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Nel presente elaborato ho cercato di approfondire e analizzare attraverso
la consultazione di una letteratura specializzata e di fonti online affidabili la
costruzione della pace attraverso l’evoluzione del giornalismo con le sue qualità
e i suoi limiti.
Nel primo capitolo si analizza il giornalismo di pace applicato al case
study della guerra in Iraq partendo dalle teorie di due luminari in materia di
studi sulla pace, Johan Galtung e George Lakoff. Riassumendo, entrambi, in
due campi d’azione diversi il primo nelle relazioni sociali e il secondo nella
linguistica cognitiva, sono complementari e convengono in un'unica soluzione
che si avvicina al concetto del two levels game di Putnam: capire l’equilibrio
interno di un soggetto politico è indispensabile per prevedere le sue mosse al di
fuori, nella sua dimensione esterna.
L’importanza di questi modelli all’interno dell’ambito giornalistico è
ripresa dalle teorie della Lynch e Mcgoldrick riguardo i codici deontologici del
corretto giornalista; questo modello, a sua volta, influisce sul lavoro di Lakoff
sul Framing, dove egli afferma che solo attraverso il Reframing, cioè l’utilizzo di
domande mirate che non reiterano il frame precedente si va al centro della
questione. Galtung aggiunge a questo che i giornalisti creativi che vogliono
riformulare la loro analisi dovrebbero farlo con una corretta analisi costi-
benefici.
Nella seconda parte del primo capitolo analizzerò la dicotomia del
giornalismo di pace e di guerra calata nella guerra in Iraq, analizzata in giornali
come il N.Y. Times, il Newsweek e le trascrizioni delle Trasmissioni della
National Public Radio e come il giornalismo di pace secondo Galtung avrebbe
dovuto rappresentarla.
Il giornalismo di guerra per molto tempo è stato concepito come l’unico
modo per descrivere le cronache di conflitto, un giornalismo estremamente
oggettivo basato sulla cronaca e la modifica della percezione della controparte
più debole come cattiva e pericolosa; un modo di far notizia che si focalizzava
solo sugli effetti visibili della guerra (la violenza diretta), e basato sullo scontro
a somma zero da dove non nascono esternalità positive, dove l’invasione
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dell’Iraq è stata considerata l’unica opzione realizzabile dopo la notizia che
aleggiava negli States del presunto programma di riarmo dell’Iraq.
Il giornalismo di pace cerca di scoprire le vere motivazioni che hanno
portato alla formazione del conflitto dando spazio non solo ai presidenti degli
stati, ma si approfondiscono tematiche come le opposizioni, le minoranze, gli
alleati e i manifestanti contrari all’invasione. Inoltre, si dà spazio agli attori
sociali coinvolti nello scontro con i loro problemi e i loro obiettivi.
Le basi teoriche del giornalismo di pace stabiliscono che la
trasformazione dei conflitti presuppone che ciascuna parte abbia almeno un
obiettivo legittimo. Questa visione ritiene che se le parti riescono a trovare un
tratto comune, possano collaborare per migliorare le proprie posizioni.
I giornali avrebbero dovuto considerare alternative all’invasione,
prendendo in esame proposte fatte precedentemente dall’Iraq, dalla Francia,
dalla Germania e dalle Nazioni Unite, tenendo conto del fatto che la soluzione
più scontata sarebbe stata l’invasione.
Grazie alla trasparenza nei conflitti si soddisfa il diritto dei cittadini a
sapere come i soldi delle loro tasse vengano spesi: è compito dei veri giornalisti
insistere sulle preoccupazioni dei cittadini nei confronti delle scelte di governo.
La scuola della trasformazione dei conflitti cerca di favorire la
comunicazione e il dialogo quanto più possibile tra le parti. Galtung, tuttavia, è
particolarmente attento a non spingere le parti a collaborare anzitempo.
Piuttosto, inizia a lavorare con ciascuna parte individualmente in modo che
possa comprendere appieno quali siano le proprie necessità e la propria
posizione all’interno di un conflitto. I giornalisti negli Stati Uniti dovrebbero
promuovere un dialogo su quali realmente siano le esigenze degli Stati Uniti e
quale sia il modo migliore per il loro soddisfacimento.
L'umanizzazione di tutte le parti e la prevenzione dei conflitti sono
due ulteriori obiettivi. Si è parlato di umanizzazione con la scoperta degli episodi
di tortura di Abu Ghraib, ma molto di più dovrebbe essere fatto per umanizzare
ed entrare in empatia con le vittime. Un altro vuoto giornalistico esiste nella
copertura dei reduci, in gran parte ignorati dai media mainstream, che vengono
solitamente presentati in forma di statistiche per conteggio del numero di arti
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amputati, dei gravi casi di stress post-traumatico o altri effetti negativi; la
copertura dei soldati di ritorno come persone piuttosto che come semplici
numeri è stata fatta dalla rete che li ha caratterizzati di una caratteristica
comune primaria: essere delle persone che si sono sacrificate per i propri ideali.
La prevenzione della guerra è molto ardua da compiere poiché i
manifestanti contro la guerra e le ipotetiche proposte di pace avrebbero dovuto
ricevere una copertura maggiore e soprattutto maggiormente approfondita.
Il secondo capitolo tratta l’evoluzione dell’inviato di guerra nel corso dei
secoli, l’inviato di guerra partiva dalla sua patria come testimone oggettivo di un
evento già iniziato, oggi gli inviati arrivano nei territori dello scontro prima dello
scoppio del conflitto, ma comunque i problemi degli inviati sono rimasti
pressoché gli stessi: certificare la veridicità della fonte, in clima di anarchia
bisogna riconoscere le autorità nascoste e riconoscere le censure impercettibili.
Si analizza la figura di William Howard Russell, il primo vero
corrispondente contemporaneo e, il primo a criticare apertamente le scelte della
sua madrepatria, egli dovette patire la prima censura da parte del generale
Codrington che vietò per la prima volta del 1856 la pubblicazione di qualunque
notizia che possa essere utile agli scopi del nemico.
Dalla prima guerra mondiale la libertà degli inviati di guerra fu molto
limitata, poiché i loro articoli vennero tutti controllati e scremati, i politici si
resero conto che le cronache dure degli inviati facevano apparire la guerra
denudata dei suoi valori patriottici ed eroici aumentando le paure degli elettori.
Dalla guerra del Vietnam in poi, le cronache si faranno testimoni di tutti i
maltrattamenti subiti dai civili da parte dell’esercito americano, svelando le
menzogne delle coperture ufficiali; rappresentando un punto di rottura nel
modo di fare giornalismo, che sta dentro il conflitto, non intorno.
Tratterò figure che hanno segnato il giornalismo nostrano in varie
decadi: Indro Montanelli, Oriana Fallaci e Tiziano Terzani. Il modo di far notizia
di Montanelli si caratterizzava da un’estrema oggettività e obiettività, la Fallaci,
fu la prima donna reporter che ebbe successo, con il suo stile soggettivo e
personale puntava alla totale immedesimazione del fruitore con il giornalista
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testimone dell’avvenimento. Terzani nella sua copertura del Vietnam si schiera
dalla parte dei Vietcong, additando gli americani di aver iniziato una guerra
senza vere motivazioni; il suo scrivere non punta all’obiettività assoluta, ma è
onesto poiché solo addentrandosi nelle situazioni sempre in maniera
leggermente distaccata, si raggiunge quest’obiettivo.
In seguito, ho sottolineato come nel 1990 la copertura mediatica della
Guerra del Golfo diventa non-stop grazie alla CNN, questo non significa che le
notizie erano oggettive ma parziali piene di sensazionalismi e propinanti falsi
miti come il vecchio modo di fare giornalismo d’inizio ottocento. In questa
guerra per i giornalisti si riapre un periodo buio di libertà, viene usata la
censura alla fonte attuata dai militari che scelgono i giornalisti e i materiali da
inviargli.
Il cuore del secondo capitolo tratta la ricezione delle opinioni pubbliche
europee di due grandi guerre degli ultimi quindici anni: il Kosovo e l’Afghanistan
unito all’11 settembre. In Kosovo la considerazione dei rifugiati albanesi come
vittime “dignitose e innocenti” e, la visione di Milosevic come unico colpevole da
parte della NATO hanno inizialmente influenzato i media internazionali; i media
scandinavi si sono fidati sempre meno dei comunicati stampa emessi da
Bruxelles, interessandosi ai gruppi etnici colpiti dal conflitto balzato alle
cronache dopo l’omicidio di 8.000 civili a Srebrenica.
Lo studio di queste vicende l’ho voluto incentrare nell’analisi di quattro
quotidiani stranieri di Norvegia, Svezia, Grecia e Regno Unito, da questi ho
riassunto tre vedute differenti del conflitto: per la NATO Milosevic doveva
essere assolutamente fermato, la Jugoslavia sosteneva che la NATO l’avesse
attaccata poiché filoamericana e la critica delle parti afferma che le scelte
militari sono sbagliate senza toccare le cause del conflitto. La stampa svedese è
quella più obiettiva rispetto a quella norvegese e inglese poiché si accerta
approfonditamente dei risultati insoddisfacenti delle azioni NATO, ma solo le
testate greche arrivano a trattare i problemi di legalità di quest’ultima.
Dopo la caduta del World Trade center, l’occidente si sente ferito e nella
ricerca dei suoi mille perché inizialmente s’identifica con le sue vittime;
successivamente, scoperti i presunti legami dei terroristi con Al-Qaeda, si voleva
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evitare di dare un’immagine dei musulmani complici in atti di terrorismo. Nei
reportage televisivi degli inviati nelle città afghane e nelle foto a mezzo stampa,
i musulmani come una collettività coesa sono individuati come disperati,
aggressivi e irrazionali. Essi sono descritti come pieni di odio verso gli Stati
Uniti. I quotidiani europei erano a favore del successivo contrattacco
statunitense in Afghanistan, ma nel corso del tempo hanno criticato l’America
per la loro spettacolarizzazione dell’evento arricchito da pathos e notizie parziali.
Il terzo capitolo riguarda uno studio approfondito del trattamento dei
giornalisti in luoghi di conflitto e dei case studies del 2011 riguardo luoghi
offlimits per il giornalismo. Mi avvalgo di varie statistiche di Reporter Senza
Frontiere e dell’evoluzione delle convenzioni di Ginevra e di statuti internazionali
in materia. RSF nelle sue analisi visualizza come dal 2003 a oggi, avvalendosi di
una media, sono morti sessantaquattro giornalisti l’anno, il doppio rispetto al
settennio precedente 1995 – 2002, inoltre, lo sviluppo della Primavera Araba
nell’ultimo anno ha localizzato le vittime in Medio Oriente, nel Maghreb e in
Pakistan, dove la censura e i giornalisti sotto inchiesta sono un leitmotiv.
La guerra in Iraq del 2003 è stata uno spartiacque che ha causato un
riscaldamento del clima politico generale mediorientale, per gli inviati, fare la
copertura mediatica della guerra sta diventando un’attività sempre più
pericolosa.
Gli attentati improvvisi con gli ordinari pericoli negli scontri armati uniti
all’utilizzo di munizioni intelligenti, annullano le difese dei giornalisti; dagli ultimi
scontri in area è chiaro che le testate si occupano più di vincere “la battaglia
delle immagini” più che del rispetto della sicurezza dei professionisti.
Proseguendo nella trattazione si classificano i giornalisti secondo il diritto
internazionale (non è prevista una legislazione a favore della categoria che
viene accorpata al gruppo dei civili) e la dottrina giornalistica in sé che aggiunge
oltre ai giornalisti accreditati e ai freelance (trattati nel diritto) la categoria degli
stanziali e degli embedded. In materia si tutelano anche gli strumenti del lavoro
dei giornalisti considerati solo se non sono obiettivi militari, però oggetti civili
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usati con scopi militari come mezzi di trasporto o immobili perdono lo status
privilegiato.
Nella parte centrale del terzo capitolo tratto approfonditamente la
classificazione degli inviati analizzando il ruolo dell’embedded, dei freelance e
dei semi-controllati.
Ho analizzato il documento dell'Ufficio Affari Pubblici del Dipartimento di
Difesa Americano del 3/02/2003, dove sono delineate le linee guida per inserire
gli operatori embedded all'interno delle truppe militari americane; la
caratteristica che differenzia gli embedded dagli altri è che la loro compresenza
con le truppe cancella le protezioni delle Convenzioni di Ginevra. I primi
embedded americani erano sottoposti a molti controlli, poteva succedere che
fossero espulsi per aver costruito dei servizi con contenuti segreti delle truppe.
La figura del freelance, il giornalista multicanale che segue la notizia per
una volontà personale è analizzata partendo dalle sue caratteristiche moderne
seguendo la notizia sotto tutti gli aspetti per venderla alle aziende mediatiche
interessate, siano esse emittenti televisive, radiofoniche, testate giornalistiche o
siti web, adattando l'informazione al tipo di medium.
Nella parte finale mi occupo del giornalismo alternativo tramite gli esempi
di PeaceLink e il Citizen Journalism.
Ho voluto inserire approfondimenti riguardo l’associazione PeaceLink
poiché mi pare una bella realtà del giornalismo civile italiano fondata su una
rete di associazioni pacifiste per creare informazione dalle periferie sfruttando i
nuovi mezzi di comunicazione permettendo la delocalizzazione delle redazioni. I
fondatori dell’associazione si rendono conto che gli individui nella società sono
succubi della notizia convenzionale diffusa da tutti i media, così all’utente che
vuole smascherare la notizia dagli espedienti giornalistici, gli viene data la
possibilità di pubblicare un articolo personale di critica o di analisi nel sito.
Anche il Citizen Journalism usufruisce dello sviluppo delle nuove
tecnologie come i blog e le notizie wiki-based, ma a differenza del giornalismo
civile cerca di sviluppare una storia concreta. Progetti “creativi” di CJ utilizzano
tecnologie più affidabili, come audio- video con firma digitale, strumenti online
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per la pubblicazione e l'accesso a storie come protocolli di autenticazione per
limitare chi può presentare o modificare il contenuto.
Nell’ultimo capitolo sono state prodotte varie interviste a vari “operatori”
della divulgazione di un'informazione sana. Avrei voluto realizzarne altre per
avere ulteriori prestigiosi contributi. Ma contattarli non è stato facile. Dopo tutto
il loro mestiere li porta a non stare mai fermi, e quindi li ringrazio tutti, sia
coloro che mi hanno concesso del loro tempo prezioso sia chi non ce l’ha fatta.
Per me è stata un’esperienza impegnativa: difficile mettere per iscritto
sensazioni provate ed emozioni scaturite dai racconti di vita letti o ascoltati
direttamente dalla voce di chi la vita e la morte l'ha vissuta per anni. Ascoltare e
leggere le loro parole mi ha trasmesso emozioni davvero intense. Emozioni che
spero di riuscire a trasmettere a chi leggerà questo lavoro.
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CAPITOLO 1
Teorie e applicazioni del giornalismo di pace
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Questo progetto di tesi presenta un’analisi approfondita del giornalismo
di pace, il cui obiettivo è analizzare come caso di studio la copertura mediatica
statunitense della guerra in Iraq.
In primo luogo si esporranno alcuni principi fondamentali di studio sulla
pace, più specificamente di Johan Galtung e George Lakoff, applicando poi le
loro teorie ad un’analisi approfondita che indagherà le modalità con cui la
guerra in Iraq è stata tratta dai media americani e quindi proposta al pubblico
di lettori e spettatori.
Johan Galtung, fondatore del campo di studi sulla pace, identifica i temi
della pace e della sicurezza, secondo il quale l’opinione pubblica dovrebbe
interiorizzare tali concetti, organizzando, a partire da questi, la comprensione
del conflitto e della violenza. George Lakoff, linguista cognitivo, ritiene che ci
siano due telai concorrenti che disciplinano la politica americana e che
influenzano la politica mondiale: il frame della “protezione parentale” e del
“padre severo”.
Nella “protezione parentale” il rapporto sano tra genitori (con eguale
importanza tra padre e madre) e figli è basato su valori comuni, rispetto
reciproco e fiducia, i quali producono uno stato socialdemocratico equivicino a
tutte le società interagenti protette da libertà civili; secondo Lakoff nella misura
in cui la politica interna è basata su questi principi, la politica estera segue
quella interna puntando alla cooperazione intergovernativa e alla estensione
della stessa
1
. Tale teoria riprende il “Two levels game” di Putnam
2
stabilendo
che l’equilibrio interno di un Paese è fondamentale per la previsione di eventuali
derive antidemocratiche che seguirebbero il frame del “padre severo
3
”. Questo
frame è caratterizzato dall’assunto secondo cui “il mondo per sua natura è
maligno” ed influisce sul bambino che deve essere reindirizzato da un
capofamiglia rigido, il quale cancellando il dono materno ed esaltando
l’individualismo del figlio, concepisce le relazioni con il prossimo solo sottoforma
1
Lakoff, G., 2004, Non pensare all’elefante, Fusi orari, Roma.
2
Putnam, R., qui vuole affermare che la politica estera e interna mai devono essere trattate
come due compartimenti stagni poiché s’influenzano a vicenda.
3
Lakoff, G., 2004, Non pensare all’elefante, Fusi orari, Roma.