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2. IL PROFILO DELL’IMPRENDITRICE ITALIANA
2.1 Storia e origini dell’imprenditoria femminile in Italia
Il termine “Industria femminile italiana” risale al 1906, anno in cui fu inaugurata a Milano
l’Esposizione Internazionale. Durante questa manifestazione, l’Italia mostrava al mondo il frutto delle
italiche “arti donnesche” vantando merletti, ricami, decorazioni, tovaglie e bambole di altissimo pregio.
Erano i frutti delle prime iniziative imprenditoriali, che raccoglievano il lavoro di piccole imprese
artigianali costituite prevalentemente da donne dello stesso nucleo familiare. Fu proprio in quel periodo
che il regno d’Italia iniziò a valorizzare la condizione femminile, prendendo consapevolezza che anche
la donna avesse diritto al lavoro e ad un’equa retribuzione.
Durante la prima guerra mondiale, il lavoro femminile diede un importante contributo all’economia
di guerra e fu il motore di una forte espansione produttiva; infatti, il 28% della manodopera industriale
dei settori come il tessile, il laniero e il cotoniero era “rosa”.
Tuttavia, l’avvento del fascismo complicò notevolmente il processo di emancipazione; poiché
Mussolini più volte richiamò al mito della donna come “custode del focolare”. Nonostante ciò, il
mutamento socio-economico in atto aveva già predeterminato la stabilizzazione femminile nel mondo
del lavoro: la produzione manifatturiera si spostò dai beni d’investimento a quelli di consumo e le donne
passarono dal lavoro nelle industrie tessili a quello nei settori “di base” tipici delle strutture industriali
avanzate. A conferma di ciò, negli anni Trenta, un milione e mezzo di famiglie basavano il loro bilancio
quotidiano sui proventi derivanti dal lavoro femminile.
La seconda guerra mondiale rafforzò ancor di più i progressi ottenuti durante la Grande guerra. Le
donne iniziarono a svolgere compiti di pertinenza originariamente maschile: gestivano le imprese, erano
funzionarie della Pubblica Amministrazione, lavoravano nei campi e nelle fabbriche. A consolidare
ulteriormente questo risultato, vi fu la presenza di una prima minoranza di donne diplomate o laureate
che adattarono i loro titoli di studio a nuove professioni. Fu proprio in questo periodo che nacque
l’AIDDA, la prima associazione professionale femminile che raccoglieva le donne imprenditrici e
dirigenti d’azienda. Inoltre, per garantire la parità del trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro,
fu essenziale la legge 903/1977 che ridusse le disuguaglianze.
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Nonostante dal 1977 al 2018 il tasso di occupazione femminile sia aumentato di 16 punti percentuali,
l’Italia si posiziona al 14° posto in Europa. Secondo le stime dell’Osservatorio mercato del lavoro e
competenze manageriali di “4.Manager”, ci vorranno circa sessant’anni per eliminare il gender gap. Per
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BONUGLIA R., Nascita e sviluppo dell’imprenditoria femminile Italiana, 2019, relazione pronunciata nel corso del
Seminario organizzato dal Polo Bibliotecario del Ministero dello Sviluppo Economico "Femminile e relazionale. Il valore
aggiunto della nuova imprenditoria.”
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questo, nonostante siano state raggiunte molte tappe nel cammino dell’emancipazione femminile, è
necessario fare ancora passi avanti per garantire il pieno inserimento delle donne nel mondo del lavoro.
2.2 Quali sono le ragioni che spingono le donne a diventare imprenditrici?
La letteratura restituisce un’analisi delle motivazioni per cui le donne diventano imprenditrici,
mostrando come le ragioni che le spingono a “fare impresa” siano molteplici e molto diverse tra loro. Il
subentro nell’azienda familiare è la motivazione più diffusa, che riguarda il 31% delle donne in Italia.
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Tuttavia, alcune ricerche dimostrano che le donne spesso ricoprono funzioni di supporto rispetto alla
figura maschile all’interno delle imprese familiari, probabilmente perché si ripropongono le stesse
dinamiche relazionali vigenti nell’ambiente domestico. Ciononostante, accanto a donne coinvolte in
ruoli marginali, vi sono coloro che rivestono importanti mansioni di governo o di direzione all’interno
delle family business. Potrebbe essere questa la ragione per cui le donne (27%) si mostrano più
interessate al subentro in un’impresa familiare rispetto agli uomini (23%).
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A seguire, le due motivazioni che spingono le donne a iniziare una nuova impresa sono la
valorizzazione delle competenze ed esperienze professionali (23%) e la voglia di successo personale ed
economico (22%).
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Ciò testimonia come siano più forti le motivazioni dettate da know-how e volontà
di crescere, rispetto alla più tradizionale ragione di autoimpiego. Questo fenomeno potrebbe essere
spiegato dalla volontà delle donne di abbattere il cosiddetto glass ceiling (soffitto di cristallo). Si tratta
di una metafora utilizzata per la prima volta dal giornalista Hymowitz nel 1986 per descrivere un
ostacolo invisibile che preclude alle donne la possibilità di accedere ai vertici aziendali. In questo caso,
mettersi in proprio rappresenta la strategia più efficace per risolvere le problematiche legate alla diversità
di genere sul posto di lavoro.
Infine, secondo le stime del Rapporto sull’imprenditoria femminile redatto da Unioncamere nel 2020,
il 15% delle donne che iniziano una nuova impresa in Italia è spinto dalla volontà di cogliere le
opportunità del mercato, mentre il 14% di loro è mosso dalla necessità di un impiego. Nel libro
“L'imprenditoria femminile come strumento di innovazione per lo sviluppo locale” scritto da Sonia
Bertolini e Valentina Goglio nel 2011 emerge come, accanto alle ragioni di emancipazione e
indipendenza, può esserci il bisogno di superare situazioni difficili. Spesso le donne separate iniziano
una nuova attività perché si trovano senza l’appoggio del partner e con figli a carico. Altre si trasformano
in imprenditrici a causa della chiusura di attività o del licenziamento da parte del datore di lavoro. Altre
ancora sono costrette a sostituirsi al coniuge, a seguito della sua scomparsa, al fine di costruire un futuro
per i figli. (Grafico 1). Tali ragioni sembrano essersi accentuate in quest’ultimo anno, visto l’impatto
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Si. Camera-Unioncamere, 4° Rapporto nazionale sull’imprenditoria femminile, Impresa in Genere (2020)
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CESARONI F., SENTUTI A., Donne e imprese familiari. quale ruolo per le donne quando il leader è un uomo? , Tesi di
laurea presentata presso l’Università degli studi di Urbino Carlo Bo nel 2012
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della pandemia da Covid-19. Ciò è comprovato da uno studio effettuato da Accenture e Quilt.AI insieme
a Women20, dove si evidenzia come le donne siano state maggiormente colpite dalla crisi causata
dall’emergenza sanitaria. Infatti, i loro guadagni sono diminuiti del 63% rispetto a quelli degli uomini e
hanno il 79% di probabilità in più di essere licenziate rispetto ai loro colleghi. Tali ragioni potrebbero
spingere le donne a mettersi in proprio nei prossimi anni, anche grazie alle misure previste dalla legge
di Bilancio 2021 di cui si parlerà più approfonditamente nel paragrafo 2.5.
2.3 Leadership di genere: uomini e donne a confronto
Come evidenziato nel paragrafo precedente, l’impresa nasce da una motivazione aggiuntiva rispetto
al vincolo di profitto. Comprendendo questo, stupiscono di meno alcune evidenze empiriche relative alle
differenze gestionali tra uomo e donna.
In primis, le donne hanno un orientamento alla relazione molto più sviluppato rispetto agli uomini. Il
loro obiettivo è quello di creare un ambiente di lavoro collaborativo, incentivando al reciproco scambio
di know-how. Il fine ultimo dell’imprenditrice non è quello di imporsi come autorità indiscussa, ma
quello di insegnare il proprio sapere agli altri e ricevere arricchimenti dai propri collaboratori. Questo la
sprona a delegare molti compiti e a dare un margine di potere ai dipendenti, al fine di svilupparne il
pieno potenziale. È proprio la tendenza al dialogo, alla comunicazione e alla cooperazione che
caratterizza lo stile dirigenziale femminile come “trasformazionale”. Questa leadership, introdotta da
James MacGregor Burns nel 1978, prevede che il leader ottenga migliori risultati economici ispirando e
fungendo da modello per i suoi subordinati.
Tale concezione si contrappone alla teoria del leader “transazionale”, secondo cui il lavoratore offre
le sue competenze solo in cambio di una remunerazione, non beneficiando degli stimoli provenienti da
un ambiente di lavoro cooperativo. Questa visione dirigenziale, tipicamente maschile, fa sì che gli
uomini instaurino un rapporto più autoritario e formale sia con il personale sia con gli stakeholder esterni.
Tuttavia, la propensione a definire delle regole e a monitorare costantemente i dipendenti genera
maggiore disciplina e consente maggiore capacità di controllo. Inoltre, alcune evidenze empiriche
dimostrano come gli uomini siano maggiormente inclini a stipulare accordi e partnership rispetto alle
donne, sviluppando un ambiente di maggiore competitività.
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Per ciò che concerne la propensione all’innovazione, il “Global Entrepreneurship Monitor 2018/2019
Women’s Entrepreneurship Report” sottolinea come gli uomini siano più propensi alla “global
innovation” rispetto alle donne. Infatti, a livello mondiale, il settore economico con il più ampio gap di
genere è quello delle ICT. Tuttavia, come si approfondirà nel paragrafo successivo, le donne stanno
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Paola Ellero, Donne in azienda: la “diversità” come valore, 2008, disponibile al sito:
https://www.manageritalia.it/content/download/Informazione/Giornale/Dicembre_2008/42_44pdf.pdf