ξ nel terzo ed ultimo capitolo, si esamina nel dettaglio la strategia di
penetrazione cinese nelle aree-chiave del continente nero, il caso
emblematico trattato sarà quello del Sudan.
Per spiegare il diverso approccio della Cina al modello di cooperazione allo
sviluppo dell’Africa, si tiene conto del nuovo scenario prodotto dalla
globalizzazione che, con la dilatazione dei rapporti economici, culturali, sociali e
politici creati dalla “rivoluzione scientifico-tecnologica” attraverso Internet, ha
eliminato, in molti casi, vincoli geografici e temporali tra le organizzazioni
sociali incentrate sullo Stato nazionale, favorendo, da un lato, l’integrazione delle
transazioni di beni, servizi, capitali, forza lavoro e materie prime; dall’altro,
l’interdipendenza sistemica tra entità ed ambiti sopranazionali immerse nel
“villaggio globale”.
In particolare, si osserva come la Cina ha risposto alle nuove sfide della
globalizzazione, facendosi nel contempo promotrice dello sviluppo e
dell’integrazione del continente africano nell’economia globale. Infatti, la
cooperazione tra Cina e Africa verrà inquadrata come un’evoluzione prodotta dal
contesto globale, in quanto rispetto al tradizionale modello di cooperazione tra
Nord e Sud, ovvero tra Occidente industrializzato e Paesi considerati “bisognosi
d’aiuto”, offre un modello paritario tra nazioni del Sud del mondo.
Si evidenzia come la nazione asiatica sia una delle maggiori beneficiarie
dell’aiuto pubblico allo sviluppo, in quanto Stato tra i più popolosi ed estesi del
mondo. Si spiega quindi, come per Pechino, rispetto ad altre nazioni beneficiarie,
come alcuni Paesi africani (caratterizzati da bassissimi livelli di reddito pro
capite e di formazione delle risorse umane oltre che da una grande debolezza
strutturale), le prospettive di sviluppo non si fermano solo ed esclusivamente alla
possibilità di ricevere aiuti internazionali. Attualmente la cooperazione della
Cina, e in generale di tutto il continente asiatico verso i Paesi africani, è anzi
caratterizzata da una fortissima espansione del proprio mercato all’esterno e dalla
ricerca di nuove risorse, soprattutto energetiche.
2
Lo studio, evidenzia, appunto, come l’approvvigionamento di risorse
energetiche sia uno dei punti chiave per capire la penetrazione economica cinese
in Africa ed in altre aree del mondo considerate ancora Paesi terzi, che rientrano
nella categoria del Sud del mondo.
Inoltre, si spiega come la Cina riesca a fare incetta di commesse nelle gare
internazionali, attraverso i prestiti accordati dalla Banca Africana di Sviluppo,
dalla Banca Mondiale o dalla ExIm Bank cinese, e un approccio economico di
lungo periodo con l’Africa, che le permette di fare offerte a costi stracciati,
rispetto ai concorrenti europei.
Dallo studio del caso specifico trattato, il Sudan, emerge che la strategia di
cooperazione allo sviluppo cinese punta a rafforzare i legami diplomatici tra i
Paesi cooperanti, attraverso gli accordi politici ed economici che riesce a
stipulare con i singoli governi.
Tra i principali esportatori di idrocarburi in Cina, il Sudan, risulta essere anche il
primo beneficiario della crescita esponenziale dei rapporti commerciali Africa -
Cina e, soprattutto, il principale destinatario degli investimenti esteri cinesi.
Nel caso del Sudan, le diverse novità tattiche sperimentate con successo da
Pechino sono servite da banco di prova per essere riproposte in buona parte delle
relazioni con altri Stati africani. Come, ad esempio, la garanzia fornita a diversi
governi di regioni africane di ricevere, in cambio del petrolio, dei benefits, i
quali, oltre a favorire la conclusione di accordi nel settore energetico,
rappresentano spesso occasioni irripetibili di uscita dalla povertà per questi Paesi.
L’esempio sudanese mostra i principi guida che, sin dalla nascita della
Repubblica popolare cinese nel 1949, muovono le relazioni della Cina verso
l'Africa.
In particolare, sul principio base di una cooperazione amichevole e senza
condizioni viene improntato tutto il rapporto d’inconfutabile solidarietà che la
Cina dimostra nei confronti dell’Africa, attraverso l’azzeramento di miliardi di
3
dollari di debiti contratti dai Paesi africani e l’annullamento dei dazi su
numerosi prodotti d’importazione africana.
Il lato negativo che tuttavia emerge dalle novità dell’approccio cinese alla
cooperazione riguarda l’incompletezza o totale assenza di risposta ai bisogni reali
della popolazione africana, in quanto i benefici prodotti dalla cooperazione di
Pechino in molti Paesi africani, pur avendo determinato risultati di crescita
economica sorprendenti, non hanno permesso sostanziali miglioramenti nelle
condizioni di vita delle popolazioni .
Infine, lo studio della politica cinese in Africa ci permette di capire meglio le
motivazioni che spingono la Cina ad intensificare gli aiuti, più che altro in forma
di prestiti (di cui, a livello di dati non si conoscono le entità reali) e la protezione
internazionale verso quei Paesi, che, a causa delle guerre prodotte dall’instabilità
politica di governi spesso corrotti, sono isolati dal contesto internazionale.
Dal punto di vista bibliografico, nelle mie ricerche mi sono avvalsa degli studi
condotti attraverso indagini giornalistiche che esaminano il legame tra Cina e
Africa, in particolare una delle poche fonti in italiano prodotta finora
sull’argomento: gli articoli ed i testi redatti da Irene Panozzo, giornalista
dell’Agenzia Lettera22, che ha anche pubblicato diversi libri sulla storia e la
politica del Sudan. Un’altra preziosa e utile fonte di informazione per
l’approfondimento della politica cinese in Africa, è stato il web, grazie al quale
ho avuto modo di reperire numerosi papers, articoli e saggi, prevalentemente in
lingua inglese. Tuttavia, al di là delle dichiarazioni che attestano il
consolidamento e la nascita della cooperazione tra Africa e Cina, sono poche le
documentazioni che offrono un esame dettagliato sul rapporto della Cina con i
singoli Paesi, in particolare con il Sudan.
4
Capitolo 1
IL MODELLO DI COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO DELL’UNIONE
EUROPEA IN AFRICA
1.1 Da Yaoundè a Cotonou
Il modello di cooperazione allo sviluppo europeo è legato al processo di
integrazione dell’Europa: il carattere, allo stesso tempo politico ed economico, e
le difficoltà che hanno caratterizzato i passi iniziali sulla via dell’Europa mettono
in luce la stretta unione fra integrazione e cooperazione per la promozione dello
sviluppo. Il processo di creazione e gestione dell’integrazione fra aree e regioni è
contenuto nella capacità di scelta tra nuove e vecchie politiche di cooperazione
internazionale ossia nel dibattito sulla maggiore o minore funzionalità di queste
ultime a creare le giuste sinergie e ad evitare la marginalizzazione tra le diverse
aree.
La nascita nel 1957 della Comunità Economica Europea (CEE), a seguito della
firma del Trattato di Roma, segna anche l’inizio della cooperazione tra l’Unione
Europea e i paesi africani. Nella quarta parte il Trattato prevedeva la creazione di
un Fondo europeo per lo sviluppo (FES) mirante a fornire un aiuto tecnico e
finanziario ai paesi africani che erano ancora colonie.(PRIMO FES: 1959-1964).
Il fondo europeo di sviluppo rappresenta ancora il principale strumento degli
aiuti comunitari per i Paesi terzi: gli Stati dell’Africa, Caraibi e Pacifico e i
territori d’oltremare (PTOM) e benché su richiesta del Parlamento europeo, sia
riservato al Fondo un titolo nel bilancio comunitario fin dal 1993, tuttavia, il FES
non rientra ancora nel bilancio generale della Comunità; esso è finanziato dagli
Stati membri, dispone di regole finanziarie proprie ed è diretto da un comitato
specifico. Ciascun FES viene concluso per un periodo di circa cinque anni.
Dalla conclusione della prima convenzione di partenariato nel 1964, i cicli dei
FES seguono, in generale, quelli degli accordi/convenzioni di partenariato.
5
Con il raggiungimento dell’indipendenza, le ex colonie, cominciano ad
affermare la propria sovranità nazionale creando la necessità di rinegoziare i loro
rapporti con la Comunità su una base più strettamente contrattuale.
La Convenzione di Yaoundé I, firmata il 2 luglio 1963 tra i 18 paesi africani
associati nella SAMA e la Cee, assegna aiuti e vantaggi commerciali ai paesi ex
colonie. Rinnovata il 29 luglio 1969 con la firma della Convenzione di Yaoundé
II, che estende gli aiuti ad altri tre paesi e stanzia una quota rilevante del FES per
infrastrutture nell’Africa francofona (Secondo FES: 1964-1970), la cooperazione
di Yaoundè si basa su tre elementi:
a) zone di libero scambio, istituite tra CEE e SAMA;
b) Aiuto finanziario e tecnico, erogato sia dalla Comunità sia, tramite accordi
bilaterali, dai singoli Stati membri CEE;
c) Istituzioni paritetiche per la gestione futura dei rapporti così instaurati,
come l’Assemblea parlamentare paritetica composta da un numero uguale
di rappresentanti della Comunità e degli Stati SAMA, espressione dei
rispettivi parlamenti.
Nei primi anni Settanta, con la ripresa delle trattative per consentire l’adesione di
nuovi Stati membri, l’ingresso della Gran Bretagna insieme ad Irlanda,
Danimarca nella CEE (1972) l’impulso alla riapertura delle negoziazioni con i
Paesi SAMA, a cui vanno ad aggiungersi anche quelli del Commowealth
britannico. I paesi diventano 46 e sono quindi definiti con l’acronimo ACP, ossia
paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico.
Nel 1975, Convenzione di Lomé I, estende il programma di cooperazione ai
Paesi ACP, sulla base delle nuove idee di politica commerciale europea.
1
Negli anni che precedono questa convenzione si va delineando anche in sede
istituzionale la consapevolezza di un riesame critico delle relazioni economiche
internazionali, dovuto al fallimento delle strategie di cooperazione fino ad allora
intraprese, all’aumento del divario economico tra Paesi industrializzati e Paesi in
1
Quarto Fes: 1975-1980
6
via di sviluppo, all’emersione dei rapporti di dipendenza fra il “centro” e la
“periferia”. Nella I e II Convenzione di Lomè (1975-1984) vengono modificati i
tre punti fondamentali in cui s’incardinava la cooperazione di Yaoundè:
a) alle zone di libero scambio viene sostituito un regime di preferenze
commerciali, il quale prevede che i prodotti manufatti e i prodotti agricoli
ACP, che non sono direttamente in concorrenza con i prodotti soggetti alla
politica agraria comune, entrino nella Comunità senza dazi doganali né
restrizioni quantitative. Questo sistema prevedeva quindi che i paesi ACP
fossero tenuti ad applicare unicamente la clausola della nazione più
favorita e a non praticare discriminazione tra i paesi della Comunità,
mentre rimanevano legittimati a mantenere politiche protezionistiche
rispetto ai prodotti comunitari;
b) l’aiuto tecnico e finanziario viene imperniato sull’utilizzo dei FES, ma
anche attraverso politiche di finanziamento di capitali di rischio; il sistema
delle quote preferenziali per lo zucchero, le banane e la carne bovina,
introdotto nella I Convenzione (1975) istituisce il regime STABEX per
finanziare le perdite sui prodotti agricoli derivanti dalle fluttuazioni dei
mercati; successivamente, con la Convenzione di Lomé II (1979) viene
introdotto il regime SYSMIN per finanziare le perdite derivanti dalle
fluttuazioni dei mercati sui proventi dell’esportazione di prodotti minerari
verso la Comunità.; si sviluppa la tendenza a finanziare microprogetti
eseguiti con la partecipazione attiva delle comunità locali dei Paesi ACP,
allo scopo di responsabilizzarli e creare un maggior senso di appartenenza
rispetto ai processi di sviluppo avviati;
c) istituzioni paritetiche.
La Convenzione di Lomé III, stipulata nel 1984 tra la Comunità europea e i 66
paesi ACP modifica l’orientamento degli aiuti, abbandonando la promozione
7
dello sviluppo industriale per lo sviluppo autonomo, fondato sulla
autosufficienza e sicurezza alimentare.
2
I tre punti fondamentali della cooperazione CEE-ACP restano immutati, mentre
si afferma un concetto autonomo di cooperazione allo sviluppo, slegato dal
contenuto meramente commerciale.
La cooperazione si impone in modo crescente nella coscienza collettiva come
entità politica di condivisione di valori universali. Le scelte della Comunità in
materia di cooperazione vengono quindi ispirate, seppure ancora in modo
frammentario, al rispetto dei diritti fondamentali nei paesi partners. E’ proprio
questa nuova consapevolezza politica che va a scontrarsi con i limiti posti dal
rispetto del principio di sovranità e di non ingerenza degli Stati partners.
La Comunità non può tornare indietro sulla soluzione adottata alla III
Convenzione di Lomè e restare indifferente alle gravi violazioni sui diritti
dell’uomo commesse dai Paesi ACP: le azioni di cooperazione allo sviluppo
devono essere attuate mediando tra l’esigenza di promuovere i valori
fondamentali e quella di rispettare la sovranità e il diritto di ogni Stato a
determinare le proprie scelte politiche, sociali, culturali ed economiche.
La Convenzione di Lomé IV firmata nel 1989
3
è la prima convenzione di durata
decennale con una revisione intermedia.
Per la prima volta il rispetto dei diritti dell’uomo, dei principi democratici e dello
stato di diritto diventano elementi essenziali della Convenzione. L’articolo 5 del I
capitolo della IV Convenzione di Lomè, è dedicato agli “obiettivi e principi della
cooperazione”: il valore fondamentale e universale è l’uomo, che sta al disopra di
qualsiasi altro sistema economico, nazionale e di qualsiasi natura. Dalla centralità
dell’individuo scaturiscono la promozione e il rispetto dei diritti umani, dello
stato di diritto e della democrazia. La destinazione di aiuti finanziari per la
promozione di tali diritti è soggetta ad una “clausola fondamento” (come
2
(Sesto FES:1985-1990)
3
(Settimo FES: 1990-1995; ottavo FES: 1995-2000)
8
ridefinita dalla Commissione) che riproduce i contenuti dell’articolo 5 e
stabilisce la possibilità di sospensione degli aiuti per i paesi che non la rispettano.
Altri punti sono: il rafforzamento del ruolo delle donne nella società; la
protezione ambientale; la cooperazione decentrata
4
che instaura un rapporto di
partecipazione attiva tra le comunità locali organizzate e la società civile e infine
la promozione del settore privato.
1.2 Il contesto internazionale della cooperazione
Gli obiettivi generali della cooperazione italiana allo sviluppo e i principi guida a
cui essa si ispira sono quelli fissati anche nel quadro di accordi e decisioni
assunte a livello internazionale e comunitario.
La Dichiarazione del Millennio, approvata nel 2000 da 186 Capi di Stato e di
Governo nel corso della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite, stabilisce l’obiettivo centrale del dimezzamento della povertà
assoluta entro il 2015. Tale obiettivo si articola in otto finalità (Millenium
Goals), alle quali deve essere improntata l’azione di cooperazione a livello
internazionale:
1. lotta alla povertà e alla fame: ridurre della metà la proporzione di chi vive
con meno di un dollaro al giorno e di chi soffre la fame;
2. educazione di base universale: garantire che tutti, ragazze e ragazzi,
completino un corso di educazione primaria;
3. eliminazione delle disparità tra i sessi: eliminare la disparità tra i generi
nell’educazione primaria e secondaria, possibilmente entro il 2005 e a tutti
i livelli;
4. riduzione della mortalità infantile: ridurre di due terzi l’incidenza della
mortalità per i bambini sotto i 5 anni;
4
Si tratta di un approccio originale della cooperazione, caratterizzato da complesse implicazioni sia a Sud(riequilibrio del
ruolo dello Stato e popolazioni beneficiarie) che a Nord (i donors assumono un ruolo di sostegno ed accompagnamento)
che necessitano quindi di un alta qualità degli interventi attraverso una concertazione corretta e flessibile di tutti i soggetti
convolti.
9
5. miglioramento della salute materna: ridurre di tre quarti la mortalità per
parto;
6. lotta contro l’Aids e le altre malattie infettive: fermare e cominciare a
ridurre la diffusione dell’HIV/AIDS e l’incidenza della malaria e di altre
gravi malattie;
7. protezione dell’ambiente: integrare i principi di uno sviluppo sostenibile
nelle politiche e nei programmi dei diversi paesi; contenere le perdite di
risorse per lo sviluppo; ridurre della metà la proporzione di chi è privo di
accesso all’acqua potabile; portare significativi miglioramenti nella vita di
almeno 100 milioni di abitanti degli slums entro il 2020;
8. creazione di un partenariato globale per lo sviluppo che comprende:
ξ sviluppare ulteriormente e aprire sistemi commerciali e finanziari
basati su regole, fisse e non discriminatorie comprende un impegno per
una buona “governance”, per lo sviluppo e la riduzione della povertà in
sede nazionale e internazionale;
ξ dedicare le maggiori energie ai bisogni dei paesi meno sviluppati
garantendo accessi all’esportazione dei loro prodotti liberi da tariffe e
aliquote; con la riduzione del peso dei debiti per i paesi poveri
pesantemente indebitati, la cancellazione dei debiti bilaterali ufficiali e
maggiore generosità nei confronti dello sviluppo dei paesi impegnati
nella riduzione della povertà;
ξ occuparsi degli speciali bisogni delle enclaves e delle piccole isole;
ξ avere comprensione per il debito dei Paesi in via di sviluppo con
misure nazionali e internazionali tali da rendere il debito sostenibile
nel lungo termine;
ξ sviluppare lavoro decoroso e produttivo per i giovani, in cooperazione
con i Paesi in via di sviluppo;
ξ provvedere a rendere accessibili in tutti i paesi in via di sviluppo i
medicinali essenziali, in collaborazione con le case farmaceutiche;
10
ξ rendere disponibili i vantaggi delle nuove tecnologie, in particolare
l’informazione e la tecnologia della comunicazione, in cooperazione
con il settore privato.
L'enunciazione in otto punti dei Millennium Development Goals rappresenta il
punto di sintesi di numerosi incontri e confronti planetari, promossi dalle Nazioni
Unite, che si sono tenuti a partire dal 1972. Inizialmente mirati all'analisi della
"sostenibilità" si sono poi intrecciati con i dati, imprescindibili, relativi alla
povertà e allo sviluppo di tutti i Paesi del mondo e dunque anche a quelli del
commercio mondiale. Ne sono usciti numerosi documenti utili alla comprensione
di un percorso che si è posto, come obiettivo, una data, il 2015, per dare un
equilibrio sostenibile alla libertà, all'economia, allo sviluppo di ciascun Paese del
mondo.
La Dichiarazione di Stoccolma sull'ambiente umano approvata il 16 giugno 1972
dai capi delle 110 delegazioni presenti è articolata in 26 principi, di cui i
principali sanciscono la libertà, l’uguaglianza, il diritto ad adeguate condizioni di
vita, la protezione delle risorse naturali e l’opportuna razionalizzazione delle
stesse per il beneficio delle generazioni future. Tale Dichiarazione ha
rappresentato la prima presa d'atto, da parte della comunità internazionale, che
"si devono condurre le proprie azioni in tutto il mondo con più prudente
attenzione per le loro conseguenze sull'ambiente" poiché la sua difesa e il suo
miglioramento sono diventati " uno scopo imperativo per tutta l'umanità" insieme
alla pace e allo sviluppo sociale ed economico.
Nel 1980, la Strategia Mondiale per la Conservazione (WCS) ha elaborato i
seguenti obiettivi:
ξ mantenimento dei sistemi vitali e dei processi ecologici essenziali ;
ξ conservazione della diversità genetica ;
ξ utilizzo “sostenibile” delle specie e degli ecosistemi;
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Il Rapporto della Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (WCED)
“Il nostro futuro comune” è noto come rapporto Brundtland e definisce per la
prima volta lo sviluppo sostenibile come: “lo sviluppo che deve rispondere alle
necessità del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di
soddisfare le proprie”. L’UNCED, meglio nota come “Vertice della terra” si è
svolta a Rio de Janeiro (Brasile), nel 1992, richiamando il 20° anniversario della
Prima Conferenza Internazionale “Sull’ambiente umano” di Stoccolma (1972).
La Conferenza di Rio ha permesso alla Comunità internazionale di concordare
strategie ambiziose, per raccogliere le sfide ambientali attraverso una
cooperazione mondiale volta alla sostenibilità.
Cinque le Convenzioni Globali definite e prive di obblighi giuridici:
ξ Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo: definisce in 27 punti
diritti e responsabilità delle nazioni nei riguardi dello sviluppo sostenibile.
ξ Agenda 21, applicazione della Dichiarazione di Rio: pone lo sviluppo
sostenibile come una prospettiva da perseguire per tutti i popoli del
mondo.
ξ Dichiarazione dei principi sulle foreste: sancisce il diritto degli Stati a
utilizzare le foreste secondo le proprie necessità, senza ledere i principi di
conservazione e di sviluppo delle stesse.
ξ Convenzione quadro sui cambiamenti climatici - cui seguirà la
Convenzione sulla Desertificazione-: pone obblighi di carattere generale
miranti a contenere e stabilizzare la produzione di gas che contribuiscono
all’effetto serra.
ξ Convenzione sulla diversità biologica: ha l’obiettivo di tutelare le specie
nei loro habitat naturali e riabilitare quelle in via di estinzione.
Nel 1994, la Carta di Aalborg "Carta delle città europee per uno sviluppo
durevole e sostenibile" elabora il concetto di sostenibilità, individua le
12