2
mi svegliai una mattina mezzo cieco. L'oculista disse che guasti organici non c'erano.
Forse mi ero sforzato troppo a guardar quadri? E se avessi provato orizzonti più vasti?
(Bruce Chatwin, 1996
3
)
Con un telegramma inviato al Sundey Times, dove lavorava, Chatwin dà
così inizio al suo primo grande viaggio: “Sono andato in Patagonia”.
C’è il coraggio di lasciare le proprie sicurezze, che poi può essere anche
necessità di lasciare una quotidianità che soffoca. E’ l’ horreur du domicil
di Baudelaire:
Non importa dove! Non importa dove! Purché sia fuori da questo mondo!
(Charles-Pierre Baudelaire
4
)
C’è il bisogno di conoscenza, la voglia di scoprire ed imparare:
Ecco perché il Piccolo Principe aveva dovuto lasciare la sua stella e la sua rosa. Per
prendere a poco a poco conoscenza.
(Antoine de Saint-Exupérie, 1943
5
)
Ma perché è più interessante ciò che è lontano? Perché non è sufficiente
conoscere il proprio mondo?
Quelle cose per conoscere le quali ci mettiamo in cammino e attraversiamo il mare, se
sono poste sotto i nostri occhi non ce ne curiamo.
(Plinio il Giovane
6
)
Forse perché viaggiare permette di conoscere gli altri, ed attraverso gli
altri, se stessi. Permette di scoprire alternative inimmaginate, di svincolarsi
dai lacci dei sistemi sociali, basati sulla fissità della persona, sulla sua
continuità ed immutabilità, considerate come garanzia di onestà e di
carattere: le società fanno pressione sugli individui ad essere “una cosa
sola”. Ma l’identità umana è mutevole e molteplice.
3
Bruce Chatwin (1940-1989) esperto d’arte e archeologo, giornalista, esploratore e narratore, vive una
vita breve, intensa, errabonda; con i suoi libri e i suoi viaggi cerca di rispondere alla domanda:”Perché
divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?”
ed. consultata: Bruce Chatwin, trad. it. 1996
4
Charles-Pierre Baudelaire (1821-1867) poeta, scrittore, critico francese, dà voce nei suoi scritti al
bisogno di evasione; ed. consultata: Charles Baudelaire, trad. it. 1970
5
Antione de Saint-Exupérie (1900-1944), scrittore e pilota francese; di grande successo il suo libro Il
piccolo principe. L’autore muore un anno dopo la pubblicazione in un incidente aereo: il suo corpo, come
quello del Piccolo Principe, ed il relitto dell’aereo non verranno mai ritrovati…
Ed. consultata: Antoine de Saint-Exupérie, trad. it. 2000
6
Plinio il Giovane (61 o 62-113 d.C.) scrittore romano; la citazione è tratta da Eric Leed, trad. it. 1992
3
Lo scarto tra l’immagine che gli altri hanno di una persona e quella che
lei ha di se stessa, tra quello che è nella realtà e quello che vorrebbe
essere, è lo spazio in cui prende vita il desiderio del viaggio.
Per trovare la libertà, bisogna uscire dalla struttura di un unico sistema e
capire altre culture: è la possibilità di scegliere i modi in cui dare senso alla
propria vita che permette di essere liberi. E’ la libertà di credere in se
stessi, nei propri sogni, come fa il gabbiano Jonathan Livingston:
Altro che far la spola tutto il giorno, altro che la monotonia del tran-tran quotidiano sulla
scia dei battelli da pesca! Noi avremo una nuova ragione di vita. Ci solleveremo dalle
tenebre dell’ignoranza, ci accorgeremo d’essere creature di grande intelligenza e
abilità. Saremo liberi! Impareremo a volare!
(Richard Bach, 1970
7
)
E all’inizio di un viaggio spesso c’è un sogno: un nome che stimola la
fantasia, un richiamo della strada, delle montagne, del mare, del
deserto…
Capii che ci sono viaggi che scegliamo noi, e che ce ne sono altri dai quali veniamo
scelti.
(Bruce Feiler, 2001
8
)
Solo facendo quel viaggio, si capirà perché lo si doveva fare, e si darà
voce ad una parte di sé che chiede di venir fuori. E se qualche volta è
difficile partire, le abitudini, il dovere, gli impegni, la mancanza di tempo, il
dubbio, le aspettative della altre persone… sembrano ostacoli
insormontabili, non dimentichiamo che
C’è solo una cosa peggiore del viaggiare, ed è il non viaggiare affatto.
(Oscar Wilde
9
)
7
Richard Bach (1936-), pilota militare americano, appassionato a tutte le forme di volo: aliante,
parapendio… Il suo libro Jonathan Livingston Seagull ottiene un’enorme successo. Ed consultata:
Richard Bach, trad. it. 1970
8
Bruce Feiler, gioralista e scrittore contemporaneo, vive negli Usa, dove collabora con il New York
Times e con il New Yorker; ed. consultata: Bruce Feiler, trad. it. 2003
9
Oscar Wilde (1856-1900) scrittore irlandese, famoso rappresentante dell’estetismo decadente;
citazione tratta da http://digilander.libero.it/marcaval a cura di Marco Cavallini
Prima parte
Dalle origini a oggi:
come cambiano il concetto e il senso del viaggio
sentiero nel bosco
Il viaggio nell’antichità
I bambini piccoli stanno vicino al seno della madre
in una fascia di pelle, e il lieve ondeggiare della camminata
li culla e li contenta. Quando una madre culla il suo bambino,
essa imita, inconsapevolmente, la buona selvaggia
che cammina adagio per la savana erbosa.
(Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza )
Cap.1 Le società nomadi
Imageren, “uomini liberi”: così si definiscono gli uomini blu del deserto. Di origine berbera,
sono i primi abitanti del Maghreb. Questo popolo fiero e combattivo, che preferisce il
deserto ad ogni tipo di sottomissione, sarà chiamato dagli invasori arabi tuaregh che
significa “isolati, abbandonati da Dio”. Nel corso dei secoli saranno gli indiscussi signori e
padroni del deserto insieme ai Mauri e ai Toubous.
6
1.1 La struttura socio-politica delle società nomadi
L’evoluzione ci ha voluti viaggiatori. [...] L’insediamento prolungato ha un asse verticale
di circa diecimila anni, una goccia nell’oceano del tempo evolutivo. Siamo viaggiatori
dalla nascita. [...] I pochi popoli “primitivi” degli angoli dimenticati della Terra
comprendono meglio di noi questa semplice realtà della nostra natura. Sono in
perpetuo movimento.
(Bruce Chatwin, 1996
1
)
Per i primi gruppi umani la mobilità è un mezzo di adattamento
all’ambiente, così come lo è per gli animali, e tale rimane per i popoli
nomadi dediti alla caccia e alla raccolta. Con il tempo, la mobilità crea
un particolare tipo di struttura sociale ed ha degli importanti effetti
sull’organizzazione politica dei gruppi umani.
Le società viaggianti sviluppano un “sistema sociale segmentale” invece
che gerarchico, tipico delle società stanziali (Eric Leed, 1991); le famiglie
nomadi cioè sono economicamente autonome e le società nomadi si
costituiscono grazie all’aggregazione di più nuclei familiari, che
potrebbero comunque esistere indipendentemente l’uno dall’altro ed
eventualmente anche in rapporti di ostilità reciproca.
L’autosufficienza, l’indipendenza e l’autonomia di ogni famiglia sono i
caratteri più tipici di queste società, e sono il senso di vulnerabilità e di
insicurezza insiti nella situazione di viaggio a cementare il gruppo
viaggiante e e ad essere all’origine dei suoi rapporti interni di reciprocità.
Le famiglie, piccole e indipendenti, si mantengono collegate tra loro
grazie ad accampamenti, mercati, dei e discendenze comuni; i
banchetti e le feste sono i principali momenti di aggregazione che
uniscono gruppi altrimenti indipendenti; oppure, i gruppi nomadi si
riuniscono per occasioni e scopi speciali e si sciolgono quando gli scopi
sono stati raggiunti.
Le società nomadi in questo modo alternano momenti di scissione a
momenti di aggregazione: le alleanze si susseguono alle ostilità, il sistema
politico è un insieme flessibile di regole che determinano aggregazioni e
conflitti.
La struttura politica che mantiene unite le società nomadi è elastica e di
tipo triadico: all’interno è caratterizzata dal rapporto che si viene a creare
tra capo e seguaci; all’esterno dalla contrapposizione del gruppo in
viaggio con gli ambienti attraversati o con altri gruppi ostili.
1
ed. consultata: Bruce Chatwin, trad. it. 1996
7
Le qualità che sono richieste ad un capo nomade sono la generosità, la
capacità di prendere l’iniziativa, l’abilità come guida, la capacità di
trovare le risorse alimentari e di calcolare e progettare i tempi dei viaggi.
L’autorità del capo non dipende però né dalla sua carica, né dalla sua
discendenza o dalla sua importanza sociale, ma dall’efficacia delle sue
azioni: il capo può essere riassorbito dal gruppo se si dimostra inefficiente.
Proprio a causa di questa elasticità e della costante mobilità, le società
nomadi sono quasi sempre “democratiche”, perché non possono esistere
senza il rinnovo attivo e costante del consenso dei propri membri.
Ciascuna unità del gruppo può infatti “votare con i piedi” e andarsene: le
società nomadi sono associazioni volontarie e consapevoli. Da ciò deriva
l’importanza del dibattito all’interno dei gruppi nomadi e la relativa
assenza di schiavitù. Non si può mai dare per scontata l’unità del gruppo,
come nelle situazioni sedentarie, caratterizzate da mura e confini (Eric
Leed, 1991
2
).
Eppure, il sistema risulta stabile, efficace e resistente, talvolta si rivela duro
e intollerante, e mantiene vive le società nomadi, che non si sgretolano,
pur sapendo di potersi dissolvere in qualsiasi momento.
Scrive Wallace
3
a proposito della società di mercanti delle isole Aru
4
:
Questa popolazione eterogenea, ignorante, sanguinaria, ladra, vive lì senza ombra di un
governo, senza polizia, senza corti di giustizia, senza avvocati; eppure non si tagliano la
gola a vicenda; non si rapinano giorno e notte; non cadono in quell’anarchia a cui si
potrebbe pensare che un tale stato conduca. E’ molto strano! Suscita strani pensieri
sull’enorme fardello amministrativo sotto il quale vive la gente in Europa e fa pensare
che forse siamo sovragovernati.
(Alfred Russel Wallace, 1869
5
)
In società così lontane da quelle che noi siamo abituati a chiamare
società libere e democratiche, esistono dunque –anche se concretizzate
in modi diversi- la libertà e la democrazia. La libertà del nomadismo in
particolare nasce dall’assenza di abitazioni stabili, e dalla semplicità delle
condizioni materiali: il nomade in tempi di emergenza sa rinunciare ad
ogni possesso, fatta eccezione per le cose più trasportabili. E il motto del
globetrotter moderno, less is more, si adatta perfettamente alla filosofia
della vita nomade.
2
Eric J. Leed, (1943-) professore americano presso la Florida International University di Miami.
3
Alfred Russel Wallace (1823-1913) viaggiò raccogliendo esemplari di piante in Amazzonia,
nell’Arcipelago Malese e nelle Isole delle Spezie (conosciute anche come Molucche, le Isole delle
Spezie corrispondono alle attuali isole Maluku dell’arcipelago indonesiano).
4
le isole Aru sono un gruppo di isole coralline, un’ottantina, nell’arcipelago delle Molucche, coperte da
foresta vergine.
5
tratto da Eric Leed, trad. it. 1992
8
1.2 Società nomadi e società stanziali
I popoli antichi che vivevano nelle città percepivano questi gruppi sociali
mobili da un punto di vista negativo, per ciò che mancava loro e per il
pericolo e la minaccia che rappresentavano: questi popoli erano bellicosi
e selvaggi, ma allo stesso tempo vulnerabili alla conquista, alla
colonizzazione e alla sottomissione da parte di eserciti civili.
Secondo gli antichi la selvaticità e la bellicosità dei nomadi avevano a
che fare con la loro separazione gli uni dagli altri e con l’assenza di quei
collegamenti che formano la trama dei gruppi civili stanziali. Anche la
debolezza dei barbari era vista come conseguenza della loro pretesa
autosufficienza e autonomia. Inoltre gli antichi consideravano i popoli
nomadi “poveri”: la loro esistenza si svolgeva ad un livello di sussistenza,
non possedevano ricchezze, nè praticavano l’agricoltura; li
consideravano disorganizzati, individualisti, disuniti, abituati a rispondere
solo a se stessi.
In realtà, come abbiamo visto, il livello di coesione raggiunto tra i gruppi
nomadi varia in funzione della forza e del numero degli avversari, in
funzione delle necessità e delle cirscostanze: il livello di unificazione
politica si contrae e si espande e la società nomadica si modifica
continuamente. Un proverbio beduino recita:
Io contro mio fratello. Io e mio fratello contro il mio cugino. Io, mio fratello e nostro
cugino contro i vicini. Tutti noi contro lo straniero.
(Bruce Chatwin, 1987
6
)
Ma le stesse caratteristiche considerate negative dagli stanziali, vengono
talvolta considerate delle virtù, dei pregi che il mondo civilizzato ha ormai
perduto: la povertà del nomade viene vista come una specie di
ascetismo, purificazione, riduzione dei bisogni alle reali necessità.
Vengono apprezzate la capacità di adattamento e la disponibilità
all’innovazione dei popoli viaggianti: anche se nella maggior parte dei
casi i nomadi sono pastori, essi si adattano a molte nicchie economiche,
diventando cacciatori, raccoglitori, manodopera itinerante, mercanti,
trasportatori, carovanieri, ed anche predoni e saccheggiatori.
Gli studiosi contemporanei osservano nei gruppi nomadi le stesse
caratteristiche che erano state descritte dai popoli antichi, ma
interpretano questi fenomeni più positivamente (Eric Leed 1991).
L’autosufficienza, considerata dagli antichi come disunione, dagli studiosi
moderni viene interpretata come individualismo. Inoltre, si considera la
6
ed. consultata: Bruce Chatwin, trad. it. 1993
9
ricchezza in modo diverso, contestualizzato: per quanto riguarda i popoli
dediti alla pastorizia, la loro ricchezza assume soltanto una forma diversa
da quella delle popolazioni civili. Per il nomade il capitale è il gregge; il
capo del gruppo di pastori deve investire questo capitale in rapporti
sociali invece che materiali, quindi il gregge viene dato in dote,
assegnato ai figli o utilizzato per creare una buona reputazione grazie ai
banchetti offerti agli ospiti. La povertà del nomade è in realtà una
ricchezza nascosta, mobile e circolante.
1.3 La percezione del tempo libero nelle popolazioni
nomadi
Tutti gli osservatori di queste società sono stati colpiti da quanto poco
lavorano i popoli nomadi: il tempo libero sembra essere uno dei loro beni
principali. Nel suo studio sugli aborigeni della Terra di Arnhem
7
McArthur
sostiene che in media un uomo o una donna devono lavorare meno di
quattro ore al giorno (Norma McArthur, 1967). Nelle società di pastori la
maggior parte del lavoro con le greggi è affidato a giovani e bambini e i
compiti domestici sono affidati alle donne; la vita degli uomini di
conseguenza è relativamente oziosa. Gli uomini beduini passano gran
parte del tempo a parlare, bere caffè e fumare. Le greggi, la selvaggina
e le risorse di cibo naturali aumentano senza l’intervento del lavoro
umano: è la migrazione che massimizza la disponibilità di risorse; per i
popoli nomadi dunque la ricchezza deriva dalla mobilità, non dal lavoro.
E’ principalmente per questo motivo che essi hanno una percezione del
tempo libero così diversa dalla nostra visione attuale. Nella società
moderna tempo libero signfica soprattutto “tempo liberato dal lavoro”, è
un ritaglio frettoloso tra i mille impegni quotidiani, un tempo da riempire
con attività extralavorative, che permettano alle persone di rilassarsi,
sfogarsi, dedicarsi a se stesse. Nelle società nomadi invece il tempo libero
e le attività produttive non sono nettamente separate, non esiste un
“orario lavorativo”; i nomadi si incontrano, discutono di affari, si
scambiano informazioni e merci durante tutto l’arco della giornata; quello
che differenzia notevolmente il loro stile di vita dal nostro, è il ritmo. E’
come se il tempo scorresse più lento e non avesse bisogno di essere
“riempito”; esso è scandito soltanto dalla notte e dal giorno e, soprattutto,
dal lento susseguirsi dei passi. Il tempo, nelle società nomadi, è
semplicemente il tempo: un tempo da vivere, un tempo che fa
naturalmente parte dei ritmi della vita.
7
La Terra di Arnhem è una penisola situata nell’Australia settentrionale.
10
1.4 Spiritualità e religiosità in viaggio
Anche gli aspetti religiosi delle società nomadi sono una conseguenza
della mobilità, che smaterializza gli dei e diminuisce il numero degli idoli;
spesso i popoli nomadi si limitano a praticare pochi e semplici riti, anche a
causa dell’assenza delle attrezzature stabili della religione. Ma la vita
nomade è comunque intrisa di spiritualità: il percorso della migrazione
crea una mappa del territorio che lo mitizza e stabilisce località sacre e
luohi di accampamento storici. Questa dinamica di movimento crea in
un certo senso un “paese”, formato dai luoghi magici e dai percorsi che li
collegano. Sia La Mecca che Gerusalemme sorgono in località dove in
origine si svolgevano feste e riunioni periodiche di popoli nomadi.
Spesso, i popoli viaggianti portano con sè un semplice oggetto,
facilmente trasportabile, che racchiude il significato di tutta la loro
religiosità. Tra le tribù degli aborigeni australiani ci sono gli Aranda,
cacciatori-raccoglitori nomadi, che nei loro spostamenti portano con sè
un oggetto sacro, il palo kauva-auva, che il mito vuole costruito dal dio
Numbakulla e irrorato di sangue umano. Il palo viene piantato ogni volta
nell’accampamento e rappresenta insieme il centro del mondo e la
meta del peregrinare. E’ assolutamente vitale che la tribù abbia con sé il
palo in ogni spostamento, in quanto costituisce una sorta di santuario e di
meta simbolica (Eric Leed, 1991).
Una parte importante della spiritualità e del senso storico delle società
nomadi è tenuto vivo dal ricordo di antenati comuni. Questi antenati
sono spesso eroi o patriarchi immaginari, personificazioni della collettività,
anche se in qualche caso sono individui e capi storici realmente esistiti. La
figura, immaginaria o reale, del padre, del progenitore comune, è resa
necessaria proprio dall’autonomia, dalla mobilità e dall’indipendenza del
gruppo nomadico ed ha lo scopo di mantenere viva l’identità collettiva.
Sembra un controsenso, ma proprio i popoli nomadi hanno un bisogno
essenziale di “radici”, ideali se non fisiche. Da questo bisogno di radici e
continuità storica deriva la loro ossessione per le genealogie.
L’essere umano dunque è divenuto “uomo” nella savana africana,
spostandosi nelle vaste praterie erbose alla ricerca di cibo e riparo. Fino al
Neolitico è stato cacciatore o raccoglitore e soltanto con l’allevamento e
l’agricoltura ha scoperto la sedentarietà. A questo punto, ha potuto
scegliere: stanzialità o nomadismo sono le due grandi alternative che
inaugurano la vita degli uomini.
11
Le immagini delle società nomadi che noi abbiamo, sono inevitabilmente
plasmate dalla nostra mentalità di osservatori stanziali. Spesso i nomadi
sono considerati incivili, e tutte le parole usate tradizionalmente nei loro
confronti sono cariche di pregiudizi: randagi, vagabondi, instabili, barbari,
selvaggi. I nomadi vengono esclusi dal mondo civile, sono dei reietti. Non
a caso la Bibbia, scritta da un popolo originariamente nomade, ma ormai
stanzializzato, ci dice che Caino errò sulla superficie della terra.
Ma la presunzione di superiorità morale qualche volta, e ciclicamente, si
accompagna ad un senso di adorazione, quasi d’invidia, per la stessa
vita nomade: quando la civiltà soffoca, viene naturalmente vista come
qualcosa da cui evadere, e il sogno dell’uomo civile diviene quello di una
vita naturale, identificata con quella del nomade o del “buon selvaggio”.
La domanda che Chatwin, spirito irrequieto e intollerante verso
l’irregimentazione prodotta dalla civiltà, si pone, è infatti la seguente:
la civiltà è una cosa naturale, una condizione a cui hanno
irrevocabilmente portato molte culture diverse? Le culture sfociate in
qualcos'altro sono culture fallite o alternative alla civiltà? Oppure la civiltà
è un’accidente contro natura? Coloro che hanno resistito con successo
alla civiltà o non ne sono stati toccati, possiedono un segreto di felicità
che i civilizzati hanno perduto?
Certo, non è facile rispondere a queste domande, che Chatwin infatti
lascia aperte. Ma l’impossibilità per l’uomo di sentirsi soddisfatto e
appagato da una vita esclusivamente stanziale e il desiderio di viaggiare,
danno forse una chiave di lettura, se non una risposta, a queste
domande.
L’uomo è nato nomade. E, anche per la parte di umanità, la stragrande
maggioranza, che ha scelto la vita stanziale,
[...] le istruzioni codificate nei geni si sono mantenute e lo spostamento è rimasto
un’attività fondamentale nella storia dell’uomo, sia come ricerca di varietà che come
momento di profonda valenza culturale.
(Chatwin, 1996
8
)
8
ed. consultata: Bruce Chatwin, trad. it. 1996