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la sinestesia
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(dal greco syn: insieme, e aisthainesthai: percepire). Il
concetto di ampio impiego letterario di sinestesia quale specifica forma di
metafora implicante l’associazione di termini riconducibili a sfere
sensoriali eterogenee, è sistematicamente rintracciabile in ambito
cinematografico, ove il processo di percezione contemporanea di linguaggi
differenti scaturisce dall’effettiva e simultanea compresenza di segni
appartenenti a sfere diverse della comunicazione. Contrariamente alla
letteratura (ad esempio il montaliano fredde luci/ parlano
2
, ove la triplice
sinestesia correlante tatto, vista e udito, è ottenuta ricorrendo ad elementi
circoscritti unicamente al linguaggio verbale), la rappresentazione
cinematografica si edifica su di un codice composito, articolato, che
esclude l’omogeneità dei segni in virtù di un uso combinato di artifici
tecnici e formali facenti capo a sistemi comunicativi non analoghi: visivo e
sonoro
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. Ad eccezione dunque della fase embrionale- sperimentale della
produzione cinematografica, marcata dall’essenza del corredo audio, la
fruizione di un’opera filmica si snoda attraverso una specifica disposizione
percettiva ancorata al connubio tra vista e udito, sistemi sensoriali che in
tali circostanze non operano autonomamente, bensì concorrono, praticando
reciproca influenza, alla definizione di una percezione unica e totalizzante
del prodotto filmico. Michel Chion introduce a tale proposito la nozione di
audiovisione
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, tramite la quale l’audio-spettatore si appropria dell’oggetto
cinematografico assimilandolo in maniera onnicomprensiva, lasciando che
suono e immagine confluiscano in un unicum indistinto, ove l’uno non
costituisce mero elemento aggiuntivo e subordinato all’altra, bensì una
componente altrettanto determinante. Semanticamente analoga è la forma
1
Per la nozione di sinestesia cfr. A. Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Mondatori, Milano,
1978
2
E. Montale, Riviere, Ossi di seppia (Torino 1925), a cura di P. Cataldi e F. D’Amely, Oscar Mondatori,
Milano, 2003
3
S. Miceli, Musica e Cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano, 2000 (pag.7-8)
4
M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, trad. it., Lindau, Torino, 2001 (pag.7)
5
dell’ oeil écoute
5
che il poeta Paul Cloudel forgia per definire la condizione
“in ascolto” dello sguardo: l’immagine seppure paradossale dell’occhio che
ascolta incarna infatti vividamente quella multisensorialità costitutiva dell’
esperienza estetica propria del cinema quale medium votato all’impiego di
una pluralità di registri. Circoscrivendo quindi l’analisi al cosiddetto film
sonoro narrativo
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,il quale accompagna le immagini in movimento ad una
colonna audio rendendole entrambi co- fautrici del racconto, appare perciò
lampante come l’interazione osmotica fra l’impalcatura del suono e la
dimensione prettamente visiva dell’opera sia fondante della stessa
rappresentazione cinematografica dell’azione, e come essa risulti conditio
sine qua non dell’evoluzione narrativa della vicenda e dell’attribuzione ad
essa di senso. In questi anni viene ripreso un concetto già consolidato da
lunghi anni di esperienza nella musica sinfonica e classica, e cioè quello del
leitmotiv: il “tema”, il “motivo conduttore” che grandi come Berlioz o
Weber avevano sperimentato nella Sinfonia Fantastica e ne Il Franco
Cacciatore, e che Wagner sviluppò e tradusse in tutte le sue opere
facendone quasi una “Filosofia di composizione”. Il termine fu utilizzato in
primis da F.W.Jahns nella prefazione al catalogo tematico delle opere di
Weber (1871) proprio per indicare un breve motivo melodico, armonico o
ritmico, fortemente tipico e avente funzione caratterizzante. Impiegati in
opere e drammi musicali i Leitmotiv contraddistinguono attraverso
successive riapparizioni i singoli personaggi, determinate situazioni, idee,
sentimenti, oggetti e così via. Il Leitmotiv, che può essere affidato sia ai
singoli strumenti, sia alle voci, può subire nel corso dell’opera notevoli
trasfigurazioni ritmiche, armoniche, timbriche e di tempo, e può dar luogo
a vasti sviluppi, secondo le esigenze drammatiche e musicali. Quindi si
prospettava davanti agli occhi del compositore di musiche per cinema una
5
M. Di Donato, L’occhio che ascolta. Studi sui rapporti suono-immagine nella forma cinematografica,
Lithos, Roma, 2004 (pag.7)
6
V. Ramaglia, Il suono e l’immagine. Musica, voce, rumore e silenzio nel film, Dino Audino Editore,
Roma, 2004 (pag.5)
6
grande opportunità compositiva, data da una singola idea musicale da
riproporre quasi in maniera ossessiva e distorta ogni qualvolta un
personaggio faceva ingresso sulla scena, come “la colonna sonora della sua
vita”. Oggi in molti utilizzano questo sistema compositivo, risparmiando in
tempo e fatica e soprattutto alleggerendo di molto la corazza stilistica della
musica, rendendola riconoscibile ad un pubblico che grazie ad essa quasi
presagisce cosa sta per accadere sulla scena o quale sarà il personaggio a
fare ingresso. In poche parole si scrive una musica che “parla al pubblico”.
Anche se le funzioni della musica in un racconto filmico possono essere
molteplici e variegate, ad esempio alle volte essa si propone come
anticipatrice, talvolta profetica rispetto agli eventi che si susseguono sullo
schermo, o svolge una funzione d’accompagnamento, o facilita la sintesi, la
connessione, il raccordo, o addirittura arriva quasi all’ammonizione.
Scriveva Pasolini: “ Il cinema è piatto, e la profondità in cui si perde, per
esempio una strada verso l’orizzonte, è illusoria. Più poetico è il film, più
quest’illusione è perfetta. La sua poesia consiste nel dare allo spettatore
l’illusione di essere dentro le cose, in una profondità reale e non piatta (cioè
illustrativa). La fonte musicale – che non è individuabile sullo schermo –
nasce da un “altrove” fisico per sua natura “profondo”, sfonda le immagini
piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità
confuse e senza confini della vita”
7
.Senza dubbio la musica presente nella
colonna sonora delle opere cinematografiche agisce in modo assai
significativo a livello emozionale, stimolando una fruizione del film spesso
più intensa perché maggiormente caratterizzata da una pre-riflessività, da
parte dello spettatore, che gli consente una partecipazione più coinvolgente,
talora quasi totale. La musica è davvero una componente di insostituibile
valore per la qualità estetica delle opere di cinema, ma anche per la
costruzione del senso delle vicende filmiche. Non tutti però sono d’accordo
7
A. Bestini , Teoria e tecnica del film in Pasolini, Bulzoni, Roma, 1979
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con l’idea che la musica abbia una fondamentale importanza nella buona
riuscita di un prodotto cinematografico, anzi, alcuni ritengono anche che se
ne potrebbe fare a meno o addirittura non la considerano nemmeno
glissando l’argomento musica con una velata indifferenza, come ad
esempio fece un grande come Andrè Bazin. Egli nella sua opera critica Che
cosa è il cinema? ha sempre evitato o trascurato il fondamentale rapporto
che la musica ha col cinema, quando ad esempio parla di film come Quarto
Potere (Cityzen Kane, Orson Welles, 1941), o Ladri di biciclette (id., De
Sica, 1948), senza citare nemmeno l’apporto di Hermann e Cicognini, che
così tanto hanno contribuito alla riuscita di quei capolavori. Tuttavia
l’interesse per la musica da film è andato nel frattempo aumentando, in una
specie di rivalsa di quell’aspetto narrativo ed espressivo della forma
cinematografica - il “soundtrack” - negletto per tanto tempo, a favore di
quella che è stata giustamente chiamata la “dittatura dell’immagine”.
Abbastanza frequenti sono inoltre le manifestazioni che si susseguono qua
e là al precipuo scopo di indagare, sotto vari aspetti, a natura del rapporto
fra suono e immagine.
Ed è proprio questo quello che è l’intento principale di questa tesi, e cioè
sondare il rapporto che intercorre tra suono e immagine, quale filo sottile e
quali trame nascoste collegano i due aspetti caratterizzanti del film, e
soprattutto in particolare, come avviene tale fenomeno tra i film di Tim
Burton, contemporaneo regista americano, e le musiche del suo
compositore e amico Danny Elfman.
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Capitolo 1
Tim Burton, il regista “visionario”.
Tim Burton è nato a Burbank, in California, primo di due figli di Bill e Jean
Burton. Durante la sua infanzia l’immaginazione rappresenta la sua unica
via di fuga dalle difficoltà a casa e a scuola, stimolata soprattutto dai film
horror e da quelli a basso budget (cosiddetti di serie B) che amava guardare
e ai quali renderà omaggio più tardi nel suo film Ed Wood (biografia del
regista Edward D. Wood Jr. interpretato da Johnny Depp, id., Tim Burton,
1994), tributo a quello che alcuni giudicarono il peggior regista del mondo.
Un'altra figura cinematografica importante nell’infanzia del regista è
Vincent Price, la cui filmografia influenzerà profondamente la futura
carriera di regista. Dopo il liceo vince una borsa di studio della Disney per
studiare al California Institute of the Arts a Valencia, in California. Qui si
appassiona all'animazione, iniziando a studiare la character animation.
Alla Cal Arts incontra il futuro compagno di lavoro Henry Selick, colui che
Burton sceglierà per la regia di Nightmare Before Christmas (Tim Burton’s
Nightmare Before Christmas, Henry Selick, 1993), e con il quale dà vita da
subito ad una grande amicizia e ad un sodalizio lavorativo dalle grandi
prospettive. Dopo tre anni di studi viene assunto dai Walt Disney Studios
come apprendista animatore. Il primo film cui lavora è l'adattamento
animato de Il Signore degli Anelli (Lord of Rings,di Ralph Bakshi), del
quale, però, non v’è menzione nei titoli di coda. Successivamente Burton
lavora al reparto disegnatori per il lungometraggio d'animazione Red e
Toby nemiciamici (The Fox and the Hound, Stevens, Barman, Rich, 1981),
che tuttavia non rispecchiava assolutamente le sue aspirazioni e le sue
aspettative. I suoi disegni e le sue proposte non vengono accettate dalla
Disney, poiché, secondo quanto affermato più tardi dallo stesso Burton,