II
letteratura d’evasione destinata al largo consumo.
Adattando (=volgarizzando) per i nostalgici del feuilleton ottocentesco italiano i miti
decadenti ed erotici di Gabriele D’Annunzio, Guido da Verona -nei primi trent’anni del
XX secolo- riuscì a vendere come nessun altro autore nel nostro Paese (si calcola che
dei suoi oltre venti romanzi si tirarono complessivamente più di due milioni e mezzo di
copie
3
). Questo straordinario successo –già peraltro esauritosi negli ultimi anni della sua
vita- fu insieme il frutto di una rara abilità dell’autore nell’assecondare il mercato e
della curiosità popolare verso il suo personaggio, ogniqualvolta egli recitò il ruolo del
dandy, avventuriero e inarrivabile sciupafemmine. Basta infatti un semplice colpo
d’occhio retrospettivo per capire che l’intera esistenza di da Verona, costantemente
sospesa tra finzione e realtà, tra desiderio di compiacere e di compiacersi, fu uno
straordinario –e forse il suo più riuscito- romanzo. Da un lato lo scrittore emiliano si
propose come inventore di sogni e dall’altro il suo pubblico continuò a chiedergli di
essere illuso: negli anni dolorosi della grande guerra, autore e lettori si trovarono
entrambi d’accordo nel voler ricercare un’alternativa di pura bellezza all’ordinarietà
della vita e ai tormenti del fronte. Fu così che la vicenda pubblica e personale di da
Verona si fuse significativamente con molte altre vicende più o meno private degli
uomini di quel tempo. Prendere in mano, oggi, a quasi un secolo di distanza, Mimì
Bluette (1916) o Sciogli la treccia, Maria Maddalena (1920) –due titoli fra i più
fortunati di tutta la produzione daveroniana- significa scegliere l’atteggiamento di chi
vuole capire, cercare di contestualizzare un prodotto rispetto alle istanze che lo
stimolarono, indagare perché piacque tanto per un certo periodo e perché poi, alla fine
di quello stesso periodo, passò inesorabilmente di moda. Non solo. Tornare all’opera di
da Verona significa anche valorizzare la lezione di un suo illustre contemporaneo, quel
Walter Benjamin a detta del quale –siamo nel ’29- qualsiasi storia della letteratura “[…]
dovrebbe cominciare con la letteratura popolare […].”
4
Perché, ricordiamolo, “[…] il
libro è stato in origine un oggetto di consumo, anzi un alimento […]”
5
e i libri di da
Verona, specialmente nel secondo decennio del Novecento, trovarono ampiamente chi li
consumasse. Addirittura, più che essere letti furono divorati, per cui ci sentiamo di dire
che con da Verona non siamo solo nella fucina –tra artigianale e industriale- di un abile
3
In proposito si veda la sezione dell’appendice dedicata alle tirature delle opere di da Verona.
4
Walter Benjamin, “Dienstmädchenromane des vorigen Jahrhunderts”, Das Illustrierte Blatt, Frankfurt
am Main, 1° aprile 1929, IV, 2, pp. 620-622; tr. it. “Romanzi per le domestiche del secolo passato”, in
Ombre corte. Scritti 1928-1929, a cura di Giorgio Agamben, Einaudi, Torino 1993, p. 303.
5
Ivi, p. 305.
III
narratore di storie scacciapensieri, ma proprio “[…] alla base della montagna libro
[…]”
6
, lontano dalle vette della produzione elitaria. Con da Verona arriviamo
direttamente alla “[…] chimica alimentare del romanzo [popolare novecentesco].”
7
Questo nostro studio si articolerà in quattro parti.
-Nel primo capitolo cercheremo di mettere a fuoco –nel modo più esauriente possibile,
anche avvalendoci di una testimonianza inedita- la dannunziana figura dello scrittore
emiliano: la sua formazione, il suo ambiente, l’immagine pubblica che accortamente si
costruì e i suoi rapporti coi due principali movimenti politico-culturali del tempo:
futurismo e fascismo. In una parola, tracceremo l’intera ‘parabola’ di da Verona, dagli
esordi poetici agli anni del pieno successo, fino al triste declino dell’ultima fase.
-Nel secondo capitolo passeremo a considerare la vasta produzione del romanziere, con
un’attenzione particolare alle strategìe della sua offerta: che tipo di pubblico
presupponeva, quali interessi solleticava e di quali bisogni era insieme l’origine e il
risultato. Attraverso una tavola illustrata a colori, poi, daremo immediatezza visiva alla
geografia dell’esotismo daveroniano, sul quale fantasticò un’intera generazione di
‘sartine’ e combattenti italiani.
-La fortuna critica dello scrittore, invece, sarà oggetto d’indagine nel terzo capitolo,
dove rifletteremo anche sul panorama editoriale del tempo. Al riguardo sarà presentato
il punto di vista di da Verona su autori, editori e giornalisti dei principali periodici
culturali, ai quali rivolse l’invito per una corale e disinteressata collaborazione, tutto
questo a sostegno esclusivo del prodotto libro.
-Nell’ampia appendice, infine, troveranno spazio materiali utili per una miglior
comprensione del fenomeno fin qui descritto. Oltre a ventun dettagliati riassunti delle
opere del narratore emiliano (molti dei quali corredati di cartine geografiche per una
rapida visualizzazione dei luoghi o dei viaggi descritti), vi si darà conto del successo di
da Verona attraverso i numeri delle sue tirature e gli elenchi, rispettivamente, delle
traduzioni estere e dei film tratti dai suoi romanzi.
6
Walter Benjamin, articolo citato, p. 303.
7
Ivi, p. 305.
1
CAPITOLO 1
1
GUIDO DA VERONA: LA VITA E L'ARTE
1. La vita e le opere
1.1. L’infanzia, la formazione e gli esordi letterari (1881-1909)
Guido Verona nacque, senza la particella nobiliare ‘da’, a Saliceto sul Panaro, in
provincia di Modena, il 7 settembre 1881.
All’alba dei primi successi editoriali, tentò subito d'attribuirsi una prestigiosa
ascendenza estense, sebbene, più prosaicamente, la sua fosse soltanto un’agiata famiglia
del Mantovano. Famiglia rispettabile, senza ombra di dubbio, ma non nobile e per di più
dalle lontane origini ebraiche. La qual cosa, come vedremo, avrebbe inciso in maniera
sostanziale sulla carriera dello scrittore, soprattutto negli ultimi anni, quando ormai le
vendite tendevano spontaneamente a farsi più scarse. Ma procediamo con ordine.
Il padre di Guido era modenese, la madre veniva da Ancona. Guido ebbe due fratelli e
una sorella, Selene, nata dalle seconde nozze della madre con un ufficiale, il colonnello
Ferruccio Fochessati del reggimento Vittorio Emanuele di Vicenza. Dei fratelli
sappiamo che il primo sarebbe diventato aviatore (“[fu tra i primi a conoscere] i voli tra
le tempeste”
2
), mentre il secondo avrebbe preso la strada della scultura (“sa scolpire con
rude ed incisiva evidenza”
3
). La fermezza dell’uno ed il talento dell’altro sarebbero stati
comuni anche all’arte del ‘nostro’, tanto che Nino Salvaneschi
4
scrisse una volta che
1
Avvertenza: in questo capitolo e nel seguente si farà spesso riferimento, anche nel dettaglio, alle diverse
opere di Guido da Verona. Le trame dei suoi romanzi sono state descritte in un'apposita sezione
dell'appendice alla quale di volta in volta si rinvìa.
2
Così Nino Salvaneschi scriveva, prima del 1919, “[…] presentando Guido da Verona ai lettori d’un
periodico […]”. Le parole di Salvaneschi furono poi riportate da Icilio Bianchi nel suo volumetto Guido
da Verona, Modernissima, Milano 1919, p. 30.
3
Ibid.
4
Nino Salvaneschi (Pavia 1886 - Torino 1968), giornalista e poligrafo. Molto giovane, si dedicò al
giornalismo collaborando alla Tribuna e alla Gazzetta del Popolo. Nel 1921 fondò a Bruxelles L'époque
nouvelle, con l'intento di far conoscere l'Italia in Belgio. Divenuto cieco nel 1924, scrisse numerosissime
opere di divulgazione con intenti moraleggianti e religiosi (Il breviario della felicità, 1927; La cattedrale
2
“Guido da Verona […] riunì le qualità fraterne e in letteratura fu audace come un
aviatore, e incisivo come uno scultore.”
5
Per quanto riguarda la sorella, invece, le
informazioni che conserviamo ci consentono soltanto di dire che si sposò e che prese il
cognome Bonelli. Per il resto, i suoi giorni trascorsero nel silenzio delle cronache finché
un tragico incidente d'auto non la portò via, all’indomani della seconda guerra
mondiale.
La giovinezza di Guido, invece, trascorse in modo decisamente dispendioso e teatrale,
in forme che, opportunamente potenziate e corrette, ritroviamo in tutti gli eroi della sua
vasta produzione letteraria. Della sua terra d’origine, di Modena e dell’Emilia, non
scrisse quasi mai. Questi pochi versi del 1919, contenuti nella “Storia del mio funerale”,
sono da questo punto di vista quantomeno una rarità:
Modena la taciturna
ricca di lambrusche botti,
fragrante di messe vicina,
che sogna le belle Duchesse
d'Este, all'ombra della Ghirlandina.
Le belle Duchesse che asciugavano
alla ringhiera le trecce
magnifiche dei capelli d'oro;
Modena morta su l'imbrunire,
che ascolta fra lontane sponde
la tacita Secchia fluire...
6
Solo un’altra volta, di scorcio, l’autore ritornerà sulla geografia delle sue origini, in
occasione di una nuova edizione italiana di Madame Bovary, di cui firmò l'introduzione.
Ma che diavolo pensan mai questi faceti valentuomini della cortese terra emiliana, loro e mia, - gentile
terra estense, con la sua bella città modenese dai lunghi porticati un po’ scuri, dove, in una piazza uscita
dal genio d'artefici di prima del Mille, dorme, nell'alta e pura sua semplicità, la dolce Ghirlandina?...
7
In provincia di Modena, i Verona possedevano terreni a Castelfranco, Carpi e Sorbara,
ma se ne separarono presto, vendendoli e ipotecandoli, non appena si trasferirono a
Milano, città dai grandi stimoli e patria elettiva del giovane Guido. Qui il futuro
senza Dio, 1930; Consolazioni, 1933; Saper amare, 1939; Saper credere, 1946; Noi che camminiamo
nella notte, 1962).
5
La citazione è ancora contenuta in Icilio Bianchi (v. nota N° 2), op. cit., p. 30.
6
Guido da Verona, “La storia del mio funerale”, in Il libro del mio sogno errante, Baldini e Castoldi,
Milano 1919 (Corbaccio, Milano 1933, p. 99)
7
Gustave Flaubert, Madame Bovary, tr. it. di Bruno Omhet, con prefazione di Guido da Verona, S.E.L.,
Milano 1933, p. 5
3
scrittore compì i primi studi al collegio Calchi Taeggi, dalle parti di Porta Vigentina,
rivelando prestissimo il suo interesse per la letteratura e, soprattutto, per la poesia.
Poetici, infatti, furono i suoi primi componimenti
8
, molti dei quali mai pubblicati,
modellati sugli esempi di Petrarca, Leopardi, Aleardi, Carducci e D'Annunzio.
D’Annunzio, in special modo, avrebbe rappresentato, da quel momento in avanti, il
termine di paragone costante e dichiarato di tutta la successiva produzione daveroniana.
A lui il giovane discepolo s’ispirò non solo nell’arte, ma anche nell’elaborazione di una
raffinata condotta di vita, cui corrispose la stessa decisione di cambiarsi il nome in ‘da
Verona’ e la volontà d’imparare a scrivere elegantemente (parliamo proprio di
calligrafia), con ampi svolazzi d’inchiostro.
Finito il collegio, “siccome sua madre, come tutte le madri, voleva ch’egli avesse
almeno un diploma”
9
, da Verona s’iscrisse alla facoltà di legge, preferendo Genova alle
altre sedi universitarie dell’Italia del nord. Le ragioni di questa sua scelta, culturale e
logistica insieme, furono così spiegate da Paul Hazard
10
ai propri lettori francesi del
tempo:
[Da Verona] decise per giurisprudenza come fanno tutti i ragazzi che non hanno una vocazione precisa e
che si sentono solo inclini a sperperare tutti gli averi della famiglia. Se scelse l’università di Genova, non
fu per la sua fama nel campo del diritto, ma solo per il fatto che qui gli studenti non avevano l’obbligo
della frequenza ed egli apprezzava molto questo modo di concepire lo studio. Non c’è da meravigliarsi se
gli ci volle, per diventare dottore, molta fortuna e tutta l’indulgenza della sua commissione di laurea.
11
In quegli anni di applicazione incostante (e precisamente tra il 1901 e il 1902) da
Verona pubblicò i suoi due primi scritti poetici, la Commemorazione del fatto d’arme
del Brichetto ed I frammenti d’un poema. Canto civile, raccolte di versi entrambe
ispirate a fatti d’attualità. Dopo il servizio militare, che lo vide impegnato come
volontario in cavalleria, l’ormai ‘dottor Guido’ trascorse un breve ma intenso periodo
dedicato solo al divertimento e alle grandi avventure. Nel 1904, addirittura, arrivò a
correre alcune gare automobilistiche sulla SPA del barone Franchetti. Furono, questi, i
mesi del pendolarismo di lusso tra Roma e Milano. A Roma, lo scrittore frequentava
8
Su da Verona poeta si veda il breve saggio contenuto in Glauco Viazzi (a cura di), Dal simbolismo al
Déco. Antologia poetica, II, Einaudi, Torino 1981, pp. 441-442.
9
Paul Hazard, “Un romancier italien: M. Guido da Verona”, Revue des deux mondes, 1° luglio 1918, p.
207, traduzione nostra.
10
Paul Hazard, studioso francese (Noordpeene, Nord, 1878 - Parigi 1944), insegnò letteratura comparata
alla Sorbona e al Collège de France. Fu tra i primi a parlare ai Francesi di Pinocchio e di quell'autentico
"capital vivant" che fu, ai suoi occhi, il "romancier italien Guido da Verona".
11
Paul Hazard, articolo citato, p. 207.
4
l’Hotel Flora e aveva per amici Italo Balbo
12
, Antonio Beltramelli
13
, Danesi e Barnaba;
a Milano, invece, dove sostava più a lungo, conosceva Carlo Linati
14
, Gustavo Botta e
Umberto Notari.
Nel 1907, da Verona tornò nelle librerie con due nuovi titoli: Bianco amore, poema
biblico-pastorale, e Immortaliamo la vita!, racconto-lungo col quale esordì nella
narrativa. Bianco amore, come ricorda Icilio Bianchi
15
, fu benevolmente accolto dal
critico Francesco Pastonchi
16
sulle pagine culturali del Corriere della sera. Si trattò, si
può dire, del primo approccio di da Verona al mondo delle recensioni ‘importanti’ e,
benché fosse più favorevole di molti dei giudizi riservati alle opere successive del
‘nostro’, non impedì al giovane Guido, solo qualche tempo più tardi, di compiere un
impietoso esame di coscienza e di bollare entrambi gli scritti dei suoi ventisei anni,
Bianco amore non meno di Immortaliamo la vita!, come frutti acerbi di un talento
ancora troppo poco addestrato. La qual cosa, se si considera che gli apprezzamenti del
pubblico non mancavano affatto, contraddice con sufficiente evidenza la tesi di coloro
(molti) che per tutta la vita continuarono a vedere in da Verona nient’altro che “uno
scrittore bottegaio”
17
.
12
I rapporti di da Verona con Italo Balbo si incrinarono non appena il fascismo diede i primi segnali della
sua deriva totalitaria. In quei mesi, mentre lo scrittore prendeva lentamente le distanze dal regime, Italo
Balbo si rivelò sempre più in sintonia con il progetto politico di Mussolini, fino a diventare uno dei
gerarchi più influenti del regno (un ‘pescecane’, come sarebbe stato definito nella parodia dei Promessi
sposi). Al riguardo si veda il terzo paragrafo di questo capitolo.
13
Antonio Beltramelli, scrittore italiano (Forlì 1879 - Roma 1930). Subì la suggestione del
dannunzianesimo, innestando i miti eroici del nazionalismo nella descrizione dell'ambiente romagnolo e
divenendo così uno dei maggiori esponenti della cultura protetta dal fascismo. Nel 1929 fu nominato
accademico d'Italia.
14
Scrittore (Como 1878 - Rebbio, Como 1949), dopo una fugace esperienza futurista, collaborò alla Voce
e alla Ronda. Si espresse al meglio nei generi del saggio e del frammento, dove portò il suo gusto
particolare di paesaggista lombardo. Fu tra i primi divulgatori e traduttori in Italia delle opere di
Lawrence, Yeats e Joyce, in anni di ferma autarchia culturale.
15
Poche e frammentarie le notizie biografiche sul conto di Icilio Bianchi: agli inizi del Novecento
collaborò alla Biblioteca fantastica dei giovani italiani, collana di racconti fantasy diretta da Luigi Motta.
La collana fu pubblicata dalla Società Editoriale Milanese nel 1907 e si compose di sedici titoli, sei dei
quali (La seconda vita, L’anima dello specchio, La goccia di fuoco, I fiori della morte, Il gran Draken e
La sirena) certamente opera di Bianchi (che si firmò anche con lo pseudonimo di Y. Whites).
Contemporaneamente, o poco più tardi, Icilio Bianchi scrisse altri racconti per la rivista milanese
L’oceano. Fondatore nei primi anni Venti della casa editrice Modernissima, la cedette in seguito
all’editore dall'Oglio che la trasformò nell’omonima Casa Editrice dall’Oglio. La notizia qui riportata
relativa a Bianco amore e alla critica di Pastonchi è contenuta in Icilio Bianchi, op. cit., p. 17.
16
Francesco Pastonchi (Riva Ligure, Imperia 1877 – Torino 1953), poeta e prosatore. Pubblicò
quindicenne il primo volume di versi (Saffiche, Savona 1892). Compiuti gli studi a Torino, passò a
Milano dove tenne per qualche tempo la rubrica di critico di poesia sul Corriere della sera. Fu
considerato soprattutto come studioso e commentatore di poeti, specialmente di Dante. Dal 1935 insegnò
letteratura italiana all’università di Torino e nel 1939 fu nominato accademico d’Italia.
17
Icilio Bianchi, op. cit., p. 17.
5
Il primo stampatore di Immortaliamo la vita!, Arnaldo de Mohr della Libreria Editrice
Nazionale, fallì a pochi mesi dall’uscita del libro. “Senza dubbio una semplice
coincidenza […]”
18
, secondo Paul Hazard, dato che l’accorto “[…] editore [di Sesto San
Giovanni] […] che ripubblicò l’opera una volta divenuta di pubblico dominio, ne trasse
subito il massimo vantaggio [economico].”
19
Fu, quest’ultima, un’edizione popolare
“che i librai girovaghi vendevano ad una lira, ed anche a meno”
20
. Guido da Verona,
comunque, non ne ricavò che un guadagno simbolico, dato che Arnaldo de Mohr si era
per così dire ‘dimenticato’ di assicurare la proprietà letteraria del testo. Dopo
D'Annunzio, Carducci, Rovetta, Fogazzaro e la Neera, anche da Verona si trovava così
a vedere usurpati i suoi diritti di autore, benché nel frattempo, con l’istituzione della
S.I.A.E. (che si avviava ormai a compiere il quarto di secolo)
21
, si fosse formalmente
iniziato a riconoscere e a tutelare anche a livello giuridico il valore tutto particolare dei
prodotti d’ingegno. Ma un conto era la decisione di vigilare sul mercato librario e un
altro la possibilità reale di farlo (soprattutto a causa di difficoltà pratiche di
coordinamento) e da Verona dovette definitivamente rinunciare ai suoi soldi.
Ripudiato Immortaliamo la vita!, il vero esordio narrativo dello scrittore arrivò nel 1908
con L’amore che torna, romanzo ‘a chiave’, come si disse, basato su vicende d’amore e
di gretto interesse privato ambientate tra Roma, la campagna laziale e la città di Parigi.
In quell’occasione Guido da Verona prese personalmente i contatti col libraio-editore
Ettore Baldini, detto “el barba”
22
, nel suo ufficio al n° 80 della Galleria Vittorio
Emanuele di Milano (v. figura 1).
18
Paul Hazard, articolo citato, p. 214.
19
Ibid.
20
Icilio Bianchi, op. cit., p. 17.
21
Sul riconoscimento del nuovo ruolo dell’autore (tipico di una cultura industrializzata) e sui passaggi
che portarono, nella seconda metà del sec. XIX, alla costituzione della S.I.A.E. si veda Fausto Colombo,
La cultura sottile, Bompiani, Milano 1998, pp. 42-48.
22
Si racconta che Ettore Baldini, decisamente più aperto e ottimista del socio Antenore Castoldi, avesse
posato da giovane per la pubblicità della famosa Chinina Migone, una lozione venduta come miracolosa
per la ricrescita di barba e capelli. Sugli uomini e la storia della vecchia Baldini & Castoldi si veda anche
Delio Tessa, Ore di città, a cura di Dante Isella, Einaudi, Torino 1988, pp. 31-34 oltre, naturalmente, al
già citato Catalogo storico Baldini & Castoldi.
6
A quel giovane che si offriva di finanziare personalmente l’operazione, la coppia
Baldini e Castoldi
23
si limitò a chiedere un contributo parziale alle spese di stampa, 600
lire in tutto, assicurando inoltre una percentuale sulle vendite, percentuale che di lì a
poco avrebbe ripagato l’autore di quel suo (modesto) esborso iniziale. La storia, va
detto, favoriva marcatamente l’identificazione dei protagonisti, il conte Guelfo di
Materdomini e la sua amante, con lo stesso da Verona e la bella straniera che da qualche
tempo gli si accompagnava per le vie del centro, l’uno e l’altra seguìti da due splendidi
levrieri bianchi. Addirittura, in quell’ultimo scorcio del 1908, secondo una confidenza
fatta a Carlo Linati, pare proprio che da Verona sognasse di cambiarsi il cognome in
Materdomini, come l’eroe del suo romanzo. “<Che idea!> gli dissi. <E perché proprio
Materdomini?>. <Mi piace>”
24
, fu la sua risposta.
Era fatto così, da Verona: fantasticava su se stesso e sul mondo. Finì poi che non lo
prese, quello pseudonimo, e forse fu un bene, come scrisse con qualche malignità lo
stesso Linati, “perché con Materdomini mica sarebbe certo arrivato ad aver la fama di
Guido da Verona”
25
.
In quei mesi, di tanto in tanto, lo scrittore iniziava ad assaporare il proprio successo ad
un tavolo del Savini (v. figura 1), celebre ritrovo milanese del quale, come vedremo,
sarebbe diventato ospite fisso nelle sere della sua definitiva consacrazione.
23
“Ettore Baldini, Antenore Castoldi, Alceste Borella e Gian Pietro Lucini fondarono la casa editrice
Baldini & Castoldi nel 1897, dopo aver acquistato la libreria editrice Galli [della quale,] […] oltre al
catalogo, assorbirono […] anche le librerie situate in Galleria Vittorio Emanuele, esattamente ai numeri
civici 17 e 80. Dopo pochi mesi, nel gennaio 1898, Lucini abbandonò il gruppo. […] Borella morirà nel
1910. […] [Rimasti Baldini e Castoldi, per] diversi anni i due soci <sfruttarono> il catalogo della Galli,
rieditando opere già stampate con il vecchio marchio o confermando autori di successo come Gerolamo
Rovetta, Antonio Fogazzaro e Neera. […] [Comunque,] la volontà di perseguire solo progetti editoriali
economicamente <sicuri> […] non impedì [loro] […] di selezionare e promuovere nuovi talenti [come
Guido da Verona e il piemontese Salvator Gotta].” (Patrizia Caccia, “Introduzione” al Catalogo storico
Baldini e Castoldi 1897-1970, Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp. XI-XII) Poi, nel 1932, Enrico
Castoldi entrò a far parte della casa editrice in qualità di collaboratore e rivoluzionò il catalogo aprendo
agli autori stranieri, soprattutto agli ungheresi della cosiddetta corrente neoborghese. Dal 1940 e fino alla
fine delle pubblicazioni, negli anni Settanta, la Baldini & Castoldi fu diretta dal solo sig. Antenore. Sotto,
l'antica insegna della casa editrice in Galleria.
24
Carlo Linati, “Il bel Guido” [1943], in Il bel Guido e altri ritratti, Ultra, Milano 1945 (poi All’insegna
del pesce d’oro, Milano 1982, pp. 29-30).
25
Carlo Linati, “Il bel Guido”, op. cit., p. 30.
7
Qui sedeva anche Filippo Tommaso Marinetti, che non aveva ancora pubblicato il suo
Manifeste du futurisme
26
e che si limitava, per il momento, a recitare Baudelaire e
Laforgue nei più raffinati salotti cittadini e ad “asciugare [le bozze dei suoi poemi] con
la cenere delle infinite sigarette che fumava”
27
. Da questi incontri, com’è probabile,
(così come dalle successive frequentazioni dei due), sarebbe filtrata nell’animo di da
Verona buona parte di quell'ansia di rinnovamento delle lettere e di quel desiderio di
vitalismo sfrenato che ritroveremo presto nelle sue opere più mature.
26
Marinetti pubblicò il Manifeste du futurisme sul numero di Le Figaro del 20 febbraio 1909. Per i
rapporti tra Guido da Verona e il futurismo si veda il 3° paragrafo di questo capitolo.
27
Carlo Linati, “Il bel Guido”, op. cit., p. 31.
8
Figura 1. La Milano di Guido da Verona.
Pianta di Milano del 1910. Da una guida Lampugnani
9
1.2. Dai primi romanzi al pieno successo (1910-1919)
Il primo vero grande successo di da Verona arrivò nel 1910 con Colei che non si deve
amare, di sicuro -tra tutti- il suo intreccio più scandaloso. Paul Hazard lo definì un libro
“ricco, vigoroso e tagliente”
28
. Il romanzo, che narrava l’amore incestuoso di due fratelli
alla perenne ricerca di una promozione sociale, era stato scritto quasi interamente tra
l’Inghilterra e la Francia e nel 1919
29
, alla sua terza ristampa, aveva già venduto oltre
90.000 copie, avviandosi a toccare le 250.000 in tempo per i primi anni Trenta. Così
Icilio Bianchi, che di da Verona era amico oltre che estimatore, descrisse il clima di
autentica eccitazione che accompagnò quell’uscita sui tavoli dei librai:
Baldini faceva squillare in Galleria il […] nome [di da Verona] su reclam [sic] sperticate
30
, le pile dei
suoi volumi scemavano e si annullavano nei negozî, come i panettoni a Natale. La produzione
daveroniana allagò le bancarelle, invase le provincie, i tavolini da notte dei commendatori,
degl'industriali, delle mantenute, degli agenti di cambio: fece la fortuna di languenti librerie e per anni
legioni di linotipisti continuarono a lavorare giorno e notte per buttar fuori in tempo i sedicesimi
necessari a sfamare tanta voracità di popolo.
31
Con questo romanzo da Verona partecipò al Concorso Rovetta (un’ “indegna buffonata”
-come commentò poi- “£ 5.000, handicap per allievi fantini!”
32
), ma non lo vinse per
difetto di moralità. O meglio, lo vinse, ma fu poi subito squalificato per un
ripensamento dei giudici che evidentemente avevano letto il testo solo dopo averlo
premiato.
33
28
Paul Hazard, articolo citato, p. 214.
29
All’epoca, Icilio Bianchi (op. cit., p. 19) scriveva: “Crediamo che nessun altro libro di letteratura, fra
quelli che non furon adottati come testi scolastici, neppure si avvicini alla tiratura di questo romanzo che,
con la ristampa ora in corso, sorpasserà le 90.000 copie! Giova notare che nelle cifre indicate sulle
copertine dei due primi romanzi di Guido da Verona figurano soltanto gli esemplari sottoposti al controllo
della venerabile Società degli Autori, mentre prima, per un paio d’anni, L’Amore che torna! [sic] e Colei
che non si deve amare si vendettero fuori numerazione.”
30
Sulle strategie pubblicitare della neonata industria culturale italiana si veda Fausto Colombo, op. cit.,
pp. 84-89 e pp. 102-105.
31
Carlo Linati, "Il bel Guido" [1943], in Il bel Guido e altri ritratti, Ultra, Milano 1945 (poi All'insegna
del pesce d'oro, Milano 1982, p. 33).
32
Icilio Bianchi, op. cit., p. 19.
33
La circostanza è riportata in un articolo di Antonietta Drago (“Un bel tenebroso per <ragiunatt>, Il
Giornale, 13 ottobre 1979, terza pagina).
10
Dopo Colei che non si deve amare, da Verona scrisse La vita comincia domani (1913),
ampiamente recensito e lodato da Ettore Janni
34
(alias ‘Index’) in una di quelle sue
“profonde e gustose cronache letterarie”
35
con cui all’epoca onorava il Corriere. A
proposito di questo quarto (o terzo) romanzo del nostro autore (a seconda che si conti o
meno Immortaliamo la vita!), Icilio Bianchi sostenne la tesi del plagio ad opera di
Gabriele D’Annunzio.
Stando infatti alle affermazioni di alcuni daveroniani convinti, pare che il Vate, un anno
e mezzo dopo l’uscita del libro, avesse illegittimamente tratto da La vita comincia
domani il suo Chèvrefeuille, tragedia in 4 atti dal successivo, fiacco debutto a Parigi,
presso il teatro della Porte Saint-Martin
36
. In quell’occasione, a detta degli accusatori,
D’Annunzio si era limitato a sceneggiare abilmente l’opera del collega, rifiutandosi poi
di ammettere il debito per non dover spartire un successo (per quanto di proporzioni
ridotte) che pretendeva soltanto suo. D'Annunzio, naturalmente, non appena fu
interpellato, negò ogni circostanza, arrivando perfino a dichiarare di non aver mai avuto
notizia dell’ultimo romanzo di da Verona. Ciò detto –e limitandoci ai fatti-, l’unica cosa
certa nell’intera vicenda, tra ripicche e punzecchiature varie, è che l'adattamento italiano
del dramma (che alla fine prese il nome di Ferro) fu opportunamente modificato in più
punti essenziali rispetto all’originale francese, passando così da quattro a tre atti e
trovando soluzioni alternative sia nella trama che nel dialogato.
Da Verona, almeno all’inizio, non reagì. Si limitò ad un mezzo sorriso e poi si rituffò
subito nel cumulo disordinato delle sue bozze inchiostrate, come d’abitudine, più
determinato e ispirato che mai. Pochi mesi più tardi, a metà del 1914, avrebbe sfornato
il Cavaliere dello Spirito Santo
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, il suo nuovo lavoro.
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Ettore Janni (Vasto, Chieti 1875 – Milano 1956), giornalista e scrittore. Fu per anni redattore-capo e
critico letterario del Corriere della Sera; deputato al parlamento per la XXV legislatura, si ritirò poi dalla
vita politica perché avverso al fascismo. Quando poi il fascismo cadde, Janni tornò come direttore al
Corriere (dal 26 luglio all’8 settembre 1943). Subito dopo la liberazione dell’Italia settentrionale, diresse
La libertà, quotidiano liberale di Milano.
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Icilio Bianchi, che riporta la notizia (op. cit., p. 19), non specifica data e luogo della recensione in
oggetto.
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Posto al N° 18 del Boulevard St-Martin, il Théâtre de la Porte St-Martin fu costruito in 75 giorni nel
1781 e sovraccaricato di sculture, opera di Jacques Chevallier, nel 1875. E’ famoso negli annali teatrali
per i trionfi riportativi dall’attrice Sarah Bernhardt nei drammi di Sardou e da Coquelin nei panni di
Cyrano de Bergerac.
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A proposito del Cavaliere dello Spirito Santo, Icilio Bianchi (op. cit., p. 24) scrisse: “Questo bizzarro
libro è quello, fra quanti egli ne scrisse, che noi preferiamo, e piacque a molti del gruppo fiorentino,
persino a Papini ed anche a Boine; non certo al pubblico, che forse lo lesse solo per riconoscenza verso il
romanziere. Per riconoscenza o per curiosità”.