6
Premessa
Occuparsi di un poeta contemporaneo e per di più vivente è un’operazione
decisamente affascinante; certo esiste una scarsa bibliografia da prendere in
riferimento, ma almeno è possibile interloquire direttamente con l’autore. La
componente umana acquisisce quindi un valore fondamentale, il dialogo con l’autore
arricchisce lo studioso e presenta al proprio lavoro una luce completamente diversa
da quella classica dello studio prettamente bibliotecario. È pur vero che nel caso di
Cesare Viviani – è lui l’autore in questione – c’è da fare i conti con una ricca
produzione in chiave di auto commento, ma se a questa aggiungiamo anche la voce
viva del poeta l’operazione risulterà particolarmente intrigante; ne scaturisce infatti
un dialogo a doppio senso che si integra in maniera ancora più soddisfacente come,
spero vivamente, questo lavoro tende a dimostrare.
Cesare Viviani è poeta senese ma ormai convinto milanese d’adozione («Alla
fine l’unico merito che ho avuto/ è quello di aver vissuto/ molti anni a Milano»)
1
ed è
anche uno degli autori più prolifici del panorama italiano: ben dodici raccolte
poetiche, una romanzo epistolare, quattro saggi critici sulla poesia del Novecento e
due saggi di psicanalisi. Viviani è infatti psicanalista junghiano e il rapporto tra
questa sua attività e la poesia risulta decisivo per la comprensione della poetica; in
questo lavoro verrà presa in analisi l’ultima parte della sua produzione, quella
compresa nell’arco di tempo che va dal Duemila ai giorni nostri, da Silenzio
dell’universo a Credere all’invisibile con un’appendice di lettura dedicata
all’ultimissima raccolta Infinita fine. Questo periodo è stato definito da Enrico Testa
come la fase di “poesia-pensiero” dell’autore, fase in cui il poeta recupera una piena
autonomia formale, in cui la grammatica si ricompatta definitivamente e la poetica
rimugina e riflette su se stessa dando risultati alterni e decisamente originali; una
poesia mistica, salmodiale fatta di ritmi veloci e scanditi dal verso breve e una poesia
prosastica, quasi romanzo in versi, che si snoda intorno al verso lungo, spesso doppio,
e legato all’ipometria e all’ipermetria.
Il tema dominante è poi sempre quello degli inizi: l’incomprensibilità della
realtà. Viviani dedica una vita (poetica) intera all’analisi della realtà e della sua
imperscrutabilità. Dagli inizi sperimentali dominati da una parola frantumata dal
lapsus freudiano, ma meglio sarebbe dire dal “trauma lacaniano”, ai lenti e
progressivi recuperi della forma fino all’approdo della poesia-pensiero. Questo lavoro
intende analizzare come si arriva agli esiti delle ultime cinque raccolte prendendo in
1
Cesare Viviani, Infinita fine, Einaudi, Torino 2012, p. 62.
7
esame le opere pregresse di Viviani con particolare attenzione al capolavoro di
esordio L’ostrabismo cara, geniale frattura nella poesia italiana, fino ad arrivare alla
consapevolezza formale degli ultimi anni. Il tutto visto in considerazione di una
parola-chiave: “limite”. Viviani dimostra infatti di essere anche un abile sociologo e
individua il punto cardine della nostra società moderna, quella modernità che
Bauman
2
ha definito “liquida”. La caduta di ogni tipo di confine, da quelli
geometrico-matematici a quelli prettamente geografici, lascia paradossalmente campo
al limite dell’uomo che non riesce a interpretare ciò che lo circonda e, forse, non può
farlo. La dimensione della poesia di Viviani è quella dello stordimento, uno
stordimento che può essere superato solo attraverso la parola poetica e la fede
assoluta verso questa. Il misticismo del poeta senese è dovuto proprio alla parola, al
potere immane del significante che trova la forza di autoregolarsi e per questo
divenire ancora più potente e autoritario. In questo lavoro verranno appunto
analizzate le ultime quattro opere di Viviani: Silenzio dell’universo (2000), Passanti
(2002), La forma della vita (2005) e Credere all’invisibile (2009). In più ci sarà
un’appendice riguardante l’ultimissima raccolta Infinita fine appena uscita e
assolutamente pertinente con la filosofia della poesia-pensiero ma di cui manca il
tempo per approfondire in modo adeguato l’analisi. Accanto a un’analisi metrico-
stilistica dei testi si darà rilevanza al confronto con i modelli poetici italiani e con
l’intertestualità interna dell’autore stesso mettendo sempre come punto cardine il
concetto di “limite”. Il titolo del lavoro Il senso del limite vuole alludere proprio a
questo, a una poesia che non ha eguali nell’ambito italiano e che, fondendo la sfera
mistico-sensoriale a quella rigidamente formale-grammaticale, dà esiti
straordinariamente originali come se Viviani avesse trovato la chiave poetica che
sussiste nel rapporto saussuriano tra significato e significante o tra l’uomo e se stesso.
Allo stesso tempo risulta molto difficile catalogare Viviani in una corrente
poetica piuttosto che in un’altra; se è vero che nasce come poeta sperimentale-
avanguardista, poi si evolve lentamente verso una dimensione piena di poesia-
pensiero fino ad accostarsi al misticismo praticamente in contemporanea con una
forma poetico-narrativa ben marcata; non mi viene in mente altro metodo di
catalogazione che quello, ancora una volta, elaborato da Enrico Testa: Viviani è un
poeta che si inserisce “dopo la lirica”
3
. Un’intera stagione poetica che parte dalla
metà degli anni Sessanta e arriva ai giorni nostri, una stagione che prevede
«l’ingresso e la stabilizzazione di un linguaggio fortemente parlato; la perdita di
centralità del soggetto poetante; il rapporto con le grandi questioni del pensiero, e in
2
Si veda Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002.
3
Si veda Enrico Testa, Dopo la lirica, Einaudi, Torino 2005.
8
particolare con il nichilismo nelle sue varie espressioni, la presenza di motivi e
strutture antropologiche; scomparsi che ritornano, visioni arcaiche dell’essere,
animismo della natura, oggetti e realtà che guardano e interrogano»
4
. Viviani sviluppa
tutte queste suggestioni – e non a caso nell’antologia di Testa sono presenti tutti i
modelli del poeta senese: Luzi, Fortini, Zanzotto, Giudici, Raboni, ma anche Porta,
Cacciatore, Rosselli – risultando «forse quello che ha poi compiuto il percorso più
ricco e complesso, caratterizzato da netti mutamenti formali e da una sostanziale
fedeltà a pochi principi di fondo»
5
. E proprio questa fedeltà nei confronti della realtà
e in particolare alla sua incomprensibilità e al conseguente concetto di “limite”, è il
tratto fondamentale e unico della poesia di Viviani. Quella realtà «che assume, in
sintesi, l’aspetto – anche nella devastazione odierna – di una figura di reverenza verso
l’esistente, il suo possibile senso e le sue relazioni: trascendenti e simboliche perché
quotidiane»
6
. La grandezza di Viviani sta nell’aver percorso strade differenti per
approdare comunque al risultato già prefissato fin dalla prima raccolta, una
grandezza, come tutte quelle veramente “grandi”, fatta di umiltà e ricerca continua
unite a un notevole talento poetico. È una poesia che si muove per coazione a ripetere
e che allo stesso tempo sente la necessità impellente di cambiare e di interrogarsi
nuovamente; una poesia vera che ha il coraggio di mettersi in discussione e di
sperimentare il limite, suo e forse anche universale, sulla propria pelle e quindi su
quella esistenziale del poeta. Un percorso complesso e articolato in dodici raccolte
che riesce meravigliosamente a darsi sempre la stessa risposta: il senso del limite,
quello posto appunto “dopo la lirica”, è la poesia stessa e la sua metamorfosi
costante, infinita:
è come se Viviani avesse voltato le spalle anche all’equilibrio o, meglio, al problema, alla
matematica dell’equilibrio, per incamminarsi decisamente verso la ricerca di una cantabilità
assoluta e quasi senza tempo, che proietta abbozzi di racconto e filamenti di senso in un campo di
luminosità inalterabile, come profili di santi o condottieri sul fondo d’oro di antiche tavole (non per
niente, viene da pensare, Viviani è nato a Siena…). Eppure, è impossibile sentire il nuovo approdo
di questa poesia come un semplice “ritorno all’ordine”. Evidentemente, lo spazio che separa il
dadaismo dal gotico internazionale è più breve e meno drammatico di quanto non sospettassimo: e
simile, nell’uno e nell’altro, può essere la messa tra parentesi dell’emozione per l’impeccabile
libertà della linea
7
.
Raboni mette in evidenza come la ricerca di «libertà» poetica di Viviani sia di fatto
un lavoro certosino, un attraversamento interno di stili e di forme che approda in
4
Ibidem, dalla quarta di copertina.
5
Ibidem, p. 275.
6
Ibidem, Introduzione, p. XXX.
7
Giovanni Raboni, La poesia che si fa, Garzanti, Milano 2005, p. 249.
9
quest’ultima stagione di poesia-pensiero; e non è questo un semplice “approdo”, ma il
vero e proprio fondamento di una lirica che gode di un respiro anche internazionale.
Il “limite” di Viviani, il senso liminare della sua poesia, apre a sentieri molto più
ampi:
il confine non istituisce solo un bordo tra due spazi distinti: è esso stesso uno spazio. Uno spazio
particolare, certo: il luogo dell’incontro, del dialogo e insieme del conflitto – in una parola del
contrasto – delle differenze. Uno spazio che non è un luogo, almeno non in senso materiale;
semmai un luogo mentale: per la precisione il luogo del moderno – se è vero che “pensare il
moderno è pensare il limite: è pensiero liminare […]. La parola liminare, dunque, rigetta tanto
l’appartenenza che l’estraneità: per collocarsi appunto, al confine fra queste due fondamentali
condizioni dello spirito. Come diceva Deleuze, «bisognerebbe definire una funzione speciale, che
non si confonde né con la salute, né con la malattia: la funzione dell’Anomalo. L’Anomalo si trova
sempre alla frontiera, sul margine di una banda o di una molteplicità; ne fa sì parte, ma la fa anche
passare in un’altra molteplicità, la fa divenire, traccia una linea intermedia […]. In questa dialettica
del limite ogni parola liminare si colloca sì al di fuori dell’ istituzione (socialmente intesa) –
istituendo a sua volta, i caratteri che ne fondano la specificità. E che prefigurano, a loro volta, una
nuova, futura istituzione
8
.
Viviani ha quindi le caratteristiche del poeta «anomalo» descritte da Deleuze, che
“assorbe” dal panorama poetico che lo circonda per rielaborare poi la propria
specificità, una «futura istituzione» appunto concentrata sulla poesia-pensiero. Ma è
una linea questa che affonda le proprie origini nell’essenza stessa della lirica italiana,
come individua Cortellessa
9
:
la tradizione lirica italiana ha storicamente sempre teso a emarginare, a portare ai margini o
all’esterno delle proprie istituzioni, una linea del “discorso” poetico che è precisamente quella che
lo ricollega alle sue stesse origini (come a censurare un rimosso…): la parola come lettura del, e
speculazione sul, mondo[…]. E se è vero che «questa chiusura è stata sempre contraddetta dalla
pratica di “artisti” e di “filosofi”, per i quali proprio la ricerca permanente sul linguaggio, sulle sue
condizioni e sulle sue forme, è stato l’asse che ha permesso di scompigliare i confini di
immaginazione e teoria», sino a «fare della scrittura il luogo della trasgressione»
10
.
La «trasgressione» in questione è naturalmente quella leopardiana, l’oltrepassamento
continuo del limite, il luogo che Viviani non tende più a superare ma a descrivere, a
sentire. Il pensiero del poeta senese, come avverrà poi esplicitamente per Cacciatore,
è strettamente connesso al linguaggio poetico e viceversa, dove l’io poetante rafforza
la propria funzione creatrice nella scomparsa:
Cesare Viviani poteva elogiare «la spersonalizzazione non paralizzante» e concludere
8
Andrea Cortellessa, La fisica del senso, Fazi Editore, Roma 2006, pp. 20-21.
9
Ibidem, p. 23.
10
La citazione è tratta da Antonio Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1980, p. 66.
10
(correttamente) che, rispetto alla riduzione dell’io, il suo decentramento segnava «un progressivo
rafforzamento»: la storia degli anni immediatamente a venire gli avrebbe dato ragione, facendo
assistere a un reinsediamento pieno, «tolemaico» e tutt’altro che “decentrato”, dell’«io
rappresentatore-creatore»
11
.
Proprio in questo senso va visto l’avvicinamento da parte di Viviani alla poesia-prosa
di Passanti e La forma della vita, dove lo sguardo dell’autore si rivolge alla
moltitudine della quotidianità in sintonia, come vedremo meglio più avanti, con
l’ironia teatralizzata di Giudici; per mutuare una definizione riferita a un altro autore,
la “nuova” poesia di Viviani sembra farsi di «prose risonanti e al tempo stesso ferme,
secondo quella tipica esperienza della contemporaneità che Gabriele Frasca è solito
definire, sulla scorta di Beckett, fremito fermo»
12
. La poesia-pensiero del poeta senese
è una fotografia infinita di fremiti fermi, un fermo volere (già arnautiano poi dello
stesso Frasca) di fare esperienza del limite e questo «significa anche accorgersi che
certi steccati tradizionali non hanno più motivo di sussistere»
13
. L’“anomalia” di
Viviani sta nel fare proprie altre esperienze poetiche importanti per poi ricondurle al
senso del limite; da questo ne scaturisce una poetica sempre proiettata verso la realtà,
che trova una piena maturità, e originalità, nella forma perfettamente ricomposta della
poesia-pensiero che viene a sua volta suddivisa in due tipologie di scrittura dallo
stesso autore: una appunto prettamente narrativa e una di natura mistico-filosofica,
formalmente molto distante eppure completiva dell’altra.
Questo lavoro intende dunque analizzare l’ultima stagione della poesia di
Cesare Viviani, ma per fare questo è inevitabile che prenda in esame l’origine della
sua poetica. La prima parte sarà infatti dedicata ai tre presupposti principali che
concorrono alla definizione del concetto di “limite” nella poetica del poeta senese:
psicanalisi, misticismo e ragione. Per quanto riguarda il primo punto sarà fatta una
lettura della primissima raccolta, L’ostrabismo cara, ovvero quella da cui scaturisce
l’origine di tutto, soprattutto vista in chiave lacaniana. Il secondo punto, ovvero il
misticismo, trae invece la propria origine ne l’Ecclesiaste, il controverso libro biblico
del Vecchio Testamento. Infine la ragione, inerente proprio al Viviani in oggetto di
questo lavoro, ovvero quello della poesia-pensiero visto in parallelo a un altro grande
poeta italiano – peraltro anche lui, e non a caso, inserito da Testa tra gli antologizzati
in Dopo la lirica – “dedito” allo stesso tipo di poetica: Edoardo Cacciatore.
In più saranno dedicati due paragrafi ad aspetti particolari della poesia-pensiero
ma pur sempre incentrati sull’idea del “limite”: il primo al Viviani scrittore di
11
Cortellessa, cit., p. 35.
12
Ibidem, p. 43.
13
Ivi.
11
aforismi e il secondo all’influenza di altri due poeti: Giuliano Gramigna –
probabilmente primo grande estimatore di Viviani – , con L’annata dei poeti morti e
Cristina Campo con La Tigre Assenza. Tutti modi questi di concettualizzare l’idea di
“limite”, dargli una connotazione precisa e allo stesso tempo “sensuale”; tutti modi
per percepire il senso del limite.
12
Propedeutica al limite
Il senso del limite: L’ostrabismo cara
L’ostrabismo cara rappresenta il principio di tutto; è la prima raccolta di Viviani –
esce per Feltrinelli nel 1973 – e fa capire immediatamente l’enorme potenziale del
poeta. Un incandescente magma verbale che fonde, già dall’affabulatorio titolo,
poesia e psicanalisi, un libro di lapsus lirici e creatività psicoanalitica.
L’inesprimibilità della realtà circostante è già ben chiara, paradossalmente, nella
mente dell’autore, solo che non riesce ancora a trovare una forma. Di conseguenza ne
viene fuori un libro dominato da un «lessico dalle tessere disparate e una liberatoria
manipolazione della lingua, contigua al processo analitico e realizzata con lapsus e
varie operazioni sulla parola»
14
, una parola che si specchia nell’ «ostrabismo» del
titolo, facendosi allo stesso tempo strabica – e quindi capace di vedere più punti di
vista contemporaneamente – e ostacolo (da ostracismo) alla comprensione stessa. È
questo di fatto il primo grande paradosso su cui riflette la poesia di Viviani che
sfocerà nella rappresentazione lirica della finitezza dell’infinito, del limite dei limiti.
Si legga a tal proposito l’incipit, un vero e proprio gioco enigmistico sul significante
dove, accanto alla presentazione di una pseudo storia in cui verosimilmente il poeta si
cimenta in un romanzo in versi di formazione prettamente erotico, i significanti si
inseguono e si contraddicono o cambiano improvvisamente forma e contenuto
secondo le indicazioni tipiche del lapsus freudiano e dove assistiamo sia alla
scomparsa del soggetto lirico che alla comparsa della retorica tipica del poeta senese
fatta di anacoluti, sinestesie e significativi enjambements:
lo strale stanato e per scommessa,
l’ombretto bagnato nella fucina ho
trovato piegata e piagata col liquido
tuo giovereccio
questa indemoniata o indemoniato
non so che perché è stato più
un balzo che altro, ecco perché
assortivano molto le catenelle
perché le bacche filtravano rosso
e spingi e malta
ti vedevano i lutti
per questo col limite un opossum
non più belava esitata fusione
14
Dopo la lirica, cit., p. 275.
13
il gelato il pelato ospite anziano
distallato dal mosto,
quello tentato stasa per dire
a quel punto ho visto quale era [p. 17]
15
Il poeta senese sublima le teorie linguistiche di Saussure e il rapporto arbitrario tra
significato e significante diviene l’essenza della poesia stessa. Non v’è dubbio sul
fatto che questo tipo di poesia sia debitrice delle istanze avanguardistiche e del
Gruppo 63 in particolare ma, come ben nota Michel David, «Viviani sembra aver
superato formalmente i suoi predecessori immediati del Gruppo 63 e con più bravura.
Si è del resto schierato più di loro dalla parte dei significanti, rinunciando per ora a
ogni volontarismo morale. […] Forse il futuro lo preoccupa meno di un presente
strabicamente vissuto»
16
. In poche parole Viviani è più coraggioso, o forse crede più
degli altri – e vedremo come il “credere” sarà decisivo nella poetica del poeta senese
– nella forza della parola e nella parola lirica in particolare. Non a caso Le parole
sono l’organo della vista è il titolo che Viviani sceglie per la premessa a un suo
saggio psicoanalitico, Il sogno dell’interpretazione. Qui il poeta, certo ora in veste di
critico di psicoanalisi, spiega lucidamente la propria concezione della realtà: «il piano
di realtà – a cui si rivolga la nostra voce per prendere consistenza! – non è un
ambiente raffigurabile e descrivibile, ma un livello non facilmente collocabile, fatto
di luci e impronte, immagini e contatti, forme e ritmi, ombre e materie, che è il vero
luogo della formazione psichica»
17
. E proprio questa “selva” di figure e sensazioni
(«luci, impronte, immagini, contatti, forme e ritmi») che ora resta solo avvertibile
nella forza incontrollabile e polisemica del significante, troverà forma e pensiero
proprio nell’ultima stagione del poeta. Ed eccoli i sensi miscelati come un delirio
lirico-analitico:
ingiuriato da esautorate
storte malformi il cingolìo del becco invasore
villeggiante sprigiona il colore sul riverbero
del nido e inserendo nel destro provocante la
sfera si è inumidita lungo la paresi come
sperava e questo l’astinenza scortava dal baldo
paese, devi aggiuntare allora
sottraggono dal muto
dello sperma e soli compremono al miracolo
la catenina mista [p. 51]
15
Le citazioni sono tratte da Cesare Viviani, L’ostrabismo cara, Feltrinelli, Milano 1973.
16
David, Prefazione a L’Ostrabismo cara, cit., p. 10.
17
Viviani, Il sogno dell’interpretazione, Costlan Editori, Milano 1989, p. 8.
14
L’esperienza sensuale del poeta, cardine delle raccolte che questo lavoro prende in
esame, si presenta in questa lirica come una miscellanea disomogenea, appunto un
racconto schizzofrenico: «l’esperienza dell’ascolto analitico è simile all’ascolto di
una lingua sconosciuta»
18
ci dice Viviani, «più progredisce e si sviluppa la
“comunicazione”, più si formano “assoluti” e ci si allontana dall’esperienza assoluta.
Più si è “comunicativi”, più ci si allontana dalla verità»
19
. Si intuisce quindi dove
vuole arrivare il poeta con questa raccolta: «la psicanalisi è l’esperienza del limite. È
la presenza autonoma del confine, che è illeggibile perché non è riferito alle terre che
serve, alle distese dei significati noti»
20
. Formulando un sillogismo potremmo
affermare che se la psicanalisi rappresenta l’esperienza della categoria “limite” e la
sua incomprensibilità allora la poesia de L’ostrabismo cara, incomprensibile ridda di
significanti, è psicanalisi. Ma Viviani sa bene che è vero anche il contrario e lo
dimostrerà maturando una poesia completamente diversa e ben più improntata sul
significato formale. In questo momento la scoperta del poeta ha una grande
importanza nell’ambito della poesia italiana novecentesca: L’ostrabismo cara ha
scoperto il limite umano mediante il trauma lacaniano del linguaggio, rappresenta in
effetti una sorta di liricizzazione della formula “l’inconscio strutturato come un
linguaggio” appartenente allo stesso Lacan. Per capire meglio è necessario rifarsi a un
famoso seminario del filosofo e psicanalista francese, quello sul racconto La lettera
rubata di Edgar Allan Poe.
La scena primitiva (non a caso Lacan impiega questo termine) si svolge nelle stanze della regina,
che vi riceve una lettera che è costretta a nascondere fra altre carte, per l’ingresso improvviso del
re, dimostrando così che il contenuto è compromettente per il suo onore e la sua sicurezza.
Approfittando della disattenzione del re, la regina ha lasciato la lettera sul tavolo con l’indirizzo in
vista essa non sfugge però alla sorveglianza del ministro che, entrato insieme al re, si accorge
dell’imbarazzo della regina, e ne comprende la causa. Il ministro allora tira fuori dalla tasca una
lettera identica e fingendo di leggerla la sostituisce alla prima, con grande disappunto della regina,
cui non è sfuggito nulla della manovra ma non ha potuto impedirla, temendo di suscitare il sospetto
del re. La regina sa dunque che il ministro possiede la lettera e il ministro sa che la regina è stata
testimone del suo gesto. La seconda scena si svolge nell’ufficio del ministro e in apparenza ripete la
precedente. Diciotto mesi dopo la polizia, approfittando delle assenze notturne del ministro, ha
perquisito la casa intera senza riuscire a scoprire la preziosa lettera. Il capo della polizia si fa allora
annunciare al ministro e ispezionando la stanza, dietro i suoi occhiali con le lenti verdi, scopre ben
presto l’oggetto di tante ricerche. È un biglietto spiegazzato, abbandonato, come inavvertitamente,
alla vista di chiunque, che, come tutti sanno, è il sistema migliore per non farlo vedere a nessuno. Se
ne impadronisce rapidamente, ripetendo il gesto del ministro, dal quale si accomiata senza troppa
fretta, sicuro che questi non si è accorto della sostituzione. La situazione nuova che si è creata è che
il ministro non ha più la lettera e non lo sa mentre la regina sa che ormai la lettera non è più nelle
18
Ibidem, p. 62.
19
Ivi.
20
Ibidem, p. 66.