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ABSTRACT
Il presente contributo ha l'obiettivo di analizzare il ruolo di moderatore
dell'Identificazione Organizzativa sulla relazione ipotizzata tra Efficacia Collettiva
percepita e Orgoglio Organizzativo (organizational pride). Nello specifico, l'ipotesi di
partenza prevede che le differenze individuali nei livelli di Identificazione Organizzativa
moderino la relazione tra Efficacia Collettiva e Orgoglio Organizzativo: si ipotizza dunque
l'esistenza di un effetto di interazione tra Identificazione Organizzativa e Efficacia
Collettiva nel predire i livelli di orgoglio per l'organizzazione. In particolare, all'aumentare
dei livelli di efficacia dovrebbe corrispondere un aumento dell'orgoglio per le
caratteristiche identitarie dell'organizzazione, e tale aumento dovrebbe essere
significativamente più marcato per gli individui altamente identificati.
Il contributo si fonda sul paradigma della social cognition applicata alle
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organizzazioni. In particolare, le due cornici teoriche di riferimento sono la Teoria Sociale
Cognitiva (TSC) e la Teoria dell'Identità Sociale (SIT). Nella Teoria Sociale Cognitiva
(Bandura, 1986) il Sé è agente, cioè in grado di influenzare intenzionalmente il
funzionamento individuale e di agire trasformativamente sull'ambiente esterno. Il
meccanismo centrale attraverso cui opera l'agentività umana è rappresentato dalle
convinzioni di efficacia personale e collettiva (Bandura, 1989). Le convinzioni di efficacia
collettiva risultano centrali per il buon funzionamento organizzativo: la credenza condivisa
circa la capacità collettiva di un gruppo di raggiungere determinati obiettivi (Zaccaro,
Blair, Peterson, Zazanis, 1995) migliora la performance, aumentando il commitment
organizzativo, la soddisfazione lavorativa e favorendo la creazione di un clima aziendale
propositivo e volto al raggiungimento degli obiettivi (Borgogni 2001; Borgogni, Dello
Russo, Petitta, Latham, 2009; Borgogni, Petitta, Mastrorilli, 2010). La Teoria dell'Identità
Sociale viene elaborata da Tajfel e Turner a cavallo tra gli anni '70 e '80 e applicata per la
prima volta al contesto organizzativo da Ashforth e Mael (1989). Secondo i due studiosi,
gli impiegati fortemente identificati assumeranno più probabilmente atteggiamenti
cooperativi (Ashforth & Mael, 1989) e si comporteranno perseguendo gli interessi
dell'organizzazione come se fossero i propri (Dutton, Dukerich, Harquail, 1994).
L'Orgoglio Organizzativo è una reazione valutativa in risposta al legame affettivo
che si crea tra individuo e azienda (Van Dick, Wagner, Stellmacher, Christ, 2004; Edwards
& Peccei, 2007). Questo costrutto emergente nell'ambito della psicologia del lavoro
comprende diversi aspetti relativi alle attitudini degli impiegati. Oltre a rappresentare la
parte più affettiva dell'impegno dell'individuo verso l'organizzazione, comprende anche
una sorta di fiducia nella capacità collettiva di affrontare nuove sfide, ed è il motore che
spinge i dipendenti a dare il massimo per la propria organizzazione. L'orgoglio ha molte
conseguenze positive sulla performance aziendale e sul benessere individuale: ad esempio,
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si hanno effetti positivi sulla performance, sui livelli di turnover, ed effetti positivi sugli
stakeholder esterni in termini di customer satisfaction. Inoltre, i dipendenti orgogliosi
mostrano livelli elevati di commitment, di fedeltà e aderenza alle norme e ai valori
dell'organizzazione, e si impegnano maggiormente in comportamenti cooperativi e di
cittadinanza organizzativa (Sirota et al., 2005; Haslam, Powell, Turner, 2000; Tyler, 1999;
Leete, 1999).
La realizzazione della presente ricerca è stata possibile grazie alla collaborazione
della Sapienza Università di Roma. I partecipanti alla ricerca (854 associati Sapienza tra
studenti, dottorandi, professori e personale tecnico e amministrativo) hanno ricevuto sulla
propria casella e-mail universitaria un link tramite cui accedere al questionario online,
invitati a rispondere da una comunicazione ufficiale dell'Ufficio Stampa e Comunicazione
di Sapienza Università di Roma.
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1. Introduzione
Secondo la celebre definizione di Katz e Kahn (1966), le organizzazioni sono
sistemi sociali aperti che coordinano i comportamenti degli individui al loro interno
attraverso i ruoli, le norme e i valori. Comprendere le basi psicologiche del comportamento
umano nei contesti organizzativi è l'obiettivo principale dei ricercatori appartenenti a due
macro-aree di ricerca: psicologia organizzativa e psicologia sociale. Entrambe cercano di
studiare gli stati mentali e i processi associati al comportamento in gruppi e sistemi sociali
strutturati (Haslam, 2004). La questione centrale che accomuna le due aree di ricerca
riguarda il ruolo dei gruppi e il modo in cui contribuiscono ad influenzare sia gli individui
all'interno dell'organizzazione, sia il funzionamento dell'organizzazione stessa.
Negli ultimi decenni l'attenzione della psicologia verso i fenomeni organizzativi è
cresciuta in modo esponenziale. Numerosi contributi di studio hanno fornito, oltre a
innovative ipotesi teoriche, strumenti e tecniche di analisi fondamentali per interpretare le
dinamiche organizzative. In particolare, gli psicologi sociali hanno cominciato ad
occuparsi sempre più attivamente delle problematiche relative alla produttività e al
benessere nell'ambiente lavorativo.
La psicologia è entrata nelle organizzazioni con obiettivi di ricerca e di intervento.
L'alto grado di applicabilità ai contesti organizzativi di alcune teorie psicologico-sociali ha
reso possibile l'individuazione e la valorizzazione di variabili, individuali e di gruppo, che
di volta in volta possono influenzare la performance lavorativa e rafforzare il legame tra
persona e organizzazione (Borgogni, 2001). Il contributo della ricerca psicologica ha in
realtà operato un cambiamento alla base del modo di concepire le organizzazioni, ora viste
come entità sociali dinamiche e non più monolitiche, co-costruite dagli individui nel loro
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rapporto col contesto lavorativo e dal rapporto dell'organizzazione stessa con il contesto
sociale esterno. Questo cambiamento di panorama è frutto in prima battuta di una nuova
concezione della persona, tipica delle teorizzazioni della psicologia sociale ed in
particolare della social cognition: l'individuo viene assunto come agente e non solamente
prodotto dell'ambiente sociale in cui è situato. Agendo trasformativamente ed
intenzionalmente su se stesso e su ciò che lo circonda (Bandura, 2008), l'individuo modella
il proprio contesto seguendo bisogni e scopi personali. Tali scopi, però, spesso si scontrano
con quelli delle altre persone; altre volte, invece, c'è bisogno della collaborazione degli
altri per arrivare ad obiettivi collettivi. La social cognition sottolinea come l'individuo sia
immerso in una rete di relazioni che crea reciprocità e condivisione: l'intesa, la sinergia e
l'integrazione tra le persone appartenenti a un gruppo sono elementi fondamentali per il
raggiungimento degli obiettivi. Tale rilievo è di centrale importanza per sistemi sociali
complessi quali le organizzazioni. La necessità di stabilire legami di appartenenza e
condivisione è ancora più accentuata nell'ambiente di lavoro: gli obiettivi organizzativi
possono essere raggiunti solo da gruppi di lavoro efficaci, ben integrati ma anche ben
valorizzati ed orchestrati (Borgogni, 2001). Affinché un gruppo di lavoro funzioni al
meglio, i membri devono essere convinti circa la capacità congiunta del gruppo di
raggiungere determinati scopi attraverso un'azione collettiva: la Teoria Sociale Cognitiva
(Bandura, 1986) denomina questo processo psicologico emergente Efficacia Collettiva
Percepita – prima variabile presa in considerazione nella presente ricerca. Lo sviluppo e il
mantenimento dell'efficacia collettiva nell'ambiente di lavoro favorisce l'assunzione di
comportamenti organizzativi positivi, oltre ad aumentare i livelli di impegno e di
soddisfazione lavorativa (Zaccaro, Blair, Peterson, Zazanis, 1995; Borgogni 2001;
Borgogni, Dello Russo, Petitta, Latham, 2009; Borgogni, Petitta, Mastrorilli, 2010).
Le organizzazioni, in quanto sistemi aperti fatti principalmente di persone, possono
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essere concettualizzate come categorie sociali. I dipendenti, di conseguenza, possono
identificarsi con l'organizzazione per riceverne benefici in termini di identità sociale,
veicolando un'immagine di sé positiva e innalzando il livello di autostima personale. La
Teoria dell'Identità Sociale (Tajfel & Turner, 1979) - uno dei principali modelli relativi alle
dinamiche intergruppi nella psicologia sociale - viene applicata alle organizzazioni per la
prima volta da Ashforth e Mael (1989). Il concetto di Identificazione Organizzativa – la
seconda variabile della nostra ricerca - viene utilizzato per descrivere il legame cognitivo
tra individuo e organizzazione, attivato dalla similarità percepita tra l'identità dell'azienda e
l'identità personale (Bergami, 1996). L'emergere di questo legame ha conseguenze positive
non solo per l'autostima dell'individuo, ma anche per il funzionamento dell'organizzazione:
dipendenti altamente identificati, infatti, perseguono gli interessi dell'organizzazione come
se fossero i propri, mettono in mostra comportamenti prosociali e non assenteistici, sono
migliori nelle performance lavorative, oltre ad essere generalmente più soddisfatti del
proprio lavoro rispetto agli individui meno identificati (Dutton, Dukerich, Harquail, 1994;
O'Reilly e Chatman, 1986; Lee, 1971; Benkhoff, 1997).
La terza variabile oggetto del presente studio è l'Orgoglio Organizzativo (nello
specifico, verrà analizzato l'orgoglio dei dipendenti per le caratteristiche identitarie
dell'organizzazione). Si tratta di una variabile emergente nello studio delle attitudini degli
impiegati, e nonostante sia di fondamentale importanza per il funzionamento ottimale delle
organizzazioni, risulta essere ancora poco studiata a livello empirico (Appleberg, 2006).
Proveremo dunque a contribuire alla letteratura sull'Orgoglio Organizzativo esaminandone
il rapporto con gli altri due costrutti in esame: Efficacia Collettiva e Identificazione
Organizzativa. Nei prossimi capitoli illustreremo le teorie psicologico-sociali che
funzionano da base teorica per la nostra ricerca, per poi passare in rassegna i primi
contributi relativi all'Orgoglio Organizzativo.
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2. Teoria dell'identità sociale e identificazione
organizzativa
2.1 Cornice Teorica: la Teoria dell'Identità Sociale
La tendenza a costituire gruppi, a sentirsene parte e a operare confronti con gruppi
diversi dai propri è innata nell'essere umano. L'appartenenza sociale contribuisce in
maniera determinante allo sviluppo della teoria di Sé di un individuo: ci definiamo come
persone anche attraverso i gruppi sociali a cui sentiamo di appartenere (Mannetti, 2002); in
particolar modo, è nel gruppo che emerge la nostra identità sociale.
Secondo Tajfel (1972, 1981, 1982) e Turner (1985), a seconda delle circostanze
nell'individuo si rende più saliente la propria identità personale o la propria identità sociale.
L'identità personale è definita in base alle caratteristiche individuali che gli individui
sentono di possedere, mentre l'identità sociale è situata nell'appartenenza a gruppi o
categorie sociali. Approfondendo quest'aspetto, gli autori fondano la Teoria dell'Identità
Sociale (Social Identity Theory - SIT) (Tajfel & Turner, 1979). Le persone si autoassegnano
non soltanto ad uno, ma a più gruppi sociali che, di situazione in situazione, ne definiscono
l'individualità e permettono loro di distinguersi dagli altri (Tajfel & Turner, 1979). Di
conseguenza, la classificazione sociale coinvolge ogni ambito della vita dell'individuo: si
può appartenere ad un gruppo religioso, ad un'organizzazione sportiva, o ad un'azienda
(Tajfel & Turner, 1986). Le persone categorizzano se stesse e gli altri attraverso
l'assegnazione individuale di caratteristiche ritenute prototipiche di un gruppo: è evidente
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in questo caso la funzione cognitiva di semplificazione e segmentazione della realtà svolta
dalla classificazione sociale. Attraverso l'utilizzo di stereotipi – per definizione inaccurati
(Allport, 1954) – gli individui danno senso alla realtà sociale, disponendo di un mezzo
semplice per categorizzare gli altri, ma non solo. Un'altra funzione della classificazione
sociale, infatti, è quella di permettere all'individuo di definire se stesso all'interno
dell'ambiente sociale. L'identificazione sociale corrisponde dunque al sentimento di “unità
con” o di “appartenenza a” un gruppo di esseri umani (Ashforth & Mael, 1989). Il destino
del gruppo di cui ci si sente parte viene vissuto come proprio; l'identificazione sociale aiuta
così l'individuo a rispondere alla domanda “chi sono?” (Turner, 1982).
La natura dell'identificazione sociale è sostanzialmente relazionale e comparativa.
Le autodefinizioni - e le definizioni assegnate agli altri – emergono sempre in relazione ad
altri individui classificati in diversi gruppi sociali (Tajfel & Turner, 1986). Il confronto
intergruppi avviene in situazioni in cui l'identità sociale dell'individuo si rende saliente, e
svolge una importante funzione di mantenimento di un'immagine positiva di sé; il gruppo a
cui si sente di appartenere (ingroup) viene favorito e valutato più positivamente rispetto al
gruppo di cui non si fa parte (outgroup). Tale processo consente di aumentare il proprio
livello di autostima ed orgoglio personale, semplicemente attraverso l'appartenenza ad un
gruppo di persone percepite come simili (Turner, 1975).
Alla base della teoria di Tajfel ci sono dunque i due fondamentali processi cognitivi
della categorizzazione sociale e del confronto sociale. La SIT nasce quasi per caso, come
tentativo di spiegare il comportamento degli individui rilevato negli studi sui gruppi
minimali (Billig & Tajfel, 1973; Tajfel, Flament, Billig, Bundy, 1971). I processi intra e
intergruppi vengono attivati non solo in presenza di classificazioni sociali salienti o forte
senso di appartenenza ad una categoria: la semplice divisione arbitraria in gruppi, in un
contesto di laboratorio, basta a dar vita a comportamenti di favoritismo verso l'ingroup e