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2) quando, con che finalità e in quale modo è previsto dalla legislazione
italiana l’affido temporaneo presso istituti?
3) quali sono gli effetti dell’inserimento in una comunità sulla mente
del bambino e come si può ottenere il meglio da questa situazione?
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1.1. Il ruolo della famiglia normale
Questa prima questione è particolarmente importante perché, come
afferma Winnicott, “osservando ciò di cui godono i bambini normali,
possiamo capire quello di cui hanno assolutamente bisogno i bambini
deprivati”. Sono del resto molti gli autori che hanno studiato il ruolo dei
genitori nello sviluppo psicoaffettivo dei figli, spesso con particolare
riferimento al rapporto madre-bambino.
A questo proposito, sono tuttora fondamentali i contributi dei grandi
autori di formazione psicoanalitica, a cominciare dallo stesso S. Freud.
Egli ha tracciato per primo un credibile quadro dello sviluppo psichico
del bambino, pur non avendone mai avuto nessuno come paziente, con
la parziale eccezione del piccolo Hans. Il suo lavoro è stato poi
ampiamente ripreso ed esplicitato dalla figlia A. Freud, a cui si devono
anche notevoli contributi personali: tra questi, vanno sottolineati almeno
il ruolo di coscienza morale, inizialmente esterna e quindi
progressivamente introiettata, attribuito ai genitori e la definizione e
classificazione dei meccanismi di difesa.
I lavori di R. Spitz sono importanti per varie ragioni. A lui si deve la
descrizione dell’evoluzione del sorriso, che egli dimostrò divenire da
puramente somatico, dapprima sociale e quindi specifico nel contesto
del progresso della relazione tra madre e bambino: per questo autore,
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del resto, tale rapporto è indispensabile al normale sviluppo del lattante,
essendo questo a lungo dipendente dal suo Io ausiliario e intermediario
percettivo materno. Spitz definì inoltre il quadro della depressione
anaclitica, con le sue tre fasi di disperazione, ripiegamento e depressione
propriamente detta: sottolineò che solo la ripresa di adeguate cure da
parte della madre o di un suo sostituto era in grado di evitare gravi
conseguenze al corpo e alla mente di questi infanti. Come per altro
dimostrano anche numerosi casi descritti in questo studio, “non è che
questo quadro sia ora del tutto scomparso, ma non lo si osserva più nella
espressione così grave come qui detto; le situazioni di separazione non
mancano certo anche oggi se si pensa come siano tutt’altro che rare le
carenze familiari (ospitalismo intrafamiliare) o il caos educativo
(famiglie in cui l’immagine parentale cambia in modo caotico, oppure vi
sono cambiamenti nelle condizioni di vita, una madre depressa, ecc.)”
(Lanzi, 1994).
Figli dei lavori di R. Spitz sono gli studi di M. Mahler e dei suoi
collaboratori, condotti attraverso rigorose quanto attente osservazioni
del rapporto madre-bambino. La sua definizione dell’evoluzione
attraverso un periodo di autismo fisiologico, una fase simbiotica e una di
separazione-individuazione è uno schema di riferimento molto
importante: solo la prima di tali fasi, per altro descritta in base a
inferenze più che a vere osservazioni, è oggi concordemente ritenuta
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inesistente, sulla base delle elevate capacità di percezione dimostrate già
dal feto. È comunque importante sottolineare che secondo la Mahler
l’interazione reale tra la madre e il bambino, variamente caratterizzata
nei modi e nelle forme nei primi tre anni di vita, è ciò che consente la
nascita psicologica del bambino stesso: essa è dunque frutto di un
accordo tra le capacità innate del bambino e la disponibilità psicologica e
fisica della madre. A questo si opporrà M. Klein, portatrice di un
pensiero assolutamente innovativo nel panorama di quegli anni: questa
autrice sostenne infatti che “più precoce è l’introiezione, più fantastici e
più distorti da ciò che è stato proiettato su di loro sono gli oggetti
introiettati”, affermando così un parziale dominio delle fantasie del
bambino sulla realtà dell’accudimento materno. L’aver lavorato per tutta
la vita nel tentativo da un lato di trovare nuove vie terapeutiche e
dall’altro di creare un modello teorico dello sviluppo infantile portò M.
Klein a individuare e introdurre nell’uso varie nuove idee (citando come
esempio, le difese maniacali o la nozione di Edipo orale).
Vari autori attinsero in seguito al pensiero kleiniano per poi portare
autonomi contributi alla comprensione del rapporto madre-bambino.
Tra questi, va citato W.R. Bion: egli utilizzò per primo il modello del
contenitore e del contenuto per illustrare come il bambino proietta i
sentimenti travolgenti che lo invadono nella madre, che li riceve e, dopo
averli trattenuti ed elaborati nella propria mente, trasmette al bambino il
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senso della sopportabilità e della comprensibilità di ciò che egli aveva
evacuato in lei, non sapendolo comprendere né sopportare. Tale capacità
della madre è la revêrie e, secondo Bion, è essenziale perché il bambino
possa progressivamente imparare a sua volta a trasformare il qualcosa
di indefinito, che avverte ma non sa esprimere, in pensieri.
Anche D.W. Winnicott fu allievo di M. Klein, ma ne rifiutò la visione del
piccolo bambino come teso a controllare l’istinto di morte, opponendo
strutture via via più evolute al sadismo distruttivo e all’invidia. Egli
sostenne invece che “se si vuole che il potenziale innato abbia una
probabilità di diventare attuale nel senso di manifestarsi nella
personalità dell’individuo, allora l’offerta di risorse ambientali
dev’essere adeguata. È opportuno usare un’espressione come cure
materne sufficientemente buone per comunicare una visione non
idealizzata della funzione materna”. Poiché “il bambino piccolo non può
esistere da solo, ma è fondamentalmente parte di una relazione” in cui la
madre, sulla scorta del suo istinto guidato dalla preoccupazione materna
primaria, lentamente rende il figlio capace di vita creativa e autentica.
Questo autore ha anche il merito di aver definito il senso e la natura
dell’oggetto transizionale, che il bambino sceglie per rimediare in
qualche modo alla separazione dalla madre.
Importante è anche la riflessione sul ruolo del padre: secondo Winnicott,
egli rappresenta un fondamentale protettore della coppia madre-
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bambino e, in un’epoca successiva, l’apportatore di importanti novità
nel mondo del figlio, dato che a lui appartiene la “vivacità della strada”.
Soprattutto il primo di tali ruoli è sottolineato anche da Bowlby, che
pure evidenzia come nella società occidentale il padre sia più spesso un
compagno per giochi attivi sul piano fisico e un narratore di favole, ma
solo raramente abbia un ruolo vicariante la funzione materna. Una
importante sintesi sull’argomento è contenuto anche in un lavoro di
Capuzzo, Panti e Resta (in Lanzi et alii, 1994): questi autori
puntualizzano, riprendendo indirettamente un’idea già espressa da
Winnicott, come il padre sia una persona “diversa” dalla madre, e non
invece, come sembra di intuire scorrendo molta della letteratura, una
seconda edizione dell’oggetto materno.
I più recenti autori di formazione psicoanalitica si sono aperti sempre
più aperti anche ad altre fonti di conoscenza. J. Bowlby ha optato per un
approccio in parte etologico, sottolineando che “tutti noi, dalla culla alla
bara, siamo felicissimi quando la vita è organizzata come una serie di
escursioni, lunghe o brevi, dalla base sicura fornita dalla/e nostra/e
figura/e d’attaccamento”. Con il termine attaccamento egli intende un
legame che è “la risultante di un preciso e in parte preprogrammato
sistema di schemi comportamentali” in forma di richiamo e di
accostamento, teso a mantenere la vicinanza con uno specifico caregiver.
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Egli sostiene che una madre sensibile, accessibile e disponibile nei
confronti del figlio ne farà un bambino “lontano da quell’essere esigente
e infelice che alcune teorie suggerirebbero”, purché le capacità innate del
bambino di approfittare dell’adulto non siano compromesse.
D. Stern ha invece sfruttato l’approccio behaviorista-cognitivista per
creare uno schema dello sviluppo del Sé all’interno e parallelamente alla
relazione madre-bambino, sottolineando l’importanza dell’istinto
materno nel guidare questa alla modulazione sintonica degli stimoli che
giungono al bambino. Contrariamente a quanto sostenuto da Freud e
dalla Mahler, per Stern il lattante non tende all’omeostasi, ma brama
stimoli perfettamente adeguati alle sue capacità e ai suoi bisogni per
numero, intensità e durata.
Concludendo questo capitoletto, va sottolineato come si sia fatto
unicamente un breve cenno ad alcuni concetti, che rappresentano a loro
volta solo alcuni frammenti del pensiero degli autori citati: essi sono
stati scelti tuttavia in base al frequente riscontro degli stessi o di loro
conseguenze nei casi descritti in questo studio.
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1.2. L’affido temporaneo presso istituti
“Nel 1870 la piccola Mary Ellen a New York, picchiata ripetutamente a
sangue dai genitori, viene salvata solo attraverso l’intervento della
Società per la protezione degli animali. Fino alla fine del secolo scorso
non esisteva in Europa una legislazione che tutelasse il lavoro minorile;
a lungo la mortalità infantile è stata considerata uno scotto da pagare
fatalmente; solo con l’inizio di questo secolo sono nati in Europa i
tribunali per i minorenni con compiti di tutela delle fasce infantili e
giovanili e il nostro paese, buon ultimo, li ha istituiti solo nel 1934
privilegiando peraltro, fino all’avvento della repubblica, la parte penale
e amministrativa e non quella civile a difesa del minore” (Ghezzi).
Attualmente, la legge 184/83 costituisce il quadro di riferimento
essenziale per quanto riguarda la possibilità di intervento a tutela del
minore, compresa la possibilità dell’affido temporaneo presso istituti.
Infatti “il minore ha diritto di essere educato nell’ambiente della propria
famiglia” (articolo 1), ma “il minore che sia temporaneamente privo di
un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un’altra famiglia,
possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una
comunità di tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento,
l’educazione, l’istruzione”. La possibilità dell’adozione è invece prevista
solo per situazioni che il Tribunale per i Minorenni giudichi non
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passibili di soluzione affatto o comunque non entro un tempo
ragionevolmente breve.
La soluzione dell’affido temporaneo presso istituti può essere utilizzata
con due finalità:
ξ in situazioni di urgenza, quando l’allontanamento del bambino deve
essere rapido e non è rimandabile; spesso alla base di questa
modalità di accesso all’istituto sta l’applicazione dell’articolo 403 del
Codice Civile (“Intervento della pubblica autorità a favore dei
minori”);
ξ in situazioni di relativa tranquillità, come “ponte” prima di un affido
presso una famiglia o di una adozione; in questo secondo caso, la
scelta si basa sulla necessità di approfondire l’osservazione del
minore (e, in parallelo, della sua famiglia biologica e di quella a cui
gli operatori hanno eventualmente progettato di affidarlo (Ghezzi,
Vadilonga)), fornendogli nello stesso tempo un ambiente dove
affrontare e superare i primi momenti dopo l’allontanamento dai
genitori.
In tutti i casi, il bambino dovrebbe trascorrere un tempo quanto più è
possibile breve in istituto: inoltre, la sua permanenza dovrebbe avere un
limite temporale fissato già nella fase progettuale dell’intervento di
tutela del minore.
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In alcuni casi, la coppia madre-bambino viene congiutamente collocata
presso un istituto: questa situazione può evolvere sia felicemente, con il
recupero almeno della figura materna se non dell’intera coppia
genitoriale, sia negativamente, con la decisione da parte della madre di
abbandonare definitivamente il suo bambino.
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1.2.1. L’abbandono e l’affido eterofamiliare temporaneo
L’abbandono del figlio è la conditio sine qua non perché il Tribunale per
i Minorenni possa procedere a dichiarare lo stato di adottabilità dello
stesso. Si ritiene secondo l’attuale giurisprudenza abbandonato il minore
che subisce una sensibile e grave riduzione delle cure materiali e morali
a lui normalmente dovute, con la conseguenza di un danno psicologico e
al peggio anche biologico al suo sviluppo. Il punto fondamentale è
sempre la tutela dell’interesse del minore: questo ha diritto di crescere
nella sua famiglia, purché essa sia in grado di assicurargli quel minimo
di cure morali e materiali a lui necessarie. Se tali cure vengono meno per
un tempo limitato, l’affido eterofamiliare è una soluzione certamente
percorribile, purché essa non mascheri una sorta di adozione non
legalizzata basata su una condizione di affido appunto ma priva di
termine (cfr. ad esempio le sentenze del Tribunale per i Minorenni di
Catania datata 5 aprile 1984 e di Cassazione civile, sez. I, datata 18 luglio
1989, n. 3354). Inoltre la condizione di forza maggiore che sostiene la
possibilità di un legittimo affidamento eterofamiliare non giudiziale
deve essere indipendente dalla volontà dei genitori: in caso contrario, si
ha materia per aprire una procedura finalizzata alla dichiarazione dello
stato di adottabilità. Inoltre non ricorre condizione di forza maggiore se
un genitore poteva col suo comportamento vicariare temporaneamente
l’altro, unico impedito veramente da cause indipendenti dalla sua
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volontà a prestare le adeguate cure al figlio (come precisato dalla
sentenza della Cassazione civile, sezione I, datata 5 gennaio 1984, n. 19)
La mancata frequenza dei genitori alle visite ai figli provvisoriamente
allontanati dal Tribunale per i Minorenni e collocati presso un istituto
costituisce indice di abbandono, anche se non ne è prova sufficiente e
certa.
Secondo la giurisprudenza e la legge vigente, il minore che sia assistito
da parenti entro il quarto grado non può essere considerato in stato di
abbandono; può essere invece adottato da quei familiari che hanno
stabilito con lui rapporti affettivi intensi e al patto che i genitori non
adempiano ai loro doveri verso il figlio.