2stabilità dei prezzi, la banca centrale statunitense ha responsabilità fondamentali
nel promuovere l’adeguato funzionamento del sistema finanziario nazionale. La
Fed si sforza di accomodare le variazioni di breve periodo nella domanda di
moneta e di credito, che inevitabilmente sorgono in una complessa economia di
mercato. Essa, inoltre, monitora un’ampia serie di variabili finanziarie, e reagisce
quando queste ultime sembrano indicare che le condizioni del credito si stanno
discostando dal sentiero fissato per il raggiungimento degli obiettivi di politica
monetaria.
La Federal Reserve coopera con il Tesoro nella realizzazione di operazioni di
scambio con l’estero. Tali azioni, però, vengono solitamente condotte per
controbilanciare gli effetti destabilizzanti dei flussi internazionali di capitali,
piuttosto che per influenzare le condizioni della moneta e del credito a livello
nazionale.
II. Le pressioni politiche sulla banca centrale
Vista l’enorme rilevanza dei compiti ad essa attribuiti, la banca centrale U.S.A.
rappresenta un importante centro di potere, in grado di influenzare, come
nessun’altra burocrazia nel mondo, le condizioni dell’economia nazionale e
internazionale.
Esiste un notevole interesse, nella letteratura economica, in merito alle relazioni
che intercorrono tra i processi politici e i risultati macroeconomici, in particolare
nell’area della politica monetaria. Questo campo di studio si è sviluppato,
essenzialmente, nel corso degli ultimi trent’anni. Infatti, durante gli anni sessanta, i
policymakers monetari venivano visti come soggetti indirizzati, esclusivamente,
alla scelta del punto di ottimo, relativamente ad un’ipotetica funzione del
benessere sociale, in un ambiente teorico dominato dal paradigma “curva di
Phillips negativamente inclinata”.
Dopo la rivoluzione rappresentata dall’innesto delle aspettative razionali nella
modellizzazione macroeconomica (anni settanta), divenne chiaro che i guadagni in
termini di occupazione e di output, derivanti dalla riduzione dei tassi d’interesse,
erano esclusivamente di breve periodo e i risultati conseguiti potevano essere
difesi, in una logica di lungo termine, soltanto a spese di un tasso di inflazione
permanentemente alto e in continua accelerazione. Ma se gli aumenti
dell’occupazione, generati da una politica monetaria espansiva, sono solo
transitori, e per di più hanno conseguenze avverse sulla dinamica inflazionistica,
perché i policymakers monetari dovrebbero preoccuparsi di agire in tale direzione?
Numerosi ricercatori hanno concluso che i banchieri centrali perseguono un
obiettivo sub-ottimale, in quanto sono assoggettati ad un considerevole grado di
3pressioni da parte dei soggetti presenti nello scenario politico, e da parte dei centri
di potere generati dal settore privato. Gran parte degli autori, in questo filone di
letteratura, ha dedicato notevole attenzione al ruolo esercitato dai politici
appartenenti all’organo esecutivo e legislativo del Governo federale. Altri si sono
focalizzati sulle potenziali influenze dei numerosi gruppi di interesse rintracciabili
nel settore privato, specialmente nell’industria dei servizi finanziari.
Molti economisti e studiosi di scienze sociali hanno allora prodotto una
ragguardevole quantità di articoli e libri, nel tentativo di modellizzare le influenze
politiche sulle autorità monetarie.
Nel capitolo II cerco di effettuare una rivisitazione della letteratura
sull’argomento, allo scopo di capire se è effettivamente possibile una misurazione
delle pressioni politiche, e nel tentativo di verificare, attraverso un modello multi-
istituzionale e un’analisi delle dinamiche politiche associate alla gestione della
politica monetaria, se tali pressioni hanno un impatto significativo sulle variabili
che ricadono nell’ambito di controllo della politica monetaria.
III. I modelli macroeconomici nel processo di policy-making monetario
Esiste un’evidente interazione tra i policymakers e i modelli macroeconomici
nella formulazione della politica monetaria U.S.A.
Come fanno notare Reifschneider, Stockton, e Wilcox (1997), “…economic
analysis is both a science and an art…”. La scienza entra attraverso l’utilizzo di
tecniche econometriche sofisticate, basate su rigorose teorie. L’arte, invece, per
occuparsi dei difetti della scienza. Il capitolo III rappresenta un tentativo di
descrivere gli sforzi dei policymakers monetari nel miscelare “art” e science” in
modo sensato per supportare le scelte di policy.
Ci sono molti modelli macroeconomici in uso presso il Federal Reserve Board.
Tali modelli vanno dalla gamma delle strutture ad un’unica equazione, che
descrivono il funzionamento di singoli mercati, a sistemi su larga scala, i quali si
occupano di riprodurre il comportamento dell’economia U.S.A. nel suo complesso.
Come verrà argomentato nel corso della trattazione, i modelli trovano impiego
in molteplici attività. Tra di esse, quelle fondamentali sono: la formulazione di
previsioni, le analisi di policy, e la valutazione di regole di politica monetaria.
Un tema centrale, in merito all’utilizzo dei modelli, riguarda il ricorso a
considerazioni “judgmental” negli interventi della banca centrale. Infatti,
l’approccio dei policymakers prevede uno stretto collegamento tra i metodi
algoritmici (“science”), e i giudizi guidati dall’informazione non disponibile
tramite i modelli (“art”).
4In sostanza, i banchieri centrali gestiscono la politica monetaria effettuando
proiezioni, che non hanno come unico input i risultati prodotti dai modelli
econometrici in uso, ma che ricorrono, in modo importante, a considerazioni
basate su prudenza, criterio e giudizio (ovverosia, “judgmental”).
Nel tentativo di superare le difficoltà legate alla scelta del sentiero ottimo per la
policy, le autorità monetarie devono cercare di interpretare in modo corretto
l’enorme massa di informazioni di cui dispongono.
Ma, allora, la sfida decisiva della Fed - rappresentata dalla scelta
dell’atteggiamento di politica monetaria appropriato per bilanciare
opportunamente gli obiettivi di lungo e di breve periodo - può essere vinta solo
grazie alla capacità dei banchieri centrali di ponderare, in modo corretto, le
indicazioni provenienti dai modelli, con quelle ricavate dall’informazione
anedottica.
In una realtà economica complessa, e inevitabilmente caratterizzata da
incertezza, il giudizio dei policymakers deve posizionarsi al di sopra dei risultati
generati dai modelli. Questi ultimi restano un valido strumento di analisi ma, in
determinate attività, il loro impiego comporta notevoli rischi (in termini di esiti
generati, ovviamente). Ecco perché, nella costruzione delle previsioni, viene
assegnata un’importanza notevole ai fattori tipicamente “judgmental”.
IV. L’analisi congiunturale
Nel capitolo IV ricorro all’esperienza rappresentata dalla recessione del 90-91
per illustrare l’utilizzo dei modelli macroeconomici nelle decisioni di policy.
L’analisi delle registrazioni riferite ai meetings del Federal Open Market
Committee, del periodo 1989-1991, rivela che la conduzione della politica
monetaria fa affidamento sui modelli per ottenere l’informazione. Questi ultimi,
infatti, offrono stime, sia relativamente all’outlook economico, sia in merito alle
risposte dell’economia ai cambiamenti di policy.
Lo scopo è evidenziare: (1) il progressivo deterioramento delle condizioni
economiche negli Stati Uniti, (2) le capacità dei modelli di cogliere le evoluzioni
congiunturali e, quindi, (3) le reazioni dei banchieri centrali al flusso di
informazioni raccolte. In definitiva, mi propongo di valutare il peso rispettivo dei
modelli e dei fattori “judgmental”, nell’ambito dell’insieme delle procedure che
hanno condotto il FOMC, prima alla definizione dei singoli interventi e, poi, alla
fissazione di un vero e proprio sentiero obiettivo per le variabili decisive.
L’analisi congiunturale mi permetterà di proporre varie osservazioni sulla
conduzione della politica monetaria negli Stati Uniti, all’inizio degli anni novanta.
5In particolare, sarà interessante cercare di capire se la Fed, nella sua manovra
espansiva, ha effettuato le scelte migliori per incentivare il processo di ripresa e,
ancora più importante, se le azioni di policy sono state effettivamente tempestive
o, piuttosto, erroneamente ritardate da tutta una serie di possibili cause, tra le quali:
1. Un’impostazione della banca centrale troppo rigida e legata, in modo
preponderante, al raggiungimento della stabilità sul fronte inflazionistico.
2. Indicazioni fuorvianti contenute nelle proiezioni generate dallo staff del
Board.
3. Incompletezza e scarsa qualità dell’informazione considerata.
4. Insufficiente peso assegnato all’evidenza anedottica.
Le conclusioni saranno collegate alle recenti evoluzioni dell’economia e della
politica monetaria statunitense, per provare a cogliere gli eventuali miglioramenti
intervenuti nella conoscenza delle relazioni macroeconomiche e nella gestione
della policy da parte dei banchieri centrali.
1Capitolo I
LA POLITICA MONETARIA DELLA
FEDERAL RESERVE
Il Congresso Americano, attraverso il Federal Reserve Act, ha affidato alla
Federal Reserve il compito di condurre la politica monetaria – ovvero la
definizione delle condizioni alle quali moneta e credito sono forniti all’economia.
Scopo di questo capitolo è allora definire le caratteristiche fondamentali della
banca centrale statunitense: la sua struttura, l’organizzazione, il ruolo, e le varie
responsabilità che ad essa competono.
Nella sezione 1.1 effettuo una presentazione dei vari elementi del System
(Board, Reserve Banks, FOMC, banche e comitati), soffermandomi sulle loro
funzioni e attività. Per questa parte, ho fatto riferimento alle informazioni rese
disponibili, anche on line, dal Board’s Publication Committee e dalle varie
Reserve Banks, di cui fornisco accurata descrizione nella bibliografia.1
La sezione 1.2 è dedicata ad un attento esame del mandato della Fed: a tal
proposito, valuto l’evoluzione del mandato (1.2.1), in considerazione dei vari
paradigmi teorici che si sono susseguiti, e poi affermati, a partire dal 1913, anno di
approvazione del Federal Reserve Act (e quindi data di nascita del System).
Quindi, ricavo gli obiettivi della banca centrale (1.2.2), e presento le conclusioni
principali raggiunte nella letteratura sull’argomento. Negli ultimi anni si è
manifestato un grande ritorno di interesse circa il modo di condurre la politica
monetaria. Due fatti principali hanno riportato l’attenzione sul problema.2 Primo,
dopo un lungo periodo nel quale ci si è focalizzati esclusivamente sul ruolo dei
fattori non monetari sul ciclo economico, una serie di lavori empirici, a partire
dalla fine degli anni ottanta, ha dedicato ampio spazio all’influenza della politica
monetaria sull’andamento di breve periodo dell’economia reale. D’altra parte,
1 Vedi, in particolare: Akhatar, 1996; Board of Governors, 1994; Meulendyke, 1998. Il medesimo
materiale è stato ampiamente utilizzato per la realizzazione dei paragrafi 1.3.1, 1.3.2, 1.3.3, 1.4.3,
1.4.6 e per la sezione 1.5.
2 Clarida, Galì e Gertler, 1999.
2ormai c’è ampio accordo sul fatto che la scelta relativa al metodo di gestione della
politica monetaria ha conseguenze importanti per l’output aggregato. Secondo, si è
verificato un considerevole perfezionamento della struttura teorica usata per
l’analisi economica; a questo proposito, un punto chiave è senza dubbio l’esplicita
incorporazione delle frizioni, quali le rigidità nominali sui prezzi, che sono
necessarie per una valutazione realistica della politica monetaria. Proprio le
evoluzioni dal punto di vista conoscitivo spingono tuttora, molti economisti, a
proporre modificazioni del mandato attuale; dedico un paragrafo (1.2.3) proprio
alla discussione delle argomentazioni principali che sono alla base di questi
suggerimenti.
Nella sezione 1.3 passo in rassegna i differenti strumenti di policy a
disposizione della banca centrale statunitense: si tratta delle operazioni di mercato
aperto (1.3.1), dello sconto (1.3.2) e dei requisiti di riserva (1.3.3). Ne espongo le
principali caratteristiche, oltre alle finalità per le quali sono utilizzati. Nel
paragrafo 1.3.4 presento un’analisi relativa al funzionamento del mercato delle
riserve: considero le forze che operano in questo mercato, le condizioni di
equilibrio, e le differenti procedure utilizzabili dalle autorità per influenzare le
variabili monetarie. L’ultimo paragrafo della sezione offre una breve prospettiva
storica sui vari regimi di policy che si sono susseguiti dai primi anni settanta ad
oggi.
La sezione 1.4 fa riferimento alle molteplici relazioni tra interventi di politica
monetaria e variabili economiche. Mi occupo della struttura per scadenze nel
paragrafo 1.4.1: l’obiettivo è analizzare le conseguenze, sulla relazione tra tassi a
breve e tassi a lunga, di differenti impostazioni di policy. Vedremo che la curva dei
rendimenti ci può offrire importanti informazioni circa il livello di attendibilità
raggiunto dalla banca centrale e, quindi, sulle attese del mercato in merito alla
strategia seguita dai policymakers monetari. Poi, offro una trattazione estesa del
meccanismo di trasmissione (1.4.2) e una presentazione delle risposte
dell’economia agli shocks di policy, ottenute dalla letteratura basata sui modelli
VAR (1.4.3). Nel paragrafo 1.4.4 considero gli importanti effetti, sul settore
pubblico, delle decisioni assunte dalla Fed: in altre parole, spiego come i
mutamenti di impostazione della banca centrale (da espansiva a restrittiva, e
viceversa) si ripercuotono sulle scelte, in materia di politica fiscale, del governo
federale e dei governi locali. Il paragrafo 1.4.5 contiene considerazioni in merito ai
principali limiti che contraddistinguono l’attività di monetary policy-making:
penso alla reale capacità di reagire in modo ottimo agli effetti degli shocks
imprevisti, alle difficoltà di controllo del sentiero delle variabili obiettivo, al
problema della raccolta dei dati e della loro affidabilità, alla scelta dello strumento
3di policy (che diviene importante in condizioni di incertezza), e, infine, alla
questione relativa ai ritardi nella trasmissione degli impulsi di politica monetaria.
Vedremo quali conseguenze derivano dalle scelte dei banchieri centrali, e come
questi ultimi possono cercare di massimizzare i risultati, anche in presenza delle
imperfezioni citate. Il paragrafo 1.4.6 muove dalla teoria alla pratica, considerando
una serie di semplici regole per la politica monetaria, quali la “Taylor Rule”, e una
variante forward-looking della medesima, considerata da Clarida, Galì e Gertler
(1999). Vedremo quale meccanismo sarà in grado di catturare al meglio i dati
empirici sui tassi di policy. L’evidenza suggerisce che la politica monetaria
statunitense, nei quindici anni precedenti la presidenza di Paul Volcker, non ha
seguito un’impostazione orientata al mantenimento della stabilità dei prezzi.
Semplicemente, la gestione del tasso, nel periodo in questione, si è rivelata
tendenzialmente accomodante nei confronti dell’inflazione. Sotto Volcker e
Greenspan, la politica monetaria ha invece adottato un implicito inflation targeting.
Dedico poi il paragrafo 1.4.7 alla questione dell’interest rate smoothing: molti
autori hanno suggerito che l’implementazione di un sentiero lisciato per i tassi è
giustificata dalla presenza di uno specifico obiettivo di contenimento della
volatilità dei tassi medesimi, in aggiunta ai due targets classici di stabilizzazione
dell’output e di controllo dell’inflazione; vedremo tuttavia che è possibile
individuare spiegazioni alternative circa la presenza dello smoothing, in grado di
chiarire, il motivo per il quale, la scelta delle banche centrali di muovere i tassi
gradualmente, è giustificabile come politica ottima anche senza l’esplicitazione di
un termine nella volatilità dei tassi, all’interno della funzione di perdita. Nel
paragrafo conclusivo descrivo sommariamente le conseguenze derivanti
dall’utilizzo dei vari indicatori di politica monetaria a disposizione della Fed.
L’ultima sezione (1.5) contiene una sommaria presentazione delle funzioni
basilari della banca centrale all’esterno: l’obiettivo è evidenziare l’importanza dei
rapporti con le istituzioni estere (bancarie e governative), in una realtà
caratterizzata da una crescente integrazione delle economie a livello mondiale.
1.1. Struttura del Federal Reserve System
Il Federal Reserve System rappresenta la banca centrale degli Stati Uniti. Venne
fondato dal Congresso nel 1913, per fornire alla nazione un sistema monetario e
finanziario più sicuro, più flessibile e più stabile. Nel corso degli anni, il suo ruolo
nel settore bancario e nell’economia è andato espandendosi. Oggi, i suoi compiti
possono essere così riassunti:
4 conduzione della politica monetaria nazionale, intervenendo sulle condizioni
monetarie e del credito, nella ricerca della piena occupazione e della stabilità
dei prezzi;
sorveglianza e regolamentazione delle istituzioni bancarie, per garantire
sicurezza e integrità del sistema bancario e finanziario nazionale e proteggere i
diritti di credito dei consumatori;
mantenere la stabilità del sistema finanziario e contenere i rischi sistemici
che possono sorgere nei mercati;
fornire servizi finanziari certi al governo statunitense, al pubblico, alle
istituzioni finanziarie, e ad istituzioni ufficiali estere, incluso il compito di
giocare un ruolo efficace nell’assicurare l’operatività del sistema nazionale dei
pagamenti.
Molti paesi sviluppati possiedono una banca centrale con funzioni largamente
corrispondenti a quelle della Fed.
Prima della nascita del Federal Reserve System, la realtà era caratterizzata da
periodiche situazioni di panico finanziario. Queste ultime furono causa di
numerosi fallimenti di banche ed imprese, oltre che di una generale contrazione
dell’attività economica. Una crisi particolarmente severa, nel 1907, indusse il
Congresso a ideare la Commissione Monetaria Nazionale, la quale avanzò la
proposta di creare un’istituzione che fosse in grado di contrastare situazioni di caos
finanziario ed economico. Dopo un considerevole dibattito, il Congresso approvò
il Federal Reserve Act e il Presidente Woodrow Wilson controfirmò la legge il 23
Dicembre 1913. I propositi alla base dell’emanazione del Federal Reserve Act
furono: “provvedere alla creazione delle Reserve Banks, fornire una valuta
elastica, garantire mezzi di sconto delle cambiali, progettare un metodo per la
sorveglianza del sistema bancario statunitense maggiormente efficace, e altri fini
ancora.”
Subito dopo la creazione della Fed, divenne chiaro che la legge prevedeva
implicazioni più ampie per la politica economica e finanziaria nazionale, rispetto a
quanto inizialmente ipotizzato. La legislazione successiva chiarì e completò i
propositi originari. Leggi chiave, che incisero sulla definizione dei compiti della
banca centrale furono: il Banking Act del 1935, l’Employment Act del 1946, gli
emendamenti del 1970 al Bank Holding Company Act, l’International Banking Act
del 1978, il Full Employment and Balanced Growth Act del 1978, il Depository
Institutions Reform Deregulations and Monetary Control Act del 1980, il Financial
Institutions Reform, Recovery, and Enforcement Act del 1989, e il Federal Deposit
Insurance Corporation Improvement Act del 1991.