la tecnica, trasfigurate. In altre parole, sebbene
attraverso una realtà transitoria e mediata, la produzione artistica
può consentire più facilmente il contatto con la propria Ombra il
cui riconoscimento e confronto può aprire le porte a un reale
ampliamento della personalità. Mettere una persona davanti alla
propria Ombra equivale a mostrarle anche ciò che in essa è in luce.
Vedere la relazione tra l’ombra e la luce solo in termini oppositivi
può impedire di pensare che la luce, quando è troppo abbagliante,
annulla lo sguardo più dell’Ombra (Psiche ha perduto il suo
Amore e il suo Doppio per un eccesso di luce!). Contraltare della
luce è l’oscurità, non l’ombra che è il regno della mutevolezza,
dell’ambiguità della visione, non della sua assenza. Non opposta
alla luce, l’ombra ne è invece esaltata. Qualora si sappia instaurare
un contatto con essa, quindi, per via del confronto con la realtà
polimorfa e ambigua del desiderio, l’Ombra fornisce la coscienza
della contraddizione, assolvendo al tempo stesso il compito di
rendere l’Io meno monolitico, meno rigido e più tollerante.
Sebbene una maggiore tolleranza verso i desideri che agitano
l’uomo unitamente al coraggio di scendere fino in fondo a
sondarne il reale finalismo, senza scivolare nella sterile condanna e
nel vuoto moralismo, rappresenti un necessario presupposto per
accostarsi significativamente al problema dei serial killer, essa
appare, però, ancora insufficiente per un’esaustiva comprensione.
Il misurarsi con la perdizione, il caos, la non significazione della
loro esistenza si accompagna inevitabilmente ad una profonda
inquietudine che non consente di mantenere fisso su di loro lo
sguardo così da non poterne cogliere la completa umanità (lo
sguardo della coscienza morale, ma anche lo sguardo reale, come
dice Platone nel Fedro, è la porta del corpo aperta nel centro
dell’anima). Se, come abbiamo visto, il confronto con la nostra
Ombra richiede per potersi realizzare delle mediazioni, ciò appare
forse ancor più valido nel confronto con i serial killer che
sembrano rappresentare la più emblematica personificazione
dell’Ombra. Una possibile mediazione consiste nel trasformarli in
personaggi fittizi, di una storia fittizia, accaduta realmente, ma
altrove e lontano. Possiamo, quindi, fare ricorso all’immagine del
mostro come metafora. Il termine mostro, secondo quanto sostiene
E. Benveniste, deriva sia dalla parola latina monstrum, a sua volta
ricollegabile all’infinito monstrare e, quindi, “all’azione
dell’indicare, del mostrare con il dito”, che dalla parola latina
monestrum, che a sua volta si ricollega all’infinito monere ovvero
“all’insegnare una condotta, al prescrivere una via da seguire”.
Tale termine designa, quindi, tutto ciò che, mettendo insieme
aspetti contrari (volti comuni con istinti immediati e crudeli), esce
dall’oridinario e turba l’andamento consueto della realtà.
Il mostro e la metafora condividono una profonda affinità
rappresentata dall’avere il comune nucleo generatore nell’enigma
che consiste nel “dire ciò che si ha da dire mettendo assieme
(συνβαλλειν) cose impossibili”. L’enigma, rimandando al
termine mistero (dalla radice greca µυ che significa metter il dito
sulla bocca per fare silenzio), comporta quell’eccedenza di
significati spesso contraddittori e, mettendo in crisi le pretese
univoche di verità, rappresenta la condizione di ogni rinnovamento
e progresso.
Il rapporto surrealizzante che la metafora intrattiene con il
reale e l’abbassamento della sorveglianza mentale (sistemi
difensivi) che favorisce, sembrano creare una zona di penombra in
cui con voce più dimessa e maggiore carico di umanità ci si possa
avvicinare ai serial killer alla ricerca di un possibile germe di
significato. Potrà forse essere riconosciuto, allora, come umano il
messaggio di coloro che non riuscendo a fare andare in “su” il
proprio dolore lo lasciano trascinare in “giù” nell’acqua morta del
Male.