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INTRODUZIONE
Lo studio dello sviluppo delle Funzioni Esecutive in età evolutiva ha suscitato
particolare interesse in tempi relativamente recenti; le ricerche in merito, infatti,
sono limitate soprattutto agli ultimi 20 anni, grazie alla diffusione di varie teorie
riguardo lo sviluppo cognitivo dei bambini e le Funzioni Esecutive costituiscono
proprio una componente legata in maniera moto significativa alla maturazione
cerebrale fin dai primi anni di vita. Il primo capitolo propone una descrizione del
concetto di Funzioni Esecutive e il loro sviluppo dal punto di vista evolutivo, anche
mediante l’ausilio di alcuni modelli neuropsicologici; viene inoltre presentato il
rapporto esistente con le aree prefrontali del cervello in relazione alle attività svolte
dai cosiddetti ―processi di ordine superiore‖ e in particolare la suddivisione
neuroanatomica dei compiti appartenenti al dominio delle Funzioni Esecutive in due
macro-aree: cognitivi (dorsolaterali) e motivazionali (orbitali).
Nel secondo capitolo viene presentata la descrizione del Disturbo da Deficit di
Attenzione/Iperattività (ADHD) mediante i criteri diagnostici forniti dai manuali
comunemente utilizzati, come il DSM-IV e l’ICD-10, la sua eziologia e alcuni modelli
neuropsicologici che forniscono delle ipotesi sull’origine del disturbo: alcuni modelli
eziologici correnti sull’ADHD sostengono che in questi bambini ci sia una
compromissione neurofunzionale che interessa il circuito striato che, partendo dalle
regioni dorsolaterali frontali, passa attraverso le regioni orbitali e limbiche per
arrivare al nucleo caudato e al putamen (Castellanos et al., 1996). Da un punto di
vista neurocognitivo l’ADHD viene interpretato come un disturbo multifattoriale in
cui si possono individuare più nuclei deficitari, tra cui un deficit delle Funzioni
Esecutive, in particolare l’inibizione e un deficit di tipo motivazionale. Il deficit
esecutivo troverebbe un correlato neuroanatomico nelle regioni dorsolaterali della
corteccia prefrontale, mentre quello motivazionale nelle regioni orbitali e limbiche
(Sonuga-Barke, 2002). Nel campo della ricerca neuropsicologica sull’ADHD, infatti,
si riscontra un crescente numero di lavori che analizzano il rapporto tra le Funzioni
Esecutive e i fattori motivazionali, al fine di analizzare i meccanismi interattivi tra
questi domini. Nella pratica clinica si osserva che effettivamente i fattori
motivazionali ed esecutivi coesistono in questi bambini, ma si fatica a cogliere se i
deficit alle Funzioni Esecutive siano un artefatto della scarsa motivazione ai compiti
proposti. Recentemente Luman e collaboratori (2008) hanno ipotizzato che gli
ADHD siano maggiormente sensibili alla frequenza, piuttosto che alla grandezza dei
rinforzi, per cui da un punto di vista clinico-educativo è interessante conoscere quali
potrebbero essere le modalità con le quali si può essere maggiormente efficaci
nell’intervento terapeutico dell’ADHD.
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Il terzo capitolo si occupa, invece, della presentazione dei Disturbi Specifici di
Apprendimento che coinvolgono le aree della letto-scrittura e del calcolo e
caratterizzano frequentemente i bambini in età scolare. In particolare vengono
proposti per ciascuno i criteri diagnostici forniti dai due principali manuali di
riferimento e alcuni modelli interpretativi.
Nel quarto capitolo vengono presentate le finalità della ricerca e la metodologia
utilizzata: a tutti i partecipanti è stata somministrata una batteria di test per le
Funzioni Esecutive composta da: 1) Junior Brixton Test, un compito di
ragionamento visuo-spaziale tratto dall’originale di Burgess e Shallice del 1997,
presentato in due condizioni (con e senza rinforzo) per accertare l’eventuale
influenza motivazionale; 2) Iowa Gambling Task (tratto dalla versione originale di
Bechara, Damasio e Anderson del 1994), un compito che valuta la capacità di fare
scelte vantaggiose e di tener conto delle prospettive future, in cui i bambini devono
scegliere delle carte da 4 mazzi diversificati in base alla frequenza e alla quantità
dei premi intermedi, al fine di accumulare più punti; 3) Battersea Multitask
Paradigm, realizzato originariamente da Mackinlay, Charman e Karmiloff-Smith nel
2002 e riprodotto con alcune modifiche da Manzoni e Marzocchi nel 2005: si tratta
di un compito manipolativo che utilizza un paradigma di tipo ―multitasking‖ (compiti
multipli), in cui i bambini devono eseguire una serie di compiti
contemporaneamente e organizzare un piano per ottenere più punti nel rispetto di
alcune regole predefinite, coinvolgendo così una serie di processi cognitivi
fondamentali nell’organizzazione del proprio comportamento futuro.
Al fine indagare il dominio delle Funzioni Esecutive nella sfera quotidiana è stato
somministrato ai genitori e agli insegnanti di tutti i soggetti partecipanti il QU.F.E.
(Questionario per le Funzioni Esecutive), una versione ridotta e modificata del
Behavior Rating Inventory for Executive Function di Gioia e collaboratori (2000).
I risultati, analizzati e discussi nell’ultimo capitolo, consentiranno di verificare la
specificità del disturbo esecutivo degli ADHD e dei DSA rispetto alle Funzioni
Esecutive, valutando il ruolo svolto dalla componente motivazionale rispetto al
deficit esecutivo.
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CAPITOLO 1
LE FUNZIONI ESECUTIVE
1.1. COSA SONO LE FUNZIONI ESECUTIVE
Con il termine Funzioni Esecutive (FE) si fa riferimento all’insieme delle
operazioni cognitive di ordine superiore e alle abilità necessarie per una attività
intenzionale e finalizzata al raggiungimento di obiettivi (Anderson, 1998) e
racchiudono un’ampia gamma di comportamenti e cognizioni dell’uomo che hanno a
che fare con la pianificazione e l’esecuzione di attività finalizzate ad uno scopo
(Rabbitt, 1997). Anche Roberts e collaboratori (1998) identificano il costrutto delle
Funzioni Esecutive come la programmazione ottimale delle diverse componenti che
caratterizzano un’attività complessa, un insieme di operazioni che include la
funzione di supervisione, come per esempio l’applicazione di adeguati meccanismi
inibitori, nonché il monitoraggio dell’azione, indispensabile per il ripristino dei
passaggi caratterizzanti un’azione volontaria. Da quest’ultima definizione si evince
che le Funzioni Esecutive coinvolgono il mantenimento e la manipolazione delle
informazioni necessarie per affrontare quelle situazioni in cui la risposta appropriata
non è completamente dettata dalle informazioni relative agli stimoli contingenti,
situazioni in cui è necessario formulare un adeguato piano d’azione basato sia sulle
informazioni legate al contesto presente, sia sulle proprie esperienze passate e tali
azioni devono altresì essere flessibili e adattive, associate ad un costante
monitoraggio (che comprende anche la rilevazione e la correzione di eventuali
errori), man mano che esse vengono messe in atto. Queste operazioni possono
essere più o meno complesse, dall’andare in bicicletta allo svolgimento di un
compito scolastico e vengono svolte, appunto, tramite l’ausilio indispensabile delle
Funzioni Esecutive.
Shallice (1990) aggiunge che non servono per compiere attività routinarie, ma
sono necessarie nelle situazioni nuove, non familiari, essendo modalità di risposta
non iper-apprese: emerge, quindi, un’ulteriore e importante caratteristica delle
Funzioni Esecutive ribadita sempre da Rabbitt (2007), il quale sottolinea che molte
sequenze di azioni possono essere portate a termine in maniera automatica, senza
un controllo conscio, come accade nelle attività mediate dalle cosiddette Funzioni
Non Esecutive in cui il comportamento è controllato automaticamente. Ciò che
distingue, quindi, le Funzioni Esecutive da quelle Non Esecutive non è tanto la
complessità del compito, bensì la sua intenzionalità, in cui sono allo stesso modo
necessarie la pianificazione strategica, l’attuazione di una nuova sequenza
comportamentale, la soppressione di comportamenti inadeguati e il controllo ―on-
line‖ della propria performance.
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1.2. I MODELLI TEORICI DELLE FUNZIONI ESECUTIVE
Uno dei dibattiti più accesi riguarda proprio la natura del costrutto di Funzioni
Esecutive: si tratta di un processo unitario, oppure di un insieme di componenti
indipendenti e distinte fra loro? E in questo secondo caso quale sarebbe la relazione
esistente fra queste diverse componenti? (Best et al., 2009).
In merito alla prima questione, alcuni autori suggeriscono l’esistenza di una serie
componenti separate fra loro, ma allo stesso tempo interconnesse in un sistema
gerarchicamente organizzato basato sulla stretta collaborazione fra le varie
sottocomponenti, come proposto da Shallice (1990) nella definizione di Sistema
Attenzionale Supervisore (SAS), un sistema a capacità limitata coinvolto in una
serie di processi esecutivi, tra cui pianificazione, presa di decisione e ricerca di
soluzioni in situazioni nuove e non abituali. Allo stesso modo anche Dempster
(1992) mira alla definizione di una teoria unificata delle Funzioni Esecutive,
individuando come costrutto essenziale un processo inibitorio generale. In
contrasto, altri autori considerano le Funzioni Esecutive come un costrutto unitario
formato da diversi domini che agiscono indipendentemente gli uni dagli altri e in
aree cerebrali differenti: a questo proposito viene richiamata l’altra annosa
questione che riguarda la domanda su quali siano effettivamente queste
componenti. Welsh e Pennington (1988) individuano tre elementi costitutivi
fondamentali delle Funzioni Esecutive, ossia la rappresentazione mentale del
compito, caratterizzata dalle informazioni rilevanti e l’obiettivo da raggiungere, lo
sforzo di inibire o posticipare una risposta impulsiva e la pianificazione strategica
delle azioni da svolgere mediante la definizione di una sequenza ben definita di
passaggi. Allo stesso modo Anderson (2002) considera anche la pianificazione una
componente essenziale delle cosiddette azioni goal-oriented. In uno studio del 2000
Miyake e collaboratori hanno valutato, invece, il rapporto esistente tra flessibilità,
monitoraggio e inibizione comportamentale, considerati come i meccanismi base
delle Funzioni Esecutive: i risultati della ricerca hanno dimostrato che questi tre
meccanismi cognitivi sono costrutti separati, ma non completamente autonomi, a
supporto sia dell’ipotesi delle Funzioni Esecutive, intese come costrutto unitario,
composto da diverse componenti interconnesse, sia della teoria opposta, secondo la
quale l’esecutivo centrale delle Funzioni Esecutive sarebbe frazionato in sottosistemi
fra loro indipendenti. Ancora, altri autori (Davidson et al., 2006; Bell et al., 2007)
identificano l’inibizione e la memoria di lavoro come due costrutti inseparabili e che
costituiscono la componente essenziale delle Funzioni Esecutive.
Una delle ipotesi più accreditate sulle Funzioni Esecutive, quindi, riguarda la loro
natura di tipo multicomponenziale. Nel 1991 Shallice e Burgess hanno condotto un
esperimento su tre soggetti che, in seguito ad un incidente stradale, hanno
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riportato un danno al lobo frontale: nonostante questi fossero comunque persone
molto intelligenti e in grado di completare con successo alcuni test classici relativi
alla valutazione delle Funzioni Esecutive, essi non furono in grado di mettere in
pratica un piano d’azione cosiddetto ―multitasking‖ associato ad una situazione di
vita quotidiana piuttosto abituale (in questo caso gli autori hanno scelto come
situazione multitask prototipica lo shopping). A questo proposito Burgess (2000)
suggerisce un modello in cui vengono riassunte quelle che secondo lui costituiscono
le tappe fondamentali che una persona deve applicare per compiere una qualsiasi
attività quotidiana, caratterizzata da un comportamento di tipo sequenziale: prima
di tutto una persona deve essere in grado di comprendere a fondo le regole che
vincolano lo svolgimento dell’attività, regole che sono di fondamentale importanza
poiché permettono di formulare un adeguato piano d’azione mediante i vari passi
che si susseguono durante l’esecuzione dell’attività, cercando di mantenere un
livello di coerenza il più adeguato possibile fra i passi pianificati e l’effettiva
esecuzione; infine il soggetto deve essere in grado di rievocare con attenzione i vari
passaggi per poter eventualmente apportare delle correzioni o dei miglioramenti in
relazione a ciò che si è appena svolto. Questo modello è perfettamente in linea con
uno degli strumenti utilizzati durante la realizzazione di questa ricerca, ossia il
Battersea Multitask Paradigm: questo test, infatti, prevede la realizzazione in
sequenza di una serie di passaggi accuratamente valutati (apprendimento delle
regole, esecuzione, pianificazione, coerenza con la pianificazione, racconto e
memoria delle regole), che sono indispensabili per il bambino, al fine di realizzare
una performance adeguata.
In sintesi, considerando l’ampia letteratura scientifica in merito (Alvarez e
Emory, 2006; Best et al. 2009) è possibile riconoscere alcuni processi fondamentali
sottostanti le Funzioni Esecutive, aspetti quali la flessibilità cognitiva, l’inibizione, la
memoria di lavoro, la pianificazione e i meccanismi di attenzione selettiva e
sostenuta, che verranno brevemente descritti nel paragrafo successivo.
1.3. LE DIVERSE COMPONENTI DELLE FUNZIONI ESECUTIVE
Come affermato in precedenza, pur non essendoci totale accordo fra gli autori
nel definire quali siano i loro aspetti fondamentali, le Funzioni Esecutive possono
essere raggruppate in alcuni meccanismi cognitivi fondamentali.
1.3.1. Memoria di lavoro
Rappresenta la capacità di tenere a mente e manipolare le informazioni rilevanti
per un periodo di tempo limitato, strettamente necessario allo svolgimento e al
completamento di un compito (Huizinga et al., 2006). Lo studio della working
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memory tramite le tecniche di Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) ha mostrato
che, durante alcuni compiti specifici di memoria visuo-spaziale, molte aree cerebrali
attivate nei bambini e negli adulti sono molto simili (Thomas et al., 1999; Klingberg
et al., 2002). Tuttavia, sono presenti anche delle attivazioni in altre zone della
corteccia prefrontale, più nei bambini che negli adulti, rivelando un pattern di
attività molto più diffuso. Questo potrebbe suggerire l’esistenza di
un’organizzazione corticale non ancora completamente matura, in cui il cosiddetto
processo di ―pruning‖ sinaptico, legato alle connessioni cerebrali meno funzionali,
non si è ancora del tutto stabilizzato (Casey et al., 1995). Altri studi, inoltre
evidenziano un’attivazione non solo delle aree prefrontali, ma anche di altre aree
cerebrali, come la corteccia parietale (Thomas et al., 1999; Klingberg et al., 2002):
ciò suggerisce che l’attività della working memory, applicata a compiti di memoria
visuo-spaziale, non dipende soltanto dalle computazioni esercitate localmente solo
in specifiche regioni, ma è il risultato di un’azione complementare fra di esse
(Klingberg et al., 2002) e che l’uso adeguato della working memory necessita
dell’interazione tra la corteccia prefrontale e altre aree corticali e sottocorticali,
come l’area parieto-temporale, il talamo e i gangli della base (Luciana e Nelson,
1998).
Uno dei modelli più noti in merito alla descrizione della working memory è quello
proposto da Baddeley e Hitch nel 1974, in cui gli autori propongono un sistema
composto da tre componenti fondamentali: il taccuino visuo-spaziale, una sorta di
magazzino che si occupa della codifica e della manipolazione delle informazioni a
livello percettivo e visuo-spaziale; il loop articolatorio, che si compone di un
magazzino vero e proprio in cui l’informazione è trattenuta sotto forma di codici
fonologici e di un meccanismo di reiterazione dell'informazione, contenuta nel
magazzino fonologico (il loop articolatorio, appunto); infine l’esecutivo centrale,
molto simile al Sistema Attenzionale Supervisore di Shallice (1990) che si occupa,
tra le altre cose, di dirigere l’attenzione verso le informazioni rilevanti, sopprimere
gli stimoli interferenti e coordinare i processi cognitivi, specie durante lo
svolgimento di più attività in contemporanea. Recentemente Baddeley (2003) ha
esteso il modello aggiungendovi una quarta componente, il buffer episodico, che ha
il compito di trattenere le rappresentazioni finalizzate ad integrare le informazioni di
tipo fonologico, visivo e spaziale, nonché le possibili informazioni non curate dagli
altri sistemi (ad esempio, di tipo semantico o musicale). Viene, appunto, definito
episodico perché raccoglie tutte queste in formazioni in una rappresentazione
episodica unitaria.
Poiché durante l’esecuzione le informazioni vengono ulteriormente elaborate
rispetto alle caratteristiche dello stimolo originario, il soggetto necessita di
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importanti abilità associate alla working memory, come la capacità di pianificazione
di un obiettivo e i passi successivi necessari al suo raggiungimento, la retrospezione
e la previsione degli eventi, indispensabili per un costante monitoraggio e controllo
del compito finalizzati alla correzione di eventuali errori.
I Disturbi dell’Apprendimento vengono considerati come disordini di carattere
funzionale, a carico dei processi coordinativi ed organizzativi delle Funzioni
Esecutive. Diverse ricerche hanno studiato l’efficienza della memoria di lavoro in
bambini con difficoltà di lettura e molti di questi studi hanno rilevato nei bambini
dislessici dei deficit a carico delle diverse componenti della memoria di lavoro (De
Jong, 1998; Swanson, 1999; Swanson e Ashbaker, 2000; Howes et al., 2003).
1.3.2. Attenzione
Se consideriamo l'attività cognitiva come l'elaborazione da parte dell'uomo delle
informazioni provenienti dall'ambiente esterno, l'attenzione può essere descritta
come la funzione che regola questa attività cognitiva e che, attraverso il filtro e
l'organizzazione delle informazioni ricevute, permette al soggetto di emettere
risposte adeguate (Ladavas e Berti, 1999).
Il modello di Robertson (1999) identifica diversi tipi di attenzione: l’attenzione
selettiva si occupa di selezionare gli stimoli importanti e inibire quelli irrilevanti;
l’attenzione sostenuta consente di mantenere e modulare lo sforzo cognitivo per un
periodo prolungato, utile per portare a termine un’attività; infine il controllo
esecutivo consente di spostare rapidamente l’attenzione verso la fonte di
informazione più importante e di coordinare l’esecuzione di più compiti svolti in
parallelo.
Alcuni studi (Douglas e Peters, 1979; Douglas, 1984) hanno evidenziato nei
bambini con ADHD, alcune carenze a carico del meccanismo di attenzione
sostenuta, di controllo inibitorio e la difficoltà a prestare attenzione a più stimoli
contemporaneamente, risultati confermati anche da altri autori (Barkley et al.,
1990). Ulteriori studi hanno identificato anche un coinvolgimento dell’area
dell’attenzione selettiva di tipo visivo e uditivo (Pearson et al., 1991; Barkley,
2006), associando la facile distraibilità, tipica dell’ADHD, al tentativo di ricerca di
altri stimoli esterni, seppur non pertinenti al contesto.
1.3.3. Pianificazione
È una componente di fondamentale importanza nei comportamenti orientati ad
uno scopo e consiste nell’abilità di formulare un piano d’azione in funzione di un
obiettivo in modo organizzato, strategico ed efficiente (Anderson, 2002). I test
maggiormente utilizzati nella valutazione delle strategie di pianificazione sono il
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gioco della Torre di Hanoi e della Torre di Londra, molto simili fra loro, in cui i
soggetti partecipanti devono spostare dei dischetti o delle palline da un’asticella
all’altra, secondo un ordine preciso. Il soggetto deve tenere a mente la struttura
dell’obiettivo al fine di creare una strategia (ad esempio, una sequenza particolare
di mosse) e valutarne i progressi dopo ogni mossa. La difficoltà del compito viene
manipolata tramite l’aumento delle mosse richieste per raggiungere la soluzione,
che generalmente varia da 2 a 5 mosse, oppure in base all’aumento del numero di
palline o dischetti utilizzati, di solito 3 o 4 (Best et al., 2009). L’abilità di
pianificazione sembra seguire una traiettoria di sviluppo di tipo evolutivo, poiché le
performance migliorano e raggiungono un livello piuttosto avanzato verso la tarda
infanzia e spesso anche in adolescenza (Anderson et al., 2001b; Asato et al.,
2006). Purtroppo si conosce ancora poco sui cambiamenti cerebrali riguardo lo
sviluppo delle abilità di pianificazione: in uno studio del 2007, utilizzando il
paradigma della Torre di Londra applicato ad un gruppo di adolescenti, Luciana e
collaboratori hanno osservato un incremento nell’organizzazione della sostanza
bianca in alcune regioni cerebrali attivate durante questo tipo di compito.
Una ricerca condotta da Bramham e collaboratori ha indagato alcuni aspetti
legati alle Funzioni Esecutive (pianificazione delle strategie, attivazione della
risposta, inibizione dei comportamenti irrilevanti e flessibilità cognitiva) in due
gruppi di soggetti adulti con ADHD e Autismo, appaiati ad un gruppo di controllo di
31 soggetti sani. I risultati hanno portato alla conferma di molti altri lavori
precedenti, indicando come i soggetti con ADHD, a causa di una maggiore difficoltà
a subordinare i propri comportamenti ad un piano d’azione efficace, tendano ad
agire senza inibire l’azione impulsiva anziché a favore della formulazione di una
strategia e suggeriscono anche come i deficit a carico delle Funzioni Esecutive
seguano una traiettoria abbastanza definita fino all’età adulta (Bramham et al.,
2009).
1.3.4. Inibizione
Rappresenta la capacità di frenare il proprio comportamento al fine di permettere
la prosecuzione dell’attività in corso. L’inibizione non è un processo unitario:
secondo alcuni autori, infatti, il controllo inibitorio sarebbe frutto di una sorta di
doppia dissociazione, tra inibizione legata all’attenzione e inibizione legata
all’azione. Il primo tipo si riferisce sia all’attenzione selettiva, cercando di evitare gli
stimoli interferenti, sia allo spostamento da un focus ad un altro di attenzione, nei
casi in cui sia possibile orientarsi su una dimensione, piuttosto che su un’altra;
pertanto l’inibizione legata all’azione determina la capacità di sopprimere la
prepotenza di risposta proveniente da entrambe le dimensioni. L’inibizione legata
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all’attenzione troverebbe il suo correlato neurale nella corteccia prefrontale
anteriore dorsolaterale e ventrolaterale, mentre quella legata all’azione verrebbe
riscontrata nelle aree posteriori della corteccia prefrontale dorsolaterale e nell’area
immediatamente posteriore alla corteccia premotoria (Diamond, 2002).
Secondo il modello di Barkley (1997) si divide in tre componenti: la risposta
predominante o inibizione della risposta impulsiva; la risposta in corso, ossia
l’interruzione di una risposta in uscita quando non è più appropriata per un
cambiamento improvviso del compito (dovuta ad un’adeguata sensibilità all’errore);
infine il controllo dell’interferenza, cioè la capacità di resistenza alla distrazione,
isolando in modo sostenuto la risposta da un disturbo interferente. Questa
componente sarebbe, secondo Barkley, una delle cause fondamentali sottostanti
l’ADHD, associato alla difficoltà dei bambini affetti dal disturbo di fornire risposte
controllate (appunto, inibite), in relazione al contesto di applicazione.
In merito all’associazione tra Funzioni Esecutive e Disturbi dell’Apprendimento,
Van deer Schoot e collaboratori (2002) hanno verificato l’ipotesi che un deficit delle
funzioni inibitorie potesse essere individuato in soggetti con dislessia di tipo
―guessers‖ (che leggono cioè velocemente, ma compiendo molti errori): potremmo
definire tale tipologia di dislessici come associata a coloro che utilizzano come
strategia di lettura prevalente una sorta di accesso approssimato al lessico visivo,
quindi si tratterebbe di dislessici visivi (Sartori, 1984) e questo problema può
essere attribuito a disfunzioni delle aree fronto-centrali. La ricerca è stata condotta
su tre gruppi di soggetti (dislessici ―fonologici‖, con prestazioni di lettura
caratterizzate da lentezza, ma anche da accuratezza; dislessici ―visivi‖, con
prestazioni differenti nella lettura rispetto al precedente gruppo e cioè veloci ma
inaccurati e lettori normali) con la metodologia della registrazione dei potenziali
evocati cognitivi. I risultati mostrano come i dislessici ―guessers‖ non riescano ad
inibire la ―P300‖ (una caratteristica polarizzazione dell’attività elettrica del cervello
prima della risposta) nelle strutture fronto-centrali del cervello (Trevisi et al.,
2006).
1.3.5. Flessibilità cognitiva
Rappresenta la capacità di muoversi abilmente all’interno di stati mentali,
operazioni o compiti generalmente definiti con il termine di shifting (Miyake et al.,
2000), come nel caso, ad esempio, del Wisconsin Card Sorting Test (WCST), in cui
viene chiesto ai soggetti di classificare delle carte secondo una certa dimensione
(ad esempio, la forma), ricevendo un feedback. Ad un certo punto del gioco,
all’insaputa del soggetto, l’esaminatore cambia le regole del gioco e quindi anche la
dimensione da ordinare (ad esempio, per colore), che il soggetto deve inferire dopo
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un feedback negativo (Best et. al, 2009). Per una performance soddisfacente è
necessario combinare diverse abilità, come l’inibizione delle risposte
precedentemente attivate con il vecchio set di regole, mentre una carenza di
flessibilità cognitiva si manifesta attraverso il susseguirsi di errori perseverativi (nel
caso del WCST l’applicazione del set precedente di regole, Anderson, 2002).
Il livello di flessibilità cognitiva nell’applicazione di regole sempre più numerose e
complesse aumenta con l’età, generalmente fino all’adolescenza (Anderson, 2002;
Huizinga et al., 2006; Somsen, 2007). Sebbene già in bambini di 3-4 anni l’abilità
di shifting permetta loro di applicare un set composto da un paio di regole
facilmente deducibili (Hughes, 1998), verso i 5-6 anni avviene un ulteriore
miglioramento, osservato in uno studio in cui i soggetti dovevano completare un
compito ben più complesso. In questo caso l’evoluzione non sta solo nell’incremento
della flessibilità cognitiva in sé, ma soprattutto nell’abilità di applicare un set di
regole ad una situazione nuova e di generalizzarle ad oggetti sconosciuti (Luciana e
Nelson, 1998). L’analisi dell’attività cerebrale mostra un incremento dei valori di
EEG nella regione frontale destra all’età di 8 anni (Bell et al., 2007), mentre le
performance di bambini di 10-17 anni possono essere paragonate a quelle di adulti
di 20-43 anni: l’analisi della correlazione fra i due gruppi in questione (adolescenti e
adulti) indica che vi è un incremento associato all’età dell’attivazione cerebrale delle
regioni frontali e parietali inferiori e del cingolo anteriore (Rubia et al., 2006).
Questi risultati confermano altri lavori precedenti, i quali suggeriscono che
l’incremento dell’abilità di shifting è correlato alla maturazione delle regioni frontali
inferiori e delle aree parietali in età adulta (Smith et al., 2004).
1.4. SUDDIVISIONE NEUROANATOMICA E FUNZIONALE DELLE FUNZIONI
ESECUTIVE
Fino a qualche decennio fa il ruolo dei lobi frontali suscitava scarso interesse:
venivano, infatti, considerati ―aree silenti‖, in quanto eventuali lesioni non
producevano segnali evidenti a livello sensoriale o motorio. Tuttavia un danno alla
corteccia prefrontale può avere pesanti ripercussioni a livello emotivo e
comportamentale: basta pensare al famoso caso di Phineas Gage, un giovane
capocantiere del Vermont che nel 1848 venne trafitto da una grossa sbarra di ferro
che, entrando dalla guancia sinistra, attraversò tutto il lobo frontale e fuoriuscì dalla
parte superiore del cranio. Il ragazzo riuscì miracolosamente a sopravvivere
all’incidente, ma la sua personalità subì un drastico cambiamento, così descritto dal
dottor John Harlow, il medico che si occupò del suo caso: ―Prima dell’incidente era il
capocantiere più efficiente e capace […]. Possedeva una mente equilibrata ed era
assai tenace nell’esecuzione di tutti i suoi progetti […]. Dopo l’incidente divenne