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INTRODUZIONE
Esplorare l’attaccamento madre-bambino è fondamentale in quanto si
pone come uno dei principali fattori di mediazione nella relazione fra
trauma e psicopatologia. In tale ottica, gli effetti a lungo termine di
esperienze traumatiche vissute all’interno della famiglia, si pensano mediati
dai modelli mentali sviluppati dall’individuo rispetto alle proprie relazioni
di attaccamento. Le relazioni di accudimento connotate da trascuratezza e
maltrattamenti, incidono sullo sviluppo mentale, determinando successiva
vulnerabilità alla psicopatologia sia in adolescenza che in età adulta (Liotti.,
Farina., 2011). E’ importante dunque avere consapevolezza della presenza
di tali forme traumatiche intrafamiliari difficilmente rilevabili e fortemente
influenti nel determinare esiti a breve e a lungo termine di diversa gravità,
per poter attuare piani di intervento e supporto atti a ridurre il fenomeno e
le sue conseguenze.
La presente tesi intende esplorare il ruolo svolto dalle figure
genitoriali nel mitigare o esacerbare l’esperienza traumatica vissuta dal
proprio figlio. In particolare viene trattato il caso in cui la relazione
primaria madre-bambino si pone essa stessa come traumatica per il piccolo
ed ostacolante lo sviluppo di rappresentazioni interne sicure. Tuttavia è
riduttivo ritenere che vi sia una causalità lineare fra attaccamento
traumatico madre-figlio e successiva insorgenza psicopatologica, in quanto
possono intervenire fattori protettivi in grado di ridurre i rischi legati alla
relazione primaria disfunzionale. In particolare si è data rilevanza alla
funzione, spesso sottovalutata, della figura paterna coinvolta all’interno di
contesti familiari traumatici per il proprio figlio.
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Partendo dunque dalla presentazione dei vari contributi che hanno
permesso lo sviluppo della Teoria dell’Attaccamento e focalizzando
soprattutto l’attenzione sulle dinamiche insite nelle forme di attaccamento
insicuro/disorganizzato ed il rischio di insorgenza psicopatologica ad esso
connesso, il presente elaborato si conclude valorizzando il ruolo paterno,
inteso come filtro di relazioni insicure strutturatesi fra madre e bambino.
In successione sono state quindi trattate le seguenti tematiche:
Nel primo capitolo, facendo riferimento alla prospettiva evolutivo-
relazionale, viene presentato l’excursus della Teoria dell’Attaccamento a
partire dal lavoro di John Bowlby che ha dato avvio ad un insieme di studi
sull’attaccamento madre-bambino, rappresentati principalmente da Mary
Ainsworth che ha elaborato la Strange Situation Procedure, permettendo di
spiegare l’interconnessione esistente fra attaccamento e Modelli Operativi
Interni e Mary Main che, con l’elaborazione dell’Adult Attachment
Interview, ha permesso di focalizzare l’attenzione sull’aspetto
rappresentazionale delle relazioni più che su quello comportamentale.
Inoltre ho ritenuto importante citare il contributo di Patricia Crittenden
(2008) che ha rielaborato ulteriormente la teoria proponendo il Modello
Dinamico-Maturativo dell’Attaccamento che viene definito in termini
strategici come protezione del Sé da ogni forma di pericolo. A tal proposito
l’autrice ha messo in discussione la stabilità nel tempo dei modelli operativi
interni, così come concettualizzato da Bowlby, ponendo in evidenza una
intrinseca capacità plastica presente nell’uomo e riconducibile a connessioni
neurali in grado di far evolvere le modalità rappresentazionali circa sé
stessi e la realtà. Dunque nonostante sia presente un meccanismo
intergenerazionale dell’attaccamento, le disposizioni dell’individuo
evolvono nel tempo sulla base del proprio vissuto esperienziale e della forza
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dei nuovi legami significativi strutturatesi nel corso della vita, in
particolare, come esporrò nel corso della tesi, la relazione di coppia.
Alla luce delle varie impostazioni teoriche presentate, si è
approfondito nel secondo capitolo il concetto di trauma da un punto di vista
evolutivo–relazionale, facendo distinzione fra la definizione oggettiva di
esso presente nel DSM-IV, ed il recente interesse per la connotazione
soggettiva dell’esperienza traumatica, con particolare riferimento a
situazioni traumatiche non riconducibili ad uno spazio temporale delimitato,
ma altrettanto dannose per la salute psicofisica del soggetto ed inserite in
un contesto caratterizzato da relazioni primarie disfunzionali riconducibili
alla relazione madre-bambino. Queste vengono definite con il concetto di
“trauma complesso” che racchiude dunque varie tipologie di traumi di
natura interpersonale che vanno dal maltrattamento diretto a forme occulte
di abuso identificabili nella trascuratezza emotiva. Viene inoltre affrontata
la relazione tra trauma e dissociazione, con particolare riferimento
all’attaccamento disorganizzato, inteso come la forma più precoce di
dissociazione e come il primo dei traumi cumulativi che può condurre ad
esiti psicopatologici futuri (Liotti, 2011). Il capitolo prosegue spiegando
come il legame di attaccamento possa fortemente influire nel mediare la
risposta ad un trauma e come esso stesso può porsi come fonte traumatica,
se caratterizzato da comportamenti di attaccamento disorganizzati che
inducono il bambino a rifiutare la conoscenza degli stati mentali propri ed
altrui, causando a lungo andare l’insorgere di un disturbo psicopatologico
di natura traumatica (Attili, 2007). Il sistema di attaccamento dunque si
pone come fattore di rischio o protezione nei confronti di un trauma. E’
importante comunque tenere presente ulteriori fattori che influiscono nel
determinare gli esiti psicopatologici o meno a seguito di un trauma, quali ad
esempio lo sviluppo di altre relazioni significative, in particolare il legame
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con un padre sicuro che può fungere da coadiuvante di una relazione madre-
bambino disfunzionale.
A tal proposito il terzo capitolo tratta della figura paterna che, da
ruolo marginale, si è progressivamente configurata come fattore protettivo
in grado di assumere una funzione trasformativa nei confronti di situazioni
a rischio di insorgenza psicopatologica a causa di un contesto relazionale
non adeguato per lo sviluppo del bambino, che si trova a vivere nella
cosiddetta condizione di “trauma complesso”. Il padre, alla luce di ciò, può
configurarsi come “base sicura” alternativa alla madre nei confronti di un
figlio che non è riuscito a sintonizzarsi con lei. A tal proposito, Baldoni
(2005) mette in evidenza che, considerando il padre come base sicura, la
sua funzione si estrinseca in particolare in tre momenti dello sviluppo del
ciclo di vita familiare: la prima infanzia, il periodo edipico e l’adolescenza,
sostenendo il figlio nel suo sviluppo. Il ruolo paterno garantisce non solo lo
strutturarsi di un attaccamento padre- figlio, ma funge anche da mediatore
per lo sviluppo di un attaccamento materno che sia adeguato e sicuro.
Secondo una dinamica circolare infatti il padre/marito si pone come
base sicura anche nei confronti della partner che, in conseguenza di cure
carenti e distorte vissute a sua volta in età infantile, presenta modelli
operativi interni disfunzionali che vanno ad incidere negativamente sulle
modalità di accudimento rivolte al proprio figlio, il quale rischia di essere
maggiormente vulnerabile all’insorgenza psicopatologica a causa del
trauma relazionale precoce vissuto in relazione con la madre. Il legame con
un partner sicuro permette infatti alla donna di “esplorare” con sicurezza
la relazione con il figlio, grazie alla certezza relativa alla percezione che il
legame di coppia è duraturo e stabile (Attili, 2007).
Attaccamento infantile ed adulto dunque si intrecciano in un
influenzamento intergenerazionale, in quanto le modalità di accudimento
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esperite nell’infanzia saranno, assumendo il ruolo genitoriale da adulti, i
pilastri fondanti i modelli operativi interni del proprio figlio che, crescendo,
potrà sviluppare una percezione di sé stesso, del mondo e degli altri
secondo una connotazione sicura o meno, influendo quindi sulle successive
interazioni a cui andrà incontro ed in particolare nella futura scelta del
partner e nella strutturazione del legame di coppia. Il partner è quindi
capace di porsi come fattore di trasformazione circa i modelli operativi
interni della coniuge, influenzando quindi la relazione di coppia, ma anche
e soprattutto la relazione madre-bambino.
Il capitolo si conclude approfondendo come il ruolo compensativo del
padre/marito possa anche connotarsi in termini di funzione antidepressiva
nei confronti della propria compagna in due momenti cruciali, quali la
gravidanza e la menopausa. Il suo ruolo si esplica fornendo supporto
emotivo e sicurezza alla partner, con lo scopo di garantire lo sviluppo di un
adeguato attaccamento con il figlio nel caso in cui la donna soffra di
depressione post-partum. Tuttavia è da tenere presente che non sempre il
padre influisce positivamente, in quanto può vivere con disagio la nascita
di un figlio, scatenando esiti negativi nella coppia e nella futura formazione
del legame con il bambino. Si comprende dunque come sia fondamentale
sostenere ed ascoltare anche il padre nella progressiva ed imminente
acquisizione della paternità.
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CAPITOLO I. LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO
1.1 Origini e sviluppo della teoria dell’attaccamento
La variabilità ambientale ha condotto l’essere umano sin dalla nascita
a sviluppare comportamenti di attaccamento, quali l’aggrapparsi o seguire
una figura di riferimento, rappresentata soprattutto dalla madre, il cui scopo
principale è mantenere stabile il sistema omeostatico di sicurezza
dell’organismo (Miller, Galenter e Pibram, 1960), mettendo in atto una
interazione centrata sulla richiesta e offerta di cura (Liotti, 2005a).
In un ottica evoluzionistica, l’attaccamento è stato riconosciuto come
parte dei sistemi motivazionali innati dell’uomo, insieme ai sistemi di
difesa ed esplorativo che, sviluppandosi nel corso dell’evoluzione, hanno
favorito l’adattamento e lo sviluppo del soggetto all’interno del suo
ambiente di vita. La sua importanza è stata al centro di una gran mole di
studi circa l’influenza da esso esercitata sullo sviluppo del bambino ed il
suo ruolo fondamentale nel mitigare o esacerbare l’esperienza soggettiva di
un evento traumatico vissuto dal soggetto (Liotti, 2011). E’ emerso che le
modalità di accudimento poste in essere nella relazione madre–bambino,
influiscono fortemente sullo sviluppo psicofisico del piccolo che, durante
l’infanzia e in età adulta, potrà essere caratterizzato da maggiore o minore
vulnerabilità a diverse psicopatologie di origine traumatica.
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Storicamente, le origini della teoria risalgono alla tradizione
psicoanalitica delle relazioni oggettuali (Fonagy, 2001), dalla quale essa
prese le distanze divenendo una disciplina autonoma di impronta
evoluzionistica grazie a John Bowlby (1969, 1973, 1980). Sulla base dello
studio circa le osservazioni di Harlow e Lorenz sull’imprinting (Bowlby,
1988), si apprese che la predisposizione di alcuni animali a formare un
legame di attaccamento verso una figura di riferimento, non mediato dal
cibo ma dal bisogno di sicurezza e protezione, è presente anche nell’essere
umano e scaturisce dal bisogno di ricevere protezione in condizioni di
pericolo o quando non vi è la certezza che la figura sia disponibile
(Bowlby, 1988). Da ciò si concluse che il legame di attaccamento può
intendersi come un “sistema motivazionale primario” geneticamente
determinato (Bowlby, 1973), la cui funzione principale è garantire la
sopravvivenza in termini biologici e psicologici dell’individuo e di
conseguenza facilitare l’adattamento dell’uomo al suo ambiente.
Per lungo tempo Bowlby si dedicò ad una serie di studi circa la
natura del legame madre-bambino da una prospettiva evolutivo-
relazionale, riferita alla dimensione interpersonale e non intrapsichica,
avviando la prima fase del percorso di sviluppo della teoria
dell’attaccamento, nel quale assunse importanza il ruolo dell’ambiente
esterno e la relazione di attaccamento come fattori incidenti sullo sviluppo
del bambino, con particolare riferimento alla separazione fisica dalla
figura materna come unico trauma responsabile nell’incrementare la
vulnerabilità del soggetto alla psicopatologia nel corso della sua crescita
(Bowlby, 1973). L’incidenza negativa che la deprivazione materna può
avere sullo sviluppo psicofisico del bambino, si evidenzia dall’emergere di
emozioni dolorose che successivamente evolvono in comportamenti