6
interrogativi e nuovi dubbi, hanno azzardato nuove teorie e
presentato nuovi punti di vista riguardo ad un'istituzione che,
sebbene peculiare del sud prebellico, ha profondamente
influenzato l’intera società americana.
1
Ormai non è più un segreto per nessuno che il
progresso e la ricchezza che gli Stati Uniti raggiunsero in
breve tempo dopo la colonizzazione furono dovuti in buona
parte al lavoro degli schiavi neri; ma che tali progressi fossero
stati raggiunti attraverso un’istituzione quantomeno
discutibile, ha amareggiato non pochi studiosi della questione.
In realtà i colonizzatori europei (fossero essi
conquistadores o esuli delle guerre di religione) cercavano nei
nuovi territori soprattutto il profitto economico: essi avevano
perciò la necessità di far lavorare la terra in modo proficuo da
braccia che non fossero quelle dei lavoratori bianchi (non
facilmente reperibili e disponibili ad attraversare l’Atlantico in
quantità sufficienti). Questa era la peculiarità della schiavitù
negli Stati del sud degli USA: la creazione di un sistema
schiavista basato strettamente su di una razza. A ben
considerare infatti, la schiavitù in se’ e per se’ non era una
novità, ma era nota sin dall’antichità; e fu più che naturale che
1
Cfr. Monroe Lee Billington, The american south: a brief
history, New York, Scribner, 1971, p.91.
7
i proprietari terrieri statunitensi pensassero di far ricorso ad un
sistema lavorativo applicato ormai da secoli, e con profitto,
nel vecchio continente. In effetti esiste un unico filo
conduttore che lega il regime schiavista statunitense a quello
diffuso già nell’antichità romana
2
; lunghi secoli durante i quali
poco era stato fatto, anche da parte di un’istituzione come la
Chiesa, per promuovere un’immagine immorale della
schiavitù. In questo senso, il ruolo svolto dalla Bibbia non è
stato favorevole in quanto ha perpetuato per secoli
l’immagine della schiavitù come istituzione lecita e comune.
Basta poi pensare che la Bibbia è stata il testo che ha avuto il
maggior ruolo nel plasmare l’atteggiamento e la mentalità
europea ed americana fino ad almeno il XIX secolo (anche
per quanto concerne la schiavitù) per farsi un’idea appropriata
del ruolo deleterio da essa svolto in questo senso.
L’obiettivo principale dei proprietari terrieri era quello di
forzare gli altri ad effettuare il lavoro fisico in loro vece. Non
riuscendo ad ottenere il livello lavorativo richiesto e
l’obbedienza necessaria dalla massa di lavoratori bianchi, i
colonizzatori decisero di far ricorso al lavoro dei neri. L’Africa
2
Cfr. Sio, “Interpretations of slavery: the slave status in the
Americas”, Comparative studies in society and history, VII,
1965, pp. 289-308.
8
poteva rappresentare un’importante fonte di rifornimento di
forza-lavoro per svariate ragioni: la facile reperibilità degli
schiavi, la familiarità da parecchi di essi raggiunta con
pratiche agricole simili a quelle europee, l’impossibilità di
ribellarsi ai maltrattamenti (nell’ambito di un Paese straniero,
lontani migliaia di miglia da casa), il colore della loro pelle che
forniva un aiuto alla loro identificazione e che sembrava
fornire la chiave della perfetta disciplina nelle piantagioni.
La schiavitù della razza nera divenne ben presto parte
integrante della logica economica della colonizzazione e
mezzo per risolvere il problema della carenza di forza-lavoro.
E nel contempo, il “marchio” del diverso colore della pelle
degli schiavi divenne anche il segno della loro inferiorità e
sottomissione.
Sembra ormai assodato che, fin dall’arrivo dei primi
lavoratori di colore, si attribuì loro lo status sociale di esseri
inferiori (quindi prima dell’evoluzione del sistema schiavista);
ne troviamo una facile conferma nel fatto che un simile
trattamento fu riservato anche agli Indiani d’America, mentre i
lavoratori bianchi hanno da questo punto di vista goduto
sempre di diritti e concessioni privilegiati. Una volta poi che i
pregiudizi e le discriminazioni razziali vennero incorporate
nelle leggi (leggi che oltretutto favorivano e tutelavano un
9
sistema lavorativo che era la colonna portante su cui si
basava l’economia del Paese), il divario tra le due razze si
andò sempre più accentuando tanto da diffondere in alcuni
momenti l’idea che all’uomo di colore spettasse veramente lo
status di essere inferiore ( questa tesi fu appoggiata da
Tennenbaum, Elkins, Freyre e Klein).
3
Infine, una diversa scuola di pensiero, sostenuta da
Williams, Harris e Davis, si oppone a quella precedentemente
descritta e mette in evidenza le similitudini nella natura del
sistema schiavista degli Stati sudisti degli USA e dell’America
del sud: la tendenza comune allo sfruttamento ed alla
crudeltà porta tali autori a negare o almeno a minimizzare le
differenze riguardo al trattamento degli schiavi nei differenti
Paesi.
4
3
Cfr. Charles Degler, “Slavery and the genesis of american
race prejudice”, Comparative Studies in society and history II,
(Ottobre 1959), pp.49-62/65-66 citato in AA.VV. Black History:
a reappraisal, a cura di Melvin Drimmer, Garden City, New
York, Doubleday, 1968, pp.77-96.
4
Cfr. Eugene D. Genovese, The world the slaveholders
made: two essays in interpretation, New York, Pantheon
Books, 1969, pp.9-11.
10
Quel che è certo è che l’istituzione della schiavitù diede
al sud, come sostiene Genovese
5
“a special way of life
because it provided the basis for a regional social order in
which the slave labor system could dominate all others”.
6
Dalla schiavitù nacque una classe di proprietari terrieri
dall’ideologia del tutto peculiare in possesso della potenza
politica ed economica necessaria per affermare i propri valori
ed imporli all’intera società. Da questa questione ne discende
un’altra che ha da lungo tempo appassionato gli storici e cioè
se la Guerra di Secessione fosse un conflitto inevitabile a
causa del processo di sviluppo dell’istituzione della schiavitù
(come sostengono i tradizionalisti)
7
, o se essa avrebbe
potuto essere evitata con un minimo sforzo (la tesi dei
5
Eugene D. Genovese, The political economy of slavery:
studies in the economy and society of the slave south, New
York, Pantheon Books, 1965, p.4.
6
“Un sistema di vita del tutto speciale in quanto su di esso si
basava un ordinamento sociale regionale nel quale il sistema
imperniato sul lavoro degli schiavi giunse a predominare su
tutti gli altri”.
7
Cfr. per esempio Arthur Charles Cole, The irrepressible
conflict 1850-1865, New York, The Macmillan Company,
1969.
11
revisionisti). Un’ altra questione che ne deriva riguarda la
redditività del sistema schiavista.
8
1.2 Il background degli schiavi neri statunitensi
Agli albori del XVI secolo molti fattori contribuirono a
rendere l’Africa un’eccellente fonte di forza-lavoro per le
colonie del nuovo mondo; i lavoratori di colore sembravano
essere più efficienti e “convenienti” di quelli bianchi e gli
Europei non erano contrari al traffico e all’utilizzo di schiavi.
Dobbiamo innanzi tutto smentire uno dei più diffusi “miti”
concernenti la società africana: i mercanti di colore furono
numerosi e non risulta che si facessero alcuno scrupolo
quando si trattava di guadagnare soldi sulla pelle dei propri
compagni neri. E’ quindi errata la visione, peraltro a lungo
sostenuta, secondo la quale gli Africani furono ingannati e
depredati a causa della loro ingenuità. Molte società
dell’Africa occidentale non condannavano inoltre il lavoro
forzato e non la ritenevano una pratica illegale: erano anzi
8
Cfr. Eugene D. Genovese, The political economy of slavery,
New York, Pantheon Books, 1965, pp. 3-10.
12
solite arrogarsi il diritto di vendere criminali, avversari politici e
prigionieri di guerra.
9
Come sostiene Frazier
10
negli Stati Uniti si è ritenuto per
lungo tempo che gli schiavi giunti sul nuovo continente
fossero originari delle parti più interne dell’Africa.
Recentemente Herskovits
11
ha rivisto tali studi ed identificato
con maggiore precisione la provenienza di circa 25.000 dei
45.000 schiavi importati dall’Africa: secondo questo studioso
l’area da cui derivava la maggior parte degli schiavi
comprendeva perlopiù Stati costieri come la Costa d’Avorio,
la Nigeria, il Congo, l’Angola ed il Gambia. Col XIX secolo e il
diffondersi dell’abolizione della schiavitù in molti Paesi
europei non rimase che il Portogallo a praticare il commercio
di schiavi da trasportare illegalmente negli USA.
La maggior parte dei neri deportati dall’Africa
nell’America del Nord proveniva dunque dalla costa
9
Tutto questo avrebbe portato nei secoli successivi ad un
circolo vizioso di guerre intraprese per ottenere prigionieri da
rivendere poi in qualità di schiavi, ma per il momento
rappresentava per i mercanti di schiavi una cospicua fonte di
guadagno.
10
Cfr. Edward F. Frazier, The negro in the United States, New
York, Macmillan, 1957, p.4.
11
Melville J. Herskovits, The myth of the negro past, Harper
and Brothers, 1941, pp.35-53.
13
occidentale, mentre altri venivano catturati nell’interno del
continente e trasportati in seguito sulla costa. Molti popoli
dell’ Africa occidentale avevano sviluppato elaborati sistemi di
agricoltura ed una divisione del lavoro. Alcuni (come i
Dahomey) presentavano un sistema basato sulle piantagioni:
perlopiù i popoli indigeni non avevano bisogno di stranieri che
insegnassero loro i principi base dell’agricoltura poiché
possedevano tecniche avanzate ed un’efficiente
organizzazione economica ed inoltre essi pare fossero
abituati a lavorare duramente.
12
Presso molti popoli indigeni vi erano piantagioni
demaniali coltivate da squadre di schiavi sotto il controllo di
sorveglianti il cui scopo era quello di massimizzare la
produzione. L’istituto del lavoro obbligatorio per il risarcimento
di debiti era molto diffuso. I Nupe ridussero in schiavitù
migliaia di genti delle più primitive tribù della Nigeria
settentrionale; gli Ashanti praticavano un’agricoltura
sistematica; gli Ibo della Nigeria sudorientale ottenevano dal
lavoro degli schiavi numerosi ed importanti prodotti agricoli.
12
Questo tema si ricollega al dibattito concernente la validità
del lavoro dei neri nel settore agricolo negli Stati Uniti. Cfr.
cap.3.
14
Alcune tribù (come quella dei Bobo), pur non praticando
la schiavitù, disponevano di un proprio efficiente sistema
agricolo. L’economia africana quindi, pur essendo più
arretrata di quella europea, dimostrava una discreta vitalità e i
popoli indigeni erano in grado di utilizzare ed assimilare
tecniche che ne permettevano e ne garantivano la
sopravvivenza.
Per molti aspetti, la schiavitù praticata in Africa era
diversa da quella statunitense: ad esempio i padroni non
avevano il diritto di esercitare alcun controllo sul surplus
economico prodotto dagli schiavi e questi ultimi lavoravano
dunque anche per se stessi. Non si intendeva quindi con il
termine schiavitù uno stato di sfruttamento, ma
l’appartenenza ad un rango sociale inferiore e quindi
sottoposto alla volontà del padrone.
Se ne può dunque concludere che, sebbene avvezzi da
lunga data al lavoro agricolo, i popoli dell’Africa occidentale
trasferiti come schiavi da un padrone africano ad un padrone
europeo subivano un radicale cambiamento nella natura e
nell’entità dei loro obblighi.
La schiavitù americana rappresentava per molti versi “a
distorted continuation of the various forms of collective labor
15
common to Africa”.
13
Anche laddove la schiavitù assumeva le
sue forme più mitigate, essa era infatti molto più brutale e
dura di quella praticata in Africa e assomigliava sempre più
un’istituzione tendente a scatenare potenti forze che mirano
allo sfruttamento di uomini e risorse.
14
In Africa al contrario,
sembra che gli schiavi godessero almeno dei più elementari
diritti come quello di sposare anche degli individui liberi, di
possedere delle proprietà e di ottenere in alcuni casi la
liberazione.
15
Un atteggiamento che i neri sembravano aver ereditato
dai metodi lavorativi in vigore nella madrepatria era la
tendenza al lavoro collettivo che si evidenziava nella
prontezza ad aiutarsi l’un l’altro durante il lavoro nei campi.
Addirittura essi preferivano talvolta un lavoro più gravoso,
purché in compagnia, ad un lavoro più leggero da effettuare
da soli.
16
13
Una continuazione distorta delle varie forme di lavoro
collettivo comune a tutti i popoli africani. Cfr. Herskovits, op.
cit., p.161.
14
Cfr. Genovese, The political economy of slavery, pp.80-81.
15
Cfr. August Meier e Elliot M. Rudwick, From plantation to
ghetto: an interpretative history of american negroes, New
York, Hill and Wang, 1966, p.25.
16
Cfr. Eugene D. Genovese, Roll Jordon Roll: the world the
slaves made, London, p.323.
16
Nella loro devozione ai legami familiari (oltre che in altre
abitudini come il feticismo e la medicina basata su di esso e
sulla magia, nonché i metodi di procedura legale ben
progettati e rigidamente applicati)
17
, gli uomini e le donne di
colore affermavano il valore delle tradizioni e degli usi portati
con sé dalla madrepatria. Inoltre fra di essi permanevano
degli schemi lavorativi prettamente africani.
In qualità di membro delle società agricole tradizionali,
la donna africana aveva un ruolo fondamentale nell’ambito
domestico. In alcune tribù tuttavia ella era impegnata in lavori
agricoli pesanti e monotoni oltre che a badare ai figli ( ciò
significava che esse erano sovente costrette a portare con se’
nei campi i piccoli da allattare). Ella era inoltre solita coltivare
le verdure dell’orticello e mungere le mucche.
Gli Africani occidentali contribuirono a diffondere delle
pratiche e degli usi agricoli che i loro proprietari prontamente
sfruttavano: alcune tribù avevano una certa familiarità con la
coltivazione del riso, del cotone e dell’indigofera. Alcune
donne erano abili nel ricamo, nel filato e nel cucito; inoltre gli
schiavi di frequente facevano uso di tecniche e di attrezzi
17
Cfr. Washington Booker Taliaferro, The story of the negro:
the rise of the race from slavery, New York, Negro University
Press, 1969, 1° vol., pp. 67-71.
17
tramandati dai loro antenati (per esempio nel modo di
piantare, zappare e coltivare il riso). I proprietari bianchi
sembravano apprezzare l’abilità con la quale, secondo l’uso
africano, le schiave portavano in equilibrio sul capo pesi a
volte anche notevoli.
E’ tuttavia difficile stabilire l’esatta divisione del lavoro a
seconda del sesso nel lavoro agricolo e gli effetti dell’eredità
africana su di essa perché esistevano notevoli variazioni tra le
diverse tribù a questo riguardo: nella tribù Ibo uomini e donne
collaboravano nel corso della semina, della sarchiatura e
della raccolta delle messi, mentre fra gli Yoruba le donne
contribuivano solo alla raccolta; nell’Africa sub-sahariana le
donne erano dedite al dissodamento del suolo, alla
coltivazione e al raccolto, mentre il taglio della legna ed il
trasporto del legname si ritiene fossero considerati un lavoro
da uomini. In ogni caso, è evidente che le donne di colore
lavoravano spesso nei campi tanto che si è ritenuto che ciò
facesse parte del bagaglio di obblighi e di tradizioni che gli
schiavi portarono con sé dal continente africano.
18
18
Cfr. Jacqueline Jones, Labor of love, labor of sorrow: black
women, work, and the family from slavery to the present, New
York, Basic Books, 1985, pp.39-40.
18
1.3 La tratta degli schiavi
Il fenomeno della schiavitù non nacque con la
colonizzazione del “nuovo mondo”, ma era ad essa
precedente: in effetti gli Europei (i primi furono gli Spagnoli ed
i Portoghesi), già nel XIV secolo, si erano creati una fitta rete
di contatti con la costa occidentale dell’Africa e con i mercanti
di schiavi (che, come già puntualizzato, erano essi stessi
africani) allo scopo di procacciarsi della manodopera
efficiente da sfruttare per svariati lavori. Come è ormai noto a
molti, essi erano soliti giustificare tale loro comportamento
adducendo la scusa che gli indigeni avrebbero potuto in tal
modo liberarsi del loro oscuro ateismo ed aprire il cuore al
cristianesimo.
Non fu che una normale conseguenza il diffondersi di
tale istituzione anche in America: gli Europei trassero sempre
profitto dal contributo dei lavoratori di colore nel corso dello
sfruttamento del nuovo continente. Dapprima essi si
avvalsero dell’aiuto degli Indiani, ma, dato lo scarso numero
di questi ultimi rispetto alle esigenze dei padroni e la facilità
con la quale andavano soggetti alle malattie portate dagli
Europei, nonché la loro fibra poco resistente al duro lavoro
delle piantagioni, ben presto si rivolsero ad altre fonti per
19
ottenere una manodopera più efficiente. Talvolta si ricorreva
al lavoro degli Europei bianchi, che con qualsiasi mezzo (a
volte volontariamente, talvolta col rapimento o in qualità di
prigionieri) venivano ridotti in schiavitù. Tuttavia le loro
ribellioni e la loro indolenza, oltre alla ferma coscienza dei
propri diritti, li resero dei cattivi lavoratori agli occhi dei
padroni. Essi ebbero quindi l’idea di sfruttare il lavoro degli
schiavi di colore, individui più sottomessi, passivi ed indifesi,
che potevano essere acquistati e il cui lavoro poteva durare
tutta una vita e risultare alla lunga più conveniente.
La competizione nell’ambito della tratta degli schiavi era
accanita, non soltanto tra le diverse nazioni, ma anche tra
diverse compagnie nell’ambito dello stesso Stato. Nel XVIII
secolo l’Inghilterra riuscì a strappare all’Olanda l’egemonia
nel commercio degli schiavi (quest’ultima l’aveva a sua volta
tolta ai portoghesi) e riuscì ad ottenere il più completo
dominio sul continente americano. Si trattò di un notevole
successo dato che la tratta degli schiavi e la schiavitù sono
stati due fattori che hanno permesso lo sviluppo dell’industria,
del commercio e delle attività finanziarie in Europa.
I primi neri sbarcarono sul continente americano
all’inizio del XVI secolo. La diffusione della coltivazione della
canna da zucchero introdotta dal Brasile permise un cospicuo