6
1.1. Cesure e temi ricorrenti della storiografia sindacale italiana.
La storia del sindacato operaio italiano è argomento ampiamente
dibattuto e sul quale molto è già stato scritto, per cui è possibile rintracciare
alcuni temi ricorrenti nella relativa storiografia.
Per quanto riguarda gli anni dal 1915 al 1920, si può riscontrare negli
studi pubblicati la diffusa tendenza ad attribuire scarsa importanza alla prima
guerra mondiale, mentre molta attenzione viene prestata al biennio rosso. A
titolo di esempi si possono considerare alcuni importanti volumi che trattano di
storia sindacale. Idomeneo Barbadoro, in Storia del sindacalismo italiano dalla
nascita al fascismo, passa direttamente dal capitolo sullo sviluppo economico
ante-guerra a quello intitolato “Riforme di struttura e potere sindacale nel
dopoguerra”, dedicando di fatto quattro pagine agli anni del conflitto a più di
novanta a quelli immediatamente successivi. Analoga scelta è riscontrabile
nella Storia del movimento sindacale in Italia di Daniel Horowitz: lo storico
americano inserisce guerra e dopoguerra nel capitolo “L’avvento del fascismo”,
parlando della prima per poche pagine e del secondo per circa quaranta. La
voce “sindacato” curata da Antonio Tatò nel Dizionario di economia politica
curato da Claudio Napoleoni descrive uno sviluppo del sindacato italiano come
un processo in cui tra il 1910 e il 1918 non accade nulla: la guerra non è
nemmeno menzionata. Stefano Musso, nella Storia del lavoro in Italia
dall’Unità a oggi, dedica 3 pagine alla guerra a fronte di 17 in cui si occupa del
biennio rosso, per quanto gli vada riconosciuto che non sottovaluta la portata
del conflitto: il capitolo è infatti intitolato “La prima guerra mondiale e il
fascismo” e inizia definendo la guerra una “svolta epocale per il mondo del
lavoro”1.
L’indagine sui motivi di questa tendenza costituisce uno dei punti di
arrivo della ricerca: per ora è sufficiente citare alcune interpretazioni del
periodo bellico dalle quali si deducono i caratteri che tale fase assume agli
1
S. Musso, Storia del lavoro in Italia dall’Unità a oggi, ed. Marsilio, Venezia, 2002, p. 137.
7
occhi di molti storici. Angelo Bonzanini, ne Il movimento sindacale, tratteggia
una storia della contrattazione collettiva nella quale la prima guerra mondiale
non ha alcun ruolo:
“La guerra infine costrinse tutti ad una sosta sul cammino della soluzione
dei grandi problemi sociali, che si ripresentarono all’attenzione del paese più
impellenti e gravi negli anni che precedettero l’avvento del fascismo”2.
Alessandro Camarda e Santo Peli, che pure alla guerra dedicano L’altro
esercito. La classe operaia durante la prima guerra mondiale, danno questa
interpretazione (all’interno de La conflittualità operaia in Italia 1900-1926) del
ruolo del sindacato durante il conflitto:
“Cooptati nei Comitati [di mobilitazione industriale] in qualità di
rappresentanti operai accanto agli industriali, i sindacalisti risultavano ridotti a
legittimatori dell’aggravamento delle condizioni materiali della classe. [...] Il
sindacato venne progressivamente esautorato di ogni residua funzione
rivendicativa e subisce a proprio danno l’aggravarsi del distacco delle masse.
La stessa FIOM, che pure coglie i pericoli di questo progressivo distanziamento
della classe operaia dall’organizzazione sindacale, non riesce a forzare in
nessuna occasione significativa una condizione di subordinazione, che alla fine
del conflitto si era ormai riflessa negativamente sulle sue possibilità di
riguadagnare consenso e adesioni nei confronti degli operai metallurgici”3.
Lo scopo di questo lavoro si può riassumere nel tentativo di smentire,
attraverso la lettura dei dati e degli eventi, l’interpretazione testé riportata, che
se accettata comporta inevitabilmente una valutazione riduttiva anche del
biennio rosso. Infatti, se la guerra non porta con sé innovazioni nel campo delle
relazioni industriali in grado di influenzare gli anni successivi, le grandi lotte
sindacali del dopoguerra diventano automaticamente episodi sporadici, una
breve fiammata del movimento operaio connessa unicamente al momentaneo
successo delle idee socialiste (sia nella declinazione riformista che in quella
rivoluzionaria). Se così fosse, ovvero se nel periodo 1915-1920 non si
consolidassero una serie di fattori cruciali per la conquista di un ruolo
2
A. Bonzanini, Il movimento sindacale. Dinamiche sociali e azione sindacale nell’Italia del dopoguerra,
ed. Palombo, Palermo, 1978, p.87
3
A. Camarda, S. Peli, La conflittualità operaia in Italia 1900-1926, ed. D’Anna, Firenze, 1979, p. 63.
8
economico nazionale da parte del sindacato, non si potrebbe dunque parlare di
cesura.
Per quanto concerne invece il periodo successivo alla caduta del regime
fascista, si riscontra nella storiografia sindacale l’implicito riconoscimento di
una cesura negli anni 1943-1947. Dato che il sindacato libero rinasce con il
Patto di Roma del 1944, è logico che vi sia una maggiore produzione
storiografica riguardo allo sviluppo del sindacato nell’era repubblicana, così
come è naturale che le indagini sulla nascita del movimento operaio si arrestino
all’avvento del fascismo. D’altra parte è innegabile che il regime rappresenti
una frattura nella storia del Paese; tuttavia uno degli elementi rilevanti della
storiografia sindacale è l’assegnazione al ventennio di una scarsa influenza
sulle prassi e sul ruolo della rappresentanza operaia. L’eredità del sindacato
unico fascista spesso non viene considerata, così come è molto raro che il
regime venga, per alcuni ambiti, visto come una parentesi tragica, chiusa la
quale vi è il ritorno di modalità d’azione tipiche degli anni 1915-1920.
Naturalmente ogni tendenza generale ha le sue eccezioni: lo studio di Umberto
Romagnoli e Tiziano Treu, I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-
1976), mette in risalto alcuni elementi di continuità tra la CGIL post-fascista e
le esperienze sindacali precedenti; non è però un caso, probabilmente, che si
tratti di un saggio che, tralasciando molti aspetti politici, si concentra
sull’evoluzione dell’organizzazione interna e della politica contrattuale del
sindacato italiano.
Il fine di questo lavoro, in totale antitesi alla storiografia dominante, è
quindi dimostrare che, a differenza degli anni 1915-1920, il periodo 1943-1947
non rappresenta una cesura per quanto riguarda il ruolo economico nazionale
del sindacato e la capacità dello stesso di svolgere tale funzione.
Come in precedenza, si può riassumere il secondo obiettivo della ricerca
con il tentativo di operare una smentita, in questo caso di un intervento di
Giuseppe Di Vittorio:
9
“La differente posizione in cui è venuta a trovarsi la classe operaia,
rispetto al complesso della società nazionale, si può schematizzare in due
termini contrapposti: da negativa, quale era anche nel periodo prefascista, è
divenuta positiva e a differenza del vecchio movimento sindacale prefascista la
Cgil si è affermata sin dal suo sorgere, come forza nazionale di primo piano,
come spina dorsale e pilastro fondamentale della nazione, della nuova Italia
repubblicana”4.
4
Giuseppe Di Vittorio, citato da A. Pepe, Lavoro, sindacato e istituzioni nella storia italiana ed europea,
intervento al convegno “I diritti sociali e del lavoro nella Costituzione italiana”, Napoli, 11 e 12
novembre 2005, reperibile sul sito internet della Fondazione Di Vittorio (www.fondazionedivittorio.it).
10
2.
La situazione economica e sociale nei due dopoguerra:
analogie e differenze.
I fenomeni economici che si presentano in Italia in entrambi i
dopoguerra contengono inevitabilmente numerose analogie. Le due guerre, pur
intervenendo in periodi diversi per quanto concerne il grado di sviluppo
industriale e la qualità dell’intervento pubblico nell’economia, non possono che
comportare le tipiche conseguenze dei conflitti di grande rilevanza.
2.1. Il commercio con l’estero.
L’Italia, paese a vocazione manifatturiera che ha necessità di importare
materie prime e di esportare prodotti finiti, risente della violenta contrazione del
commercio estero, dovuta alle difficoltà di effettuare trasporti commerciali
durante le guerre, alla penuria di materie prime (carbone in particolare) che si
verifica in tutta Europa, al crollo della domanda estera soprattutto per quanto
concerne le produzioni non militari. Se è vero che questa descrizione si addice a
entrambe le guerre mondiali, è ancor più vero che le conseguenze si rendono
più evidenti nei periodi immediatamente successivi ad esse.
Occorre infatti considerare che l’approvvigionamento di materie prime,
fondamentali per il funzionamento dell’industria bellica, risulta essere una
priorità inderogabile – sia per lo Stato che per le imprese – durante i conflitti,
tanto che nel corso della prima guerra mondiale viene creato un apposito
organismo statale addetto al reperimento e alla distribuzione del carbone alle
imprese ausiliarie (poi affiancato da consorzi locali di distribuzione, cui danno
vita le associazioni degli industriali) e viene dato un deciso impulso alla
costruzione di centrali idroelettriche. A guerra finita tali organismi esauriscono
la propria funzione, lasciando le imprese (ex-ausiliarie e non) nella necessità
impellente di trovare sufficienti materie prime per poter continuare l’attività
11
produttiva. A questo riguardo è emblematico il secondo dopoguerra, nel quale
gli impianti italiani sono in una condizione relativamente buona nonostante i
bombardamenti: nel 1945 la capacità produttiva risulta di una volta e mezza
superiore a quella registrata nel 1938-39; gli impianti a essere più colpiti dalle
bombe sono quelli siderurgici, che risultavano essere anche i più obsoleti; in
generale la riduzione della potenzialità dell’apparato industriale viene stimata
nel 9%1, percentuale risibile se si considera che tale potenzialità venne sfruttata
al 70% nel momento di massimo utilizzo2. In questa situazione, la produzione
industriale a cavallo tra il 1944 e il 1946 si trova in una condizione di stasi
pressoché totale a causa della mancanza di scorte ed energia: il carbone è merce
rarissima3 (soprattutto per i danni di guerra ai luoghi di estrazione in Francia e
Germania), le scarse precipitazioni riducono al minimo la produzione di energia
idroelettrica, l’afflusso di materie prime dagli Stati Uniti è discontinuo in
ragione della mancanza di navi per il trasporto e della genericità che viene
attribuita dalla Commissione Economica degli alleati ai piani di spesa e di
importazioni industriali presentati dal governo italiano.
La penuria di materie prime, in particolare di risorse energetiche,
rappresenta uno dei maggiori problemi anche nel periodo che segue la grande
guerra. I motivi di tale scarsità sono però diversi da quelli riscontrabili nel
periodo 1944-1946, per quanto l’origine ultima del problema sia comune e
risieda nel drastico calo dei commerci internazionali. Negli anni 1917-1919 gli
industriali italiani si trovano a fronteggiare non tanto un’impossibilità materiale
di accesso al carbone, bensì il limite difficilmente valicabile della burocrazia
statale creata dalla mobilitazione industriale: per acquistare dall’estero
occorrono infatti i permessi di importazione, che vengono concessi con
1
Tale dato può essere scorporato: si nota così che i danni arrecati ai cantieri navali riguardano il 50%
degli impianti, per la meccanica si scende al 12%, fino a toccare le percentuali esigue del 4% per il
comparto elettrico e dello 0,5% per quello tessile. A questo riguardo, M. Legnani, L’Italia dal fascismo
alla Repubblica. Sistema di potere e alleanze sociali, ed. Carocci, Roma, 2000, p.131.
2
G. Gualerni, Storia dell’Italia industriale dall’Unità alla Seconda Repubblica, ed. Etas Libri, Milano,
1994, p.170.
3
“Nel 1946 l’industria italiana ebbe a disposizione soltanto il 45% del carbone che le sarebbe stato
necessario”, come racconta S. Turone, Storia del sindacato in Italia 1943-1969, ed. Laterza, Bari, 1973,
p. 149.
12
notevole ritardo rispetto alla presentazione della domanda e che hanno una
durata così limitata da essere spesso inutili. Sono testimonianza della relativa
difficoltà dell’industria italiana le lamentazioni degli imprenditori:
“Coloro che hanno la responsabilità di far marciare industrie e dare
occupazione a migliaia di operai sono in ansia per le materie prime che non
arrivano, per i permessi di importare carboni domandati da mesi e non ottenuti
mai. [...] L’industriale operoso, il commerciante affaccendato non ha tempo per
inoltrare carte, per sollecitare pratiche addormentate”4.
La drammaticità della situazione porta Dante Ferraris, presidente della
Lega Industriale di Torino, a chiedere di sostituire alla “funzione dello Stato, la
funzione di consorzi o sindacati tra industriali”, i quali possano occuparsi
direttamente dell’approvvigionamento di materie prime, pur sotto il controllo
statale
5
.
Per quanto riguarda gli sbocchi, l’Italia, in entrambi i periodi considerati,
ha un notevole bisogno di mercati esteri verso i quali esportare: la domanda
estera rappresenta infatti una componente fondamentale del PIL per un paese
caratterizzato da una scarsa domanda interna, determinata essenzialmente dal
minore sviluppo dell’industria e dal livello decisamente basso dei salari rispetto
al resto d’Europa.
Le necessità dell’Italia di esportare negli anni immediatamente
successivi alle guerre mondiali non si incontra però con un’analoga necessità di
importare da parte delle potenze economiche europee, la cui domanda è
forzatamente ridotta dalla guerra stessa. A ciò si aggiungano le grandi difficoltà
nel reperimento dei permessi all’esportazione, per quanto riguarda il primo
dopoguerra, e la paralisi dei mercati commerciali e finanziari per quanto
concerne il secondo.
Le difficoltà negli approvvigionamenti, per quanto ascrivibili a motivi
parzialmente diversi, e la limitata domanda estera rappresentano una delle cause
4
“Corriere della Sera”, n. 109 del 19 aprile 1919, citato in L. Einaudi, La condotta economica e gli effetti
sociali della guerra italiana, ed. Laterza e figli, Bari, 1933, pp. 239-240.
5
D. Ferraris, “Discorso pronunciato all’assemblea straordinaria delle Associate”, 1918, citato in M.
Abrate, La lotta sindacale nella industrializzazione in Italia 1906-1926, ed. Franco Angeli, Milano, 1967,
pp.200-201.
13
cruciali della scarsa attività produttiva e delle conseguenti problematiche in
tema di recessione e disoccupazione tanto nel primo quanto nel secondo
dopoguerra.
2.2. Disoccupazione, recessione, inflazione: andamento dei salari e
politiche monetarie.
La guerra da un lato occupa una parte consistente della forza lavoro
nell’esercito (in particolare giovani maschi), dall’altro rappresenta un volano
per la produzione industriale (soprattutto quella legata ai rifornimenti bellici),
rendendo così molto basso il tasso di disoccupazione e anzi provocando
l’allargamento della forza lavoro stessa alle donne e ai più giovani. Da questo
punto di vista è paradigmatica la prima guerra mondiale. Per quanto concerne la
domanda di lavoro, si consideri che “anteriormente alla guerra, il numero degli
operai meccanici in Italia poteva valutarsi in circa 350.000, mentre il numero
degli operai meccanici necessari alle industrie della guerra poteva valutarsi, fin
dai primi mesi del 1916, in circa 550.000”6. In merito all’ampliamento della
forza lavoro, basti pensare che gli stabilimenti ausiliari mobilitati occupano
200.000 donne, mentre altre 600.000 vengono impiegate nelle proprie case
tramite commesse di lavoro tessile (cucitura di confezioni militari)7, a cui
vanno aggiunti i minori impiegati nelle industrie di guerra che ammontano a
60.0008.
Con la fine delle guerre al venir meno delle commesse belliche da parte
dello Stato si aggiunge il ritorno a casa dei soldati: a fronte di una netta
diminuzione della domanda di lavoro si ha un’altrettanto netta crescita
dell’offerta. A ciò si aggiungono le difficoltà di approvvigionamenti e
soprattutto l’insufficiente domanda aggregata: di quella estera si è già detto, la
spesa pubblica langue anche a causa dei deficit che si accumulano in guerra e
6
L. Einaudi, op. cit., p. 109.
7
S. Musso, Storia del lavoro in Italia dall’Unità a oggi, cit., p. 139.
8
L. Einaudi, op. cit., p. 110.
14
che occorre ripianare, i consumi privati non possono che risentire
dell’improvvisa mancanza di lavoro.
Appare inevitabile il crearsi del circolo vizioso tipico della cosiddetta
disoccupazione keynesiana: la scarsa domanda provoca recessione, che a sua
volta comporta un aumento della disoccupazione con conseguente ulteriore calo
dei consumi e quindi degli investimenti.
Tale descrizione si addice a entrambi i dopoguerra, sebbene occorra
sottolineare alcune importanti differenze.
Durante la prima guerra mondiale il PIL dapprima cresce con un tasso
medio annuo del 4,97%9, per poi diminuire a partire dal 1917, tanto che dal
1917 al 1919 il prodotto si riduce annualmente del 4,52%10. Le caratteristiche
della prima guerra mondiale, una guerra combattuta al fronte e non su tutto il
territorio nazionale, permettono di non incappare in recessioni durante il
conflitto (se non verso la conclusione dello stesso) e di contenere
successivamente la crisi economica.
Nella seconda guerra mondiale, in cui l’Italia intera è teatro delle
operazioni belliche nonché di pesanti bombardamenti, l’andamento del PIL
(prima in crescita, poi in dimunizione) è simile rispetto alla grande guerra. Una
differenza è rappresentata dal fatto che l’inversione di tendenza non avviene
negli ultimi anni di conflitto, bensì già all’inizo: il boom ha inizio a metà anni
’30 (grazie soprattutto a una forte domanda pubblica per riarmo in vista della
guerra e in generale a un ciclo espansivo mondiale), si esaurisce allo scoppio
delle ostilità e si trasforma immeditamente in una profonda recessione11. La
crisi in questo caso è di proporzioni decisamente maggiori rispetto al primo
dopoguerra: l’andamento del prodotto interno (il cui livello si dimezza durante
il conflitto) segna addirittura un meno 23,34% nel 1944 e occorre attendere il
9
Il dato può apparire modesto se si pensa al forte aumento della produzione industriale, ma è spiegato
dall’aumento del saldo negativo della bilancia commerciale, come si ricava dai dati contenuti in Istituto
Centrale di Statistica (Istat), Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1955, Roma, 1958, p. 152.
10
Dato rielaborato da Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1955, cit., p. 211.
11
L’ultimo anno di crescita è appunto il 1939, in cui il Prodotto interno lordo registra un aumento del
5,84%; nel 1940 il PIL diminuisce invece del 4,05%, come si ricava da Istat, Sommario di statistiche
storiche dell’Italia 1861-1955, cit., p. 211.
15
1949 per vedere il reddito nazionale tornare ai livelli dell’ante-guerra12. Il
reddito pro capite, pari a 3.360 lire nel 1939, è di sole 2.616 lire nel 1943 e
scende ancora a 1.585 lire nel 194513.
Per comprendere la dinamica dei salari, peraltro oggetto di
provvedimenti di legge in tutti e due i periodi considerati, non è sufficiente
considerare l’andamento della disoccupazione e della produzione, poiché in
entrambi i dopoguerra vi è anche l’inflazione a complicare vieppiù il quadro
economico.
Il livello dei prezzi cresce con tassi a doppia cifra sin dallo scoppio della
prima guerra mondiale, a causa soprattutto della decisione dell’esecutivo di fare
fronte alle spese belliche (pari a sette volte le entrate correnti dello Stato) senza
aumentare più di tanto la pressione fiscale per il timore di perdere consenso.
D’altra la capacità contributiva è estremamente bassa, considerato che il
contenimento ope legis dei salari provoca una redistribuzione del reddito a
favore dei profitti d’impresa, esentasse per quanto concerne quelli derivanti
dalla produzione bellica. Si può comprendere così che la scelta del governo non
può che ricadere dapprima sull’emissione prima di titoli, poi – a partire
soprattutto dal 1917 – di moneta: posto pari a 100 lo stock di carta moneta nel
1914, esso raggiunge nel 1918 un livello pari a 44314. L’effetto inflattivo è
immediato, anche perché associato al calo del prodotto interno lordo, tanto che i
salari reali subiscono nel solo 1917 un calo del 27%15. Vengono calmierati i
prezzi dei prodotti di prima necessità nonché delle merci importate, queste
ultime attraverso uno stretto controllo dei cambi verso sterlina e dollaro.
Terminata la guerra, e con essa i prestiti inglesi e statunitensi con i quali si
controllavano i tassi di cambio, questi tornano liberi nel marzo del 1919 e
subito la lira inzia a deprezzarsi16, generando un ulteriore aumento dei prezzi al
12
Dati ricavati da Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1955, cit., p. 211.
13
Dati ricavati da Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1955, cit., p. 216.
14
G. Balcet, L’economia italiana. Evoluzione, problemi e paradossi, ed. Feltrinelli, Milano, 1997, p. 30.
15
D. Horowitz, Storia del movimento sindacale in Italia, ed. Il Mulino, Bologna, 1966, p. 213.
16
Mentre nel 1919 per acquistare un dollaro occorrono 9,79 lire, l’anno successivo ne servono ben 21,19,
come riferito in G. Balcet, op. cit., p. 33.
16
consumo: la spesa della famiglia operaia tipica milanese passa così da 102,07
lire settimanali dell’ottobre 1918 a 120,05 lire nel giugno 191917. Le masse
popolari si ribellano, danno vita a diversi tumulti e saccheggiano negozi finché
centinaia di comuni iniziano – tra luglio e agosto – a emettere ordinanze per
ridurre i prezzi del 50% (in alcuni comuni la riduzione è generale, altrove solo
per i generi di prima necessità). Il tentativo regge per qualche mese, poi ci si
avvede dell’insostenibilità economica dei provvedimenti e i prezzi tornano
liberi di fluttuare: la spesa settimanale della famiglia tipica operaia a Milano
arriva “a 124,67 lire nel gennaio 1920, a 155,12 nel luglio ed a 189,76 nel
dicembre 1920”18. L’indice del costo della vita (posto pari a 100 nel 1914),
raggiunge quota 264 nel 1918, 352 nel 1920 e continua a crescere fino a toccare
il livello di 417 l’anno successivo.19
Considerato, come si è già accennato, che il governo, tramite la
mobilitazione industriale, persegue una politica di decisa moderazione salariale,
ci si può avvedere di come il potere d’acquisto dei salari durante e dopo la
prima guerra mondiale sia diminuito pesantemente (oltre il 40%), facendo così
ricadere il costo della guerra sulle classi meno abbienti.
La dinamica dei prezzi tra il 1943 e il 1947-48 non è dissimile da quella
che si manifesta in occasione del primo conflitto mondiale, sebbene (come per
l’andamento del PIL) i tassi di inflazione siano decisamente maggiori, tanto da
superare in diversi anni il 100%. Occorre segnalare, per quanto concerne il
biennio 1943-1945, che l’andamento del costo della vita è assai differenziato tra
la Repubblica di Salò e la porzione man mano crescente di Italia liberata. Al
nord prosegue la politica fascista di “repressione della pressione
inflazionistica”, attraverso il collocamento forzoso di titoli di Stato presso
banche e privati al fine di “compensare le immissioni di liquidità connesse alle
17
L. Einaudi, “La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana”, cit., p. 242.
18
Ibidem, p. 245.
19
Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1955, cit., p. 172.
17
spese militari”20. Nel Regno, dove non vengono più messi in opera tali
meccanismi di sottrazione di liquidità al settore privato, l’inflazione esplode.
Ad alimentarla è soprattutto dall’emissione delle amlire, effettuata dal comando
Alleato – senza che le autorità italiane abbiano alcun potere di controllo – per
far fronte alle necessità di spesa delle truppe di occupazione. Questo avviene
nello stesso momento in cui si inizia a palesare la paralisi del sistema
produttivo, per cui il mercato non è minimamente in grado di assorbire il
denaro che viene messo in circolo e la perdita di potere d’acquisto della lira è
immediata21: l’indice dei prezzi all’ingrosso, su base 1938 = 100, giunge al
livello 858 nel 1944 e 2.060 nel 194522. Ai lavoratori del Regno viene
riconosciuto il diritto ad una indennità per il caro-vita; a ciò si aggiungono
misure come il blocco degli affitti e il controllo dei prezzi dei beni di prima
necessità, il che contribuisce a fare sì che l’andamento generale dei prezzi non
coincida con quello del costo della vita. Nel 1945, con la fine della guerra e la
riunificazione del Paese, l’inflazione colpisce anche le regioni settentrionali e,
dopo una breve pausa nel 1946, diviene galoppante nel 194723.
L’inflazione, la disoccupazione e la paralisi della produzione spingono
gli imprenditori a siglare nella primavera del 1945 – non senza una significativa
pressione statale in tal senso – un accordo che crea l’istituto della “messa in
aspettativa” volontaria, ossia una sorta di blocco dei licenziamenti, al fine di
contenere le tensioni sociali. A seguire vengono stipulati due contratti nazionali
(uno per il nord e uno per il centro-sud) che fissano in maniera precisa tutti i
livelli salariali. Tutto ciò non contribuisce più di tanto alla ripresa dei consumi,
anche perché tra la fine del 1946 e la prima metà del 1947 l’Italia vive la fase di
maggiore inflazione. Ad innescarla è il lancio del prestito pubblico della
Ricostruzione (nel settembre del 1946): per incentivare le banche a
20
A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, ed. Bollati
Boringhieri, Torino, 1998, p. 19.
21
G. Gualerni, op. cit., p.173.
22
A. Graziani (a cura di), L’economia italiana: 1945-1970, ed. Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 26-27.
23
L’indice dei prezzi all’ingrosso, fatto il 1938 pari a 100, passa da 2.060 nel 1945 a 2.884 nel 1946, per
poi schizzare a 5.159 nel 1947. (A. Graziani, L’economia italiana: 1945-1970, cit., p. 27).
18
sottoscriverlo la Banca d’Italia concede loro ammontari cospicui di liquidità e
accade così che il prestito “invece di raccogliere liquidità giacente presso il
pubblico”, ha l’effetto di immetterne “nel circuito monetario”24. Le politiche
deflazionistiche messe in campo fino al settembre del 1947 dal governo (in cui
democristiani e liberali rifiutano da tempo la proposta comunista di cambio
della moneta) non hanno successo: per questo motivo alcuni storici ritengono
che le autorità lascino fare, al fine di generare – attraverso l’iperinflazione25 –
una redistribuzione a danno dei redditi da lavoro e a favore dei profitti, la quale
consenta l’accumulazione di capitale necessaria per avviare la ripresa
produttiva26.
Nell’ottobre del 1947 Luigi Einaudi, lasciata la carica di governatore
della Banca d’Italia e assunta quella di ministro del bilancio, decide di attuare
una politica monetaria decisamente restrittiva: si persegue la diminuzione
dell’inflazione attraverso misure rigorose per la riduzione della liquidità
bancaria, pur sapendo che ciò non può che comportare una forte recessione.
Ancora una volta i lavoratori fanno la loro parte: il sindacato unitario sigla – tra
il 1946 e il 1947 – diversi accordi di moderazione salariale, nonché lo sblocco
dei licenziamenti collettivi.
Soltanto nel 1948 i salari reali tornano al livello del 193927: come nel
caso della prima guerra mondiale, il conflitto e le sue conseguenze economiche
ricadono per la maggiore parte sulle spalle delle classi meno abbienti, dei
risparmiatori, dei detentori di titoli di Stato.
24
A. Graziani, L’economia italiana: 1945-1970, cit., p. 29.
25
Fatto il 1938 pari a 100, il costo della vita raggiunge il livello massimo di 5.331 proprio nel settembre
del 1947.
26
G. Gualerni, op. cit., pp. 176-177.
27
Solo dal 1940 al 1944 i salari reali diminuiscono de 72,5%, come si può ricavare dai dati riportati in V.
Zamagni, Salari e profitti nell’industria italiana tra decollo industriale e anni ‘30, in S. Zaninelli – M.
Taccolini (a cura di), Il lavoro come fattore produttivo e come risorsa nella storia economica italiana, ed.
Vita e Pensiero, Milano, 2002, p. 252.