4
Il valore sociale della morte volontaria cominciò ad essere
evidente quando all’ homicidium fece riscontro la sui-caedes.2
La famosa frase degli stoici “Mori licet cui vivere non placet”,
altro non è se non la formula concreta del fenomeno suicidale.
La religione e le leggi dell’antichità condannarono il suicidio
come una colpa ma non ne vollero mai considerare l’aspetto più
generico di una tendenza dannosa si, ma collegata allo svolgimento
naturale della società.
La ragione di ciò risiede nei legami strettissimi con la religione,
avendo questa sempre sviluppato il sentimento individualistico a
scapito di quello sociale.
A differenza di quanto accadeva nel passato il nostro tempo
analizza il fenomeno anche e soprattutto nella sua funzione sociale ma
lo nega, lo condanna e riesce a “giustificarlo” solo etichettandolo
come accesso di follia, approdo finale di una patologia depressiva.
2
“La parola suicidium fu adoperata per la prima volta da Desfontaines nel secolo
scorso.
Nello stesso tempo si formarono anche le parole propriicidium (latino) e autocheiria
(greco)”, E. Morselli, Il suicidio, Dumolard, Milano, 1879, pag. 29.
5
Ne rinnega soprattutto il significato più immediato: quello di
morte, perché la società moderna nega la morte in quanto
annientatrice dell’incontrastato dominio dell’uomo sulla natura,
simbolo supremo della manifesta impotenza umana.
La visione odierna del “memento mori” limita l’uomo
privandolo delle spinte più forti alla vita, rendendogli impossibile
fruire della pienezza del suo essere.
Ciò che sfugge è che la morte non ha solo l’unica funzione di
annientare gli individui, ma anche e soprattutto quella di liberarli
dall’intreccio delle costrizioni sociali, sottraendoli ad esse.
La morte “...relativizza la violenza di cui dispongono i dittatori,
il mondo burocratizzato, una società radicalmente immanente.
La fine degli individui si configura insieme come fine del
potere...sugli individui”.3
E’ fondamentale tenere presente questo aspetto per affrontare
un poeta come il Foscolo che, carico di illusioni rivoluzionarie,
“all’apparir del vero”, deluso e privato di ogni speranza, può solo
desiderare la morte e quindi il suicidio come via più breve.
3
W. Fuchs, Le immagini della morte nella società moderna, Einaudi, 1973, pag. 15.
6
Quanto più si sviluppa nell’uomo Foscolo il senso della vita,
tanto più egli si rende conto della necessità della sua morte.
L’intento che si propone questo lavoro è proprio quello di
delineare il cammino che il poeta compie fino a giungere alla amara
conclusione del suicidio e le motivazioni per le quali non approderà
mai alla tragica fine ma che renderanno, proprio per questo, ancora
più dolorosa la sua esistenza profondamente dominata dallo spettro
della morte.
7
CAPITOLO I
FOSCOLO TRA ILLUMINISMO E ROMANTICISMO
L’ispirazione poetica foscoliana trova la sua origine in una tensione
intellettuale tenuta desta dalla convergenza delle istanze
contraddittorie dell’Illuminismo e del Romanticismo.
Il Foscolo, infatti, quale figlio dell’Illuminismo, incalzato dal
Romanticismo, è stimolato, sotto la pressione di spinte opposte e
inconciliabili, a trovare una soluzione, una formula di superamento,
congeniale alla sua indole.
Gli ideali illuministici, svaniti e messi in crisi con la rivoluzione
francese, gli effetti negativi della ragione, che avevano portato ad un
livellamento degli uomini, le ferree leggi del meccanicismo
deterministico, che assegnavano all’uomo, assorbito anch’egli dal
perenne ciclo di trasformazione della materia, una vita limitata nel
tempo, mal si accordavano con gli opposti principi del romanticismo
che, tra l’altro, esprimevano l’anelito all’infinito da parte degli
8
uomini, quell’ardente desiderio cioè di protrarre la loro vita oltre i
limiti terreni ed esaltavano il sentimento.
Fu così che il romanticismo divenne la forza vitale del
risorgimento italiano.
Nel Foscolo è visibilissima quell’aria di irrequieto dolore, quel
desiderio di pace e di oblio, che fu comune agli uomini e agli scrittori
della generazione romantica.
Il forte desiderio di fuggire da una vita troppo grave a vivere o a
combattere si tradisce dalle sue letture, che prediligevano i poeti della
solitudine, della astensione, quali Tibullo tra i classici, Pindemonte
tra i contemporanei, e dalla sua opera poetica.
La sua vita non rispondeva agli intimi bisogni della sua anima
perché egli era un malinconico e, se da un lato scrive che la
“malinconia è, dopo la noja la più vile infermità dei mortali”1,
dall’altro dice alla Fagnani di essere stato malinconico sin da
fanciullo e in un brano di lettera autobiografica, pubblicato nella
1
Lettera a Sigismondo Trechi, Firenze IX 1813, in Edizione Nazionale delle opere di
Ugo Foscolo, Epistolario, vol. IV, a cura di P. Carli, Le Monnier, Firenze, 1954.
9
Biblioteca Italiana2, narra di aver avuto una fanciullezza molto simile
a quella ipocondriaca dell’Alfieri:
“Nella mia fanciullezza fui tardo, caparbio, infermo spesso per
malinconia e talvolta feroce ed insano per ira...”; “Mesto i più giorni e
solo...” si rappresentava nel sonetto Il proprio ritratto.3
Ma anche più spesso il Foscolo vagheggia l’assoluta
soppressione del proprio Io, il suicidio, di cui, come ebbe a scrivere il
Donadoni, la rinunzia alla lotta e la stanchezza morale e l’indifferente
inerzia sono più ancora le forme attenuate, che i segni precursori
giacchè nel pessimismo è implicito, o nello stato larvato, o nello stato
manifesto il suicidio”.4
In realtà i suicidi abbondano in tempi di rivoluzione : quando
non tutti sanno adattarsi ai nuovi e violenti assetti sociali e quando,
come teorizza l’Alfieri nel trattato Della Tirannide5, il suicidio è la
2
Biblioteca Italiana, Dicembre 1830.
3
Sonetto Il proprio ritratto, 1802.
4
E. Donadoni, Ugo Foscolo: pensatore, critico, poeta, Sandron, Milano, pag.110.
5
“...là dove ci è patria e libertà, la virtù in sommo grado sta nel difenderla e morire per
essa, così nella immobilmente radicata tirannide non vi può essere maggior gloria che di
generosamente morire per non viver servo.
Parmi adunque che, nei nostri scellerati governi, i pochissimi uomini virtuosi e pensanti
vi debbano vivere da prudenti, finchè la prudenza non degenera in viltà; e morire da
forti, ogniqualvolta la fortuna o la ragione a ciò li costringa.
10
sola risposta alla tirannide che è tanto più pericolosa quanto più
appare illuminata e riformatrice.
Nel ritratto che Isabella Teotochi Albrizzi fa del Foscolo si
trova conferma del profilo su esposto:
“Libertà, indipendenza sono gl’idoli dell’anima sua.
Si strapperebbe il cuore dal petto, se liberissimi non gli
paressero i moti tutti del suo cuore.
Questa dolce illusione lo consola, e quasi rugiada rinfresca la
troppo bollente anima sua.
Alla pietà filiale, all’amistà fraterna, all’imperioso amore
concede talvolta un filo ond’essere ritenuto; ma filo lungo, debole,
mal sicuro contro l’impetuoso torrente di più maschie passioni.
Ama la solitudine profonda... .
Talora parlatore felicissimo e facondo, e talora muto di voce e
di persona.
Un cotal poco verrà ammendata così, con una libera e chiara morte, la trapassata
obbrobriosa vita servile”, cit. da V. Alfieri, Della Tirannide, 1777, a cura di A. Donati,
Laterza, Bari, 1927
11
Pare che l’esistenza non gli sia cara, se non perché ne può suo
disporre a talento...”.6
Come ben dice Fubini, il Foscolo “...non conobbe mai la forza
riposante dell’abitudine... .
Intemperante estremo in ogni suo atto e in ogni sua passione, ci
appare come uno spirito insonne che non concede tregua né a sé né ad
altri: ad ogni istante della vita sembra aver coscienza che tutto può
essere da lui conquistato, come tutto perduto.”7
Caratteri decisamente romantici presenta, dunque, la sua vita,
dove la libertà non è intesa come una condizione gratuita, ma come
una faticosa conquista.
Il Foscolo non amava i compromessi, e la “religione della
libertà”, veniva così a rispondere alla più cupa e inquietante
“religio” del mistero e del nulla, caratteristica di quella “civiltà di
crisi” entro cui il poeta si trovava a vivere.8
6
Isabella Teotochi Albrizzi,da <<Ritratti>> ,,Tomo I in Memorialisti dell’800, a cura di
G. Trombatore, pp.. 3-14.
7
M. Fubini, Ugo Foscolo, Saggi,studi,note, La Nuova Italia editrice, Firenze, pag. 35.
8
A. Frattini, Il Neoclassicismo e Ugo Foscolo, Universale Cappelli, 1965, pag.152.
12
Quasi tutti i critici sono concordi nell’affermare che non v’è un
cuore che più del suo abbia sentito fremere ed oscillare dentro di sé le
contraddizioni del suo tempo e mostrato le tracce di quella lotta
incessante e dolorosa, che si combatte tra la libertà umana e la
necessità.
“La perpetua inquietudine, il turbolento e quasi selvaggio
tenore di vita...la smania di mostrare in tutto un’impetuosa natura, una
indipendenza maggiore di quella che per le sociali relazioni è
concessa”, che già l’Ambrosoli gli riconosceva 9, dipingono la figura
di un uomo bramoso di un saldo ordine di vita, che vive da ribelle non
riuscendo a rassegnarsi e ad accettare quello che mancava al più delle
parti.
Le stesse lodi conferite al Bonaparte nell’ode a lui dedicata10,
non prendevano corpo da un animo inchinato alla servitù, come
9F. Ambrosoli, Notizie intorno alla vita ed agli scritti di Ugo Foscolo, in L. Carrer, Vita di Ugo
Foscolo, a cura di C. Mariani, Bergamo, 1995, pp. 394-395.
10
“...Né per te glorioso, né per me onesto sarebbe s’io adesso non t’offrissi che versi di
laude.
Tu se’ omai più grande per i tuoi fatti, che per gli altrui detti: né a te quindi
s’aggiugnerebbe elogio, né a me altro verrebbe tranne la taccia di adulatore.
Onde t’invierò un consiglio, che essendo da te liberalmente accolto, mostrerai che non
sono sempre insociabili virtù e potenza, e ch’io, quantunque oscurissimo, sono degno di
laudarti perché so dirti fermamente la verità.
Uomo tu sei e mortale e nato in tempi ove la universale scelleratezza sommi ostacoli
frappone alle magnanime imprese, e potentissimi incitamenti al mal fare.
13
ai meno attenti e più critici è potuto sembrare, ma si propongono come
un pretesto per esporre opinioni che altrimenti non sarebbe stato
possibile accennare.
La sua parola voleva essere serena, scevra dell’astio di coloro
che sono ribelli perché invidiano chi comanda, come libera della
servitù di chi adula.
“Tutti lo additarono come l’uomo il quale, anche a costo
dell’utile proprio, aveva avuto il raro coraggio di pronunziare la verità
senza velo: in una parola, l’Italia tutta riconobbe il Foscolo per il solo
intrepido campione della sua civile indipendenza.”11
Il Foscolo vedeva in Bonaparte la libertà, quella per cui egli e
migliaia d’uomini della sua tempera avevano sacrificato ogni cosa.
Quindi o il sentimento della tua superiorità, o la conoscenza del comune avvilimento
potrebbero trarti forse a cosa che tu stesso abborri. Né Cesare prima di passare il
Rubicone ambiva alla dittatura del mondo.
Anche negli infelicissimi tempi le grandi rivoluzioni destano feroci petti ed altissimi
ingegni.
Che se tu aspirando al sommo potere sdegni generosamente i primi, aspirando alla
immortalità, il che è più degno delle sublimi anime, rispetterai i secondi.
Avrà il nostro secolo un Tacito, il quale commetterà la tua sentenza alla severa
posterità.”, cit. dall’ode A Bonaparte Liberatore, in Ugo Foscolo, Opere, a cura di M.
Puppo, Mursia,1966-69.
11
W. Binni, Foscolo e la critica, La Nuova Italia, Firenze, 1966, pag. 97.
14
Egli si adattava al regime napoleonico per la necessità di essere
cittadino, per avere veramente una patria; per la sua indipendenza,
chiedeva una vita libera, ma non astratta né avulsa dalla realtà.
Annota il Binni: “...Non avversò il dominio del Bonaparte, sol
perché, comunque si giudicasse, scoteva gli Italiani dall’inerzia
secolare e li gettava nell’agitazione e nell’azione12; e ripugnò invece a
quello dell’Austria, che mirava ad acquietare e ad addormentare.”13
“Fremebondo patriotta”, come lo definisce il Chiarini ed
eloquente arringatore, il Foscolo vuole la libertà pura e vuole in armi
l’Italia; odia i tiranni e detesta i demagoghi; invoca leggi precise e chi
le sappia mantenere contro qualsiasi corruttela o prepotenza.
“Abborro tutta questa chiamantesi società - scrive in una lettera
al Cesarotti 14-; la mia anima, nata alla verità, alla meditazione ed
all’amicizia, non può ad ogni istante fingere ed adulare, non può
svagarsi per dilettare una torma di miserabili, e non conosce che le
12Nella Lettera Apologetica ,rivolgendosi agli “uomini letterati di Italia” dice:
“Bastava, se guardandovi dal prostituire adulazioni al Redentore della Francia, ed al
Rigeneratore dell’Europa, aveste giustamente lodato Napoleone di ciò che dava
all’Italia”, cit. Ugo Foscolo, Lettera Apologetica, a cura di G. Nicoletti, Einaudi,
Torino, 1978, pag. 26.
13
W. Binni, Foscolo e la critica, La Nuova Italia, Firenze, 1966, pag.168.
14Lettera a M. Cesarotti, Venezia II, 1796, in Edizione Nazionale delle opere di Ugo
Foscolo, Epistolario, a cura di P. Carli, Le Monnier, Firenze, 1954.
15
espressioni che escono direttamente dal core, né bada che a’ dolci
legami che stringe la virtù e la innata morale dell’anima”.15
L’indignazione alla vista delle brutture morali di un’età così
insicura e quasi priva di principi, fa sì che si presenti in modo
affascinante al Foscolo la figura del “libero scrittore” Vittorio Alfieri,
di quello scrittore dall’indole altrettanto feroce e ribelle che disdegna
la vita comune e i suoi tempi e aspetta ed auspica il riscatto del popolo
italiano in nome di una antica grandezza:
“Giorno verrà, tornerà il giorno in cui
redivivi omai gl’Itali, staranno
in campo audaci, e non col ferro altrui
in vil difesa, ma dei Galli a danno”.16
E dunque nel Foscolo si ravvisa l’erede dell’Alfieri.
Un Alfieri che discende dal suo piedistallo e si mescola alla
lotta reale: un militante dell’azione là dove l’Alfieri era stato un
militante della parola.
15G. Chiarini, La vita di Ugo Foscolo, Barbera, Firenze, 1927, pag. 38.
16Vittorio Alfieri, Misogallo, Giorno verrà, 1793-1798.
16
La differenza che corre tra l’Alfieri e il Foscolo o, se vogliamo,
tra il maestro e il discepolo per i riscontrati rapporti, è questa:
l’Alfieri, indignato dei tempi e del comportamento degli uomini, si
chiude in se stesso, evade completamente dalla realtà contemporanea,
si foggia un ideale di vita eroica ed astratta nello stesso tempo, ispirata
da figure mitiche della preistoria e, fiero del suo distacco dalla massa,
impronta la sua arte ad un’esigenza prettamente aristocratica, per cui il
suo messaggio, proprio perché proveniente da una sfera assai lontana
dal reale, opera, almeno nell’immediato, con scarsi risultati sul terreno
pratico.
Il Foscolo, invece, pur richiamato dalla sua natura ad una
visione eroica della vita, è costretto dalla sorte a fare i conti con le
necessità del momento, con la realtà quotidiana, una realtà ben
diversa da quella di un Settecento in cui ci si illudeva di un
rivolgimento politico che avrebbe portato alla felicità del genere
umano.
Così il Binni sintetizza la diversità del loro sentire:
17
“...Alfieri è l’illusione. Foscolo è il disinganno. E tutti e due
sono la vuota idealità del loro secolo.
L’uno non ne ha coscienza, anzi ha l’orgoglio e la fiducia di chi
sente nella vita, l’altro ne ha una coscienza che l’uccide.
L’uno ha tutta l’energia dell’illusione, quella energia che ispira i
grandi pensieri e i grandi fatti.
L’altro ha tutte le disperazioni del disinganno, quelle
disperazioni da cui escono le nuove illusioni e le nuove speranze.”
17
Certamente nel Foscolo rimane l’eredità alfieriana del “libero
scrittore”, rimane il culto della libertà, ma non può rimanere
l’isolamento alfieriano che lascia il posto ad una visione più realistica
e meno eroica.
18
17
W. Binni, Foscolo e la critica, ,La Nuova Italia, Firenze, 1966, pag.128.
18
M.Fubini, Ugo Foscolo, Saggi, studi,note, La Nuova Italia editrice, Firenze, pp. 41-42.
In una lettera alla d’ Albanì, il Foscolo scrive: “L’Italia è cadavere, e non va tocco né
smosso più omai, per non provocare più tristo il fetore; e odo talvolta alcuni pazzi che
vanno fantasticando vie di ressuscitarla: per me invece la vorrei seppellita meco, e
innondata da’ mari, o arsa da qualche nuovo Fetonte, che le precipitasse addosso con
tutto il cielo in fiamme e che tutti i quattro venti ne disperdessero le ceneri, e che le
nazioni presenti e avvenire si dimenticassero l’infamia del nostro secolo. Amen.”, Lettera
alla d’Albany, Ottobre 1814, Epist., V, p.264.