2
concretizzare il suo malessere, traducendolo in qualcosa di definito su cui poter
esercitare un controllo.
L’anoressia è un fenomeno piuttosto complesso, in cui intervengono
molteplici componenti: influenze socio-culturali, che riguardano le
trasformazioni del ruolo della donna in una società che esalta in modo ossessivo
la bellezza e la ricerca della forma fisica; aspetti psicologici individuali, che nel
problematico rapporto col corpo esprimono una complessiva difficoltà di
crescita; dinamiche familiari disturbate, che evidenziano un’incapacità evolutiva
del corpo familiare stesso.
Sebbene il titolo della mia tesi verta su quest’ultimo aspetto, ho ritenuto
opportuno non trascurare gli altri fattori, in quanto la patologia anoressica risulta
dal complesso intrecciarsi di queste molteplici forze.
Pertanto, ho deciso di suddividere la tesi in due parti. Nella prima, che
comprende i primi due capitoli, ho cercato di fornire uno sguardo d’insieme
sull’anoressia mentale, che non può essere compresa estrapolandola dal contesto
socioculturale in cui si manifesta e non tenendo conto del suo grado di
diffusione, dei criteri che sono necessari per diagnosticarla e dei fattori che
possono concorrere al suo sviluppo.
Nella seconda parte invece, che comprende i rimanenti tre capitoli, ho
approfondito il ruolo di uno dei fattori che possono contribuire alla genesi
dell’anoressia: quello dell’ambiente familiare in cui le ragazze anoressiche
crescono e dei problemi che lo caratterizzano.
3
Come ho detto, non è possibile parlare di anoressia senza considerare il contesto
socio-culturale che le fa da sfondo.
Nel Primo Capitolo ho messo in evidenza come tale patologia sia caratteristica
dei paesi occidentali. Gli studi dimostrano infatti che la diffusione dell’anoressia
è direttamente proporzionale al livello di benessere economico raggiunto da una
società. Essa è praticamente inesistente nei paesi del Terzo Mondo, caratterizzati
da povertà e scarsità di beni, mentre ha raggiunto proporzioni endemiche nei
ricchi paesi occidentali., la cui cultura attribuisce un grande valore all’aspetto
fisico e in particolare alla magrezza.
Sono gli adolescenti, con il grande bisogno di approvazione che caratterizza
quest’età, ad essere particolarmente sensibili a questo tipo di messaggi e a
convincersi che la magrezza sia un modo per essere accettati.
L’importanza attribuita alle diete e all’aspetto fisico influenza soprattutto le
ragazze, costantemente esposte ad immagini che propongono modelli di bellezza
femminile sempre più magri.
Ma la ragione per cui il disturbo anoressico colpisce soprattutto le donne è da
ricercare anche nelle contraddizioni culturali che riguardano il loro ruolo
all’interno della società; infatti si chiede ad esse di essere libere, indipendenti e di
successo, ma anche di ricoprire i ruoli tradizionali di moglie e di madre.
Credendo di non avere un sufficiente controllo sulla propria vita, molte donne
possono sentire l’esigenza di esercitare un controllo sul proprio corpo, per
dimostrare agli altri e a se stesse di valere qualcosa.
4
La cornice sociale che ho appena descritto è quindi una condizione necessaria per
lo sviluppo di tale patologia, tuttavia di per sé non è sufficiente; infatti, tutte le
donne del mondo occidentale sono esposte agli stessi messaggi e alle stesse
pressioni sociali e culturali, ma solo una percentuale di esse arriva ad ammalarsi
di anoressia.
Nel Secondo Capitolo, dopo aver tracciato un breve quadro storico ed
epidemiologico della malattia ed aver illustrato quali sono i criteri necessari per
diagnosticarla, parlo di quei fattori che, interagendo con la dieta, possono portare
allo sviluppo della malattia. Si tratta di condizioni culturali, individuali e
familiari che rendono l’individuo particolarmente vulnerabile e insicuro. La
reazione è una concentrazione sul corpo, sul peso e sul cibo come campo
privilegiato nel quale recuperare un sentimento di dominio e di valore.
A questo punto ha inizio la seconda parte della mia tesi, che ha come scopo
quello di approfondire il ruolo giocato dalle dinamiche familiari nello sviluppo
dell’anoressia mentale.
Ho deciso di partire con l’analisi delle primissime interazioni del bambino con
la figura materna. Per questo, nel Terzo Capitolo, ho preso in considerazione gli
studi che Hilde Bruch e Mara Selvini Palazzoli hanno svolto sull’argomento.
Dalle ricerche di queste studiose, emerge che il deficit di autostima e di
autoconsapevolezza che si riscontra nelle ragazze anoressiche deriva da
esperienze interpersonali perturbate avvenute nell’infanzia.
In particolare, il problema sarebbe dovuto all’incapacità da parte della madre
di rispondere in modo corretto ai segnali di bisogno della figlia, che crescerebbe,
per questo motivo, priva di un adeguato concetto di sé.
5
Le due studiose hanno inoltre riscontrato che in tutte le famiglie da loro osservate
si ritrovano delle caratteristiche comuni.
È ciò di cui parlo nel Quarto Capitolo, in cui metto in evidenza come la
presenza di una madre intrusiva e dominante, la mancanza di un valido rapporto
affettivo tra i genitori, la grande importanza attribuita al successo personale e
all’aspetto fisico e l’incapacità di giudicare la figlia come una persona a sé stante
siano aspetti tipici di queste famiglie, in cui la ragazza anoressica non riesce ad
acquisire il giusto senso di autonomia.
Se questo capitolo è piuttosto descrittivo e riporta numerosi racconti tratti
dalla casistica personale di entrambe le ricercatrici, nel Quinto Capitolo affronto
il tema delle dinamiche relazionali e delle loro disfunzionalità in modo più
specifico e dettagliato, facendo particolare riferimento agli studi svolti da Mara
Selvini Palazzoli e da Salvador Minuchin.
Invischiamento, iperprotettività ed evitamento del conflitto sono le modalità
interattive che caratterizzano queste famiglie, ma per riuscire a comprendere
pienamente il loro significato è necessario andare oltre il piano fenologicamente
visibile per analizzare quello più profondo dei miti e dei fantasmi che
rappresentano il cemento emotivo dell’appartenenza familiare.
È quello che mi propongo di fare nel Sesto Capitolo, al termine del quale ho
inserito il caso di una paziente osservata personalmente dal Prof. Luigi Onnis
presso il Sevizio Universitario di Terapia Familiare di Roma.
Alla luce degli argomenti trattati, ho cercato di offrire, nella Conclusione, una
chiave di interpretazione dell’anoressia mentale, mettendo in evidenza come il
sintomo anoressico divenga l’espressione metaforica di un compromesso tra
6
un’esigenza personale di differenziazione e di cambiamento e una necessità di
mantenere il precario equilibrio di un sistema familiare incapace di crescere e di
evolvere.
Da questo punto di vista, l’anoressia non può essere considerata soltanto come
un problema che riguarda la singola paziente, ma come la spia evidente di un
profondo disagio che coinvolge l’intero corpo familiare.
Prima Parte
8
Capitolo Primo
ANORESSIA: IL CONTESTO
SOCIOCULTURALE
1.1 La dimensione simbolica del cibo
L’alimentazione può sembrare una pratica banale della vita quotidiana, infatti
tutti dobbiamo mangiare per sopravvivere. In realtà però, ritenere che il cibo sia
legato soltanto alla necessità di nutrirsi sarebbe alquanto riduttivo. Esso diventa
parte integrante della nostra vita sin dalla nascita, si amalgama alle emozioni, alle
tradizioni, al nostro senso dei valori, entra a far parte dei rapporti sociali ed è
strettamente connesso con le credenze religiose. Per questo, al cibo non può
essere associata soltanto un’importanza biologica.
Alla nascita, il nutrimento è indissolubilmente legato al contatto fisico con la
figura materna e con tutta una serie di emozioni e di sensazioni attivate da questa
esperienza. Winnicot
1
afferma che per il neonato il seno della madre è molto più
che una semplice fonte di cibo; esso infatti non soddisfa solo il suo bisogno di
essere nutrito, ma anche quello di essere accudito ed accarezzato.
1
Winnicot D. W. (1968), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma, 1970
9
Dal momento della nascita in poi, attraverso l’infanzia e per tutta l’età adulta,
l’individuo, nell’atto del mangiare, non nutrirà soltanto il proprio corpo, ma
anche il proprio Sé, perché il cibo sarà connesso di volta in volta a sentimenti di
appagamento e di sicurezza, oppure di frustrazione e di colpa, di accettazione e di
condivisione ecc.
Ogni volta che mangiamo, investiamo l’alimento di un significato che
risponde a codici affettivi, relazionali e sociali. Come sostiene la sociologa
Deborah Lupton, attraverso l’atto del mangiare noi non incorporiamo soltanto
sostanze nutritive, ma “assimiliamo il mondo.”
2
Infatti, fin dal primo giorno di vita mangiamo secondo delle regole e dei
codici, quindi ci è impossibile prescindere dalla cultura che fa parte integrante di
noi. È per questo che il cibo è fortemente correlato alla soggettività.
In ogni società, le pratiche alimentari assumono precisi significati culturali. Il
cibo segna i confini tra le classi sociali, tra le regioni geografiche, segna i
cambiamenti di stagione, le feste, i riti di passaggio.
Attraverso la spartizione di uno stesso cibo si celebrano alleanze e si
perpetuano riti.
Molte delle nostre relazioni sociali si realizzano intorno ad una tavola, da
quelle più intime e familiari a quelle più formali ed ufficiali.
Il solo fatto di classificare una sostanza come “commestibile,” sottintende che
essa è stata accettata prima dalla comunità e poi dall’individuo.
2
Lupton D. (1996), L’anima nel piatto, Il Mulino, Bologna, 1999
Deborah Lupton insegna Sociologia dei processi culturali nell’Università di Bathrust (Gran
Bretagna)
10
Dunque, partecipare ad una stessa mensa significa sentirsi parte di un gruppo e
rapportarsi ad esso attraverso un linguaggio comune. Condividere il pane, infatti,
significa essere compagni (dal latino cum-panis). Dare e ricevere cibo, mangiare
insieme, significano accettazione e riconoscimento reciproci e stabiliscono
legami che si tessono e si riaffermano ogni volta.
Se l’alimentazione è densa di simboli e di significati sociali e culturali, non lo
è di meno l’astensione da essa. La privazione totale o parziale di cibo riveste
significati diversi in base al contesto e alle motivazioni.
I gusti e le preferenze personali, per cui alcuni cibi vengono soggettivamente
scartati o preferiti ad altri, sono anch’essi legati al progetto di costruzione
personale, in quanto sono dimostrazione, per se stessi e per gli altri, di aspetti
della propria soggettività.
Esistono poi delle situazioni in cui il cibo viene considerato un vero e proprio
tabù. Ad esempio, molte religioni impongono ai fedeli dei periodi di digiuno
(pensiamo al Ramadan), oppure delle restrizioni alimentari, attraverso
l’elaborazione di un complesso sistema dietetico basato sulla distinzione tra cibi
“permessi” e cibi “vietati.”
Vediamo come il cibo sia in grado di svolgere un ruolo essenziale nel
mantenere l’identità etico-religiosa di un popolo, perché ha una capacità
straordinaria nel definire le barriere tra “noi” e “gli altri.”
3
3
Bourdieu P. (1983), La distinzione, critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 1987
11
E ancora, coloro che si dichiarano vegetariani, hanno scelto di includere nella
loro alimentazione solo cibi di origine vegetale, per non mangiare la carne di altri
esseri viventi.
In altri casi però, l’astensione volontaria dal cibo non è frutto di prescrizioni
etiche o religiose, ma rappresenta l’espressione di un disagio.
Ad esempio, lo sciopero della fame è una manifestazione di profondo
disappunto che si concretizza nel rifiuto del cibo fino alle estreme conseguenze e
in cui il corpo diventa uno strumento di protesta e di rivendicazione.
Si tratta spesso di un atto estremo con cui si cerca di ottenere qualcosa
attirando l’attenzione sulla propria condizione di disperazione e di abnegazione
nei confronti di una certa causa in cui si crede fermamente.
Il fatto che il digiuno possa rappresentare un mezzo di pressione efficace
dimostra che mangiare non è un’azione banale che riguarda la vita privata, ma un
atto sociale, attraverso cui possiamo riconoscere o negare l’altro.
12
1.2 Rifiutare il cibo per accettare se stessi
Se mangiare significa impegnarsi in un rapporto, il rifiuto del cibo diventa un
atto di rottura. Possiamo quindi immaginare quanto siano significative quelle
gravi pratiche di rifiuto o scempio del cibo che caratterizzano una patologia
tipica dei nostri giorni: l’anoressia.
Questa rappresenta un disturbo del comportamento alimentare
4
in crescente
espansione nel mondo occidentale, soprattutto tra gli adolescenti.
Essa ruota attorno alle problematiche legate all’aspetto fisico e al controllo del
corpo, ed è una patologia per cui una persona, di solito una donna, si concentra
ossessivamente sul raggiungimento della magrezza, arrivando persino a rifiutarsi
di mangiare, nella paura che un piccolo boccone di cibo possa trasformarsi subito
in grasso corporeo.
Tale disturbo esprime una sofferenza che va al di là del puro problema
nutrizionale e che coinvolge la sfera psicologica e relazionale dell’individuo.
L’anoressia rappresenta dunque non solo una patologia, ma anche una metafora
di cui vanno ricostruiti i significati.
4
“Disturbi del comportamento alimentare” (DCA) è la traduzione attualmente accettata dalla
comunità scientifica italiana del termine inglese eating desorders. Anoressia Nervosa, Bulimia
Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata sono i quadri principali, anche se è presente
un’ampia categoria di disturbi alimentari atipici. Tra queste, l’Anoressia rappresenta
indubbiamente la patologia più grave.
(Fonte: Associazione PR.A.TO. – Prevenzione Anoressia Torino)
13
Infatti, arrivare al rifiuto del cibo implica, da parte del soggetto, un’incapacità
più o meno consapevole di accettare o di gestire parte della realtà in cui si trova a
vivere e di cui il cibo rappresenta uno dei sistemi di comunicazione più
importanti.
Anche il corpo affetto da un disturbo dell’alimentazione, come tutti i corpi, è
impegnato in un processo di produzione di senso atto a parlare di sé in modo
efficace e significativo e ad esprimere i valori che il soggetto desidera incarnare.
A questo proposito, Richard Gordon
5
afferma che le persone anoressiche
tendono a giudicare il proprio valore personale principalmente in relazione
all’aspetto fisico, concentrandosi sulla ricerca ossessiva della magrezza, obiettivo
che diventa per loro più importante di qualsiasi altra cosa.
Esse pongono al centro dei loro interessi il corpo, imponendosi una dura
disciplina per modificarlo secondo i propri desideri. Digiuni, diete, esercizi fisici
estenuanti sono frequenti nella loro vita quotidiana.
Il corpo ideale, per i soggetti anoressici, è un corpo privo della più piccola
quantità di grasso; un corpo etereo, filiforme, frutto del loro impegno e dei loro
sforzi, che possa soddisfare il loro bisogno di perfezione e di autonomia e
testimoni a tutti la loro straordinaria forza di volontà.
La forma più tipica di anoressia è caratterizzata da un’inedia autoindotta, che
si basa sul rifiuto di mangiare una quantità sufficiente di cibo. Ci sono poi delle
forme di anoressia che sfociano nella bulimia, in quanto le ragazze mangiano, ma
5
Gordon R. (1990), Anoressia e bulimia. Anatomia di un’epidemia sociale, Raffaello Cortina,
Milano, 2004
2
Richard Gordon insegna Psicologia al Bard College di New York. Ha maturato un’esperienza
clinica ventennale con pazienti anoressiche e bulimiche ed ha pubblicato diversi saggi sui
disturbi del comportamento alimentare.
14
poi ricorrono a delle pratiche di eliminazione del cibo come il vomito autoindotto
o l’uso di lassativi, affinché esso non venga assimilato dall’organismo.
Spesso le anoressiche negano di avere un problema, affermando di essere in
forma, di sentirsi benissimo, di non avvertire né fame, né stanchezza. Il loro
progressivo dimagrimento non desta in esse nessuna preoccupazione, anzi
diventa addirittura fonte di soddisfazione. Queste ragazze sono orgogliose della
propria capacità di autodisciplina, che permette loro di resistere alle tentazioni
del cibo e quindi di restare magre.
Il non mangiare diviene un comportamento teso alla loro realizzazione personale.
Esse desiderano apparire al mondo esterno come piene di energia e di resistenza,
ma questo stile di vita, così rigidamente controllato e ostinato, non procura loro
un reale appagamento, né provoca sicurezza di sé. Infatti, sebbene la loro
magrezza sia vissuta come un successo, esse hanno un’immagine negativa di se
stesse e tendono a considerarsi delle persone incapaci e non in grado di prendere
delle decisioni in modo autonomo per ciò che riguarda la loro vita, eccetto per il
discorso del cibo, che controllano alla perfezione.
6
Si tratta di persone particolarmente insicure, che cercano, nel raggiungimento
di una forma fisica ideale, un modo per accrescere la loro autostima e per essere
maggiormente accettate dagli altri, oltre che da se stesse.
6
Lawrence M.: ‘Anorexia Nervosa: the control paradox’. In Woman’s Studies International
Quarterly, 2, pp. 93-101
15
Secondo il medico e psicoterapeuta Riccardo Dalle Grave
7
, questa valutazione
negativa di sé, che generalmente precede l’esordio della malattia, sembra essere
il fattore che induce l’individuo a concentrarsi sul peso e sulla forma del corpo
nel tentativo di raggiungere un aspetto fisico ideale che possa farlo sentire più
sicuro e più apprezzato.
Hilde Bruch, una delle studiose più importanti riguardo a questa patologia
afferma che «i soggetti anoressici soffrono di una profonda insoddisfazione nei
confronti di se stessi e della loro vita e trasferiscono tale insoddisfazione sul
proprio corpo. Tutti i loro sforzi per raggiungere la magrezza sono diretti a
mantenere nascosto il loro senso di inadeguatezza.»
8
Del resto, nella nostra cultura, dominata dal culto della magrezza, è facile
pensare che una persona con uno scarso concetto di sé possa scegliere di
intraprendere una dieta come mezzo per aumentare la propria autostima e il
proprio valore. In questo modo, il cibo può diventare qualcosa da controllare, se
non addirittura da evitare.
7
Riccardo Dalle Grave è specialista in Endocrinologia e Scienza dell’Alimentazione. E’
direttore scientifico dell’AIDAP (Associazione Italiana Disturbi dell’Alimentazione e del Peso)
e membro di numerose società scientifiche, tra cui Academy of Eating Disorders, World
Psychiatric Association, Eating Disorders Research Society.
8
Bruch Hilde, Anoressia. Casi clinici, Milano, Raffaello Cortina, 1988, p.2
La Bruch è una psichiatra tedesca emigrata negli Stati Uniti nel 1940. Ha cominciato ad
interessarsi dei disturbi del comportamento alimentare, in particolare dell’anoressia e
dell’obesità, già a partire da questo periodo. Il suo primo libro sull’argomento, uscito negli anni
Settanta, è stato scritto dopo un’esperienza di ben trent’anni nel campo di tali patologie. E’ stata
medico e professore di psichiatria al Baylor College of Medicine di Houston, Texas. Ancora
oggi, la Bruch è considerata una delle più importanti studiose nella comprensione e nel
trattamento dei disturbi del comportamento alimentare.