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Introduzione
Il tema della corporate governance ha da sempre occupato un ruolo di rilievo
nella letteratura economiconullaziendale a livello int ernazionale.
Negli ultimi anni, anche per effetto di numerosi scandali societari, il dibattito
sulla corporate governance è tornato ad essere di attualità. La manifesta inadeguatezza
dei sistemi di controllo atti a limitare la discrezionalità del management, che si è avuta
in seguito, ad esempio, ai casi Enron e Parmalat, ha comportato una nuova serie di
riforme da parte di molti Paesi industrializzati. L’obiettivo dei vari legislatori
internazionali, si è concretizzato nella ricerca di un migliore sistema in grado di tutelare
efficacemente gli investitori, in modo tale da ripristinare la fiducia di questi ultimi nei
confronti dei mercati dei capitali. In questo senso ha fatto da guida il Sarbanes-Oxley
Act statunitense del 2002, seguito a poca distanza dalla nostra Legge sulla tutela del
risparmio (legge 262/2005).
Gli interventi normativi si sono concentrati particolarmente sulle imprese con
azioni quotate, a causa della complessità dei processi gestionali che si realizzano in
queste ultime, dovuta soprattutto alle dimensioni assunte dall’attività e alla moltitudine
di stakeholder e di attese da contemperare.
In aggiunta alle disposizioni legislative dei singoli Paesi, la corporate
governance delle società quotate è influenzata, inoltre, dalle raccomandazioni formulate
da svariati codici di autodisciplina, emanati su iniziativa di organizzazioni di categoria,
società di gestione dei mercati, investitori istituzionali. Tali codici, hanno in comune
l’obiettivo di voler contribuire alla diffusione delle best practice in tema di
amministrazione e controllo delle società, per mezzo della adesione spontanea da parte
di queste ultime a regole e principi riconosciuti come virtuosi.
I codici di autodisciplina, vigenti nei vari Paesi, raccomandano l’istituzione di
ulteriori strutture e funzioni rispetto a quanto previsto dall’ordinamento legislativo,
andando ad ampliare e rafforzare il controllo e la trasparenza sull’operato del
management, cercando, quindi, di allineare gli interessi di quest’ultimo rispetto al
perseguimento degli obiettivi generali dell’impresa.
Tra le strutture raccomandate dai codici di autodisciplina e, talvolta, imposte da
disposizioni normative, rivestono un ruolo di rilievo i comitati istituiti internamente agli
2
organi di corporate governance (consiglio di amministrazione oppure consiglio di
sorveglianza, a seconda del sistema di amministrazione e controllo adottato dalla
società). L’istituzione di tali comitati interni, risponde all’esigenza di supportare il
processo decisionale dell’organo entro cui sono istituiti, principalmente nell’ipotesi in
cui sussista un elevato rischio di conflitto di interesse fra i preposti all’attività di
governo ed i conferenti del capitale di rischio, ma il contributo dei comitati trova la
propria utilità anche nel caso in cui l’esercizio di talune prerogative richieda l’intervento
di determinate competenze specialistiche. La conformazione assunta dai comitati può
variare in termini di numerosità o di qualifiche dei membri, ma deve comunque sempre
essere tale da garantire l’autonomia di giudizio. Per questo motivo, risulta essere
imprescindibile l’indipendenza dei componenti dei comitati, determinata sulla base
dell’assenza di legami di ogni genere, attuali o passati, intrattenuti direttamente o
indirettamente con l’impresa o con soggetti a questa legati, tali da condizionarne
l’autonomia di giudizio.
Questa tesi intende analizzare ed approfondire le funzioni e le caratteristiche
attribuite ai comitati incaricati di trattare le questioni considerate, dai legislatori o dai
codici di autodisciplina, maggiormente esposte al rischio di abusi e di conflitti di
interesse, individuate nel controllo interno, nella determinazione delle remunerazioni e
nella nomina dei membri dell’organo di governo societario.
In particolare, oggetto di analisi sarà dapprima l’approccio adottato dal nostro
Paese nel trattare il tema dei comitati interni agli organi di corporate governance,
mentre successivamente si passerà all’esame dei differenti approcci adottati allo scopo
di regolamentare i comitati in ambito internazionale, prendendo in considerazione le
pratiche attualmente esistenti in Paesi quali gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania
e la Francia.
La tesi si compone complessivamente di quattro capitoli.
Il primo capitolo si pone l’obiettivo di fornire una breve visione d’insieme del
concetto di corporate governance, prendendo in considerazione il fenomeno della
separazione della proprietà dal controllo e le differenti teorie alla luce delle quali è
possibile analizzare il suddetto fenomeno. Vengono presentate le diverse definizioni
attribuite al termine corporate governance, sia da parte di Autori, sia da parte di
organismi internazionali o privati, andando a distinguere tra concezione “ampia” e
“ristretta” della corporate governance, che si sono affermate nel tempo. Nel proseguo
3
del capitolo si considerano i differenti modelli di corporate governance (anglosassone,
renano, latino) diffusisi nei diversi Paesi, analizzandone le peculiarità, derivanti
dall’influenza dei numerosi fattori economici, storici e legati alla tradizione giuridica
dello specifico contesto in cui si sono sviluppati. Infine, viene analizzato il ruolo svolto
dai differenti organi societari (assemblea degli azionisti, organo amministrativo, organo
di controllo) nel processo di amministrazione e controllo delle imprese, evidenziando il
contributo positivo della scelta, da parte dell’organo amministrativo, di attribuire
specifiche attività ad appositi comitati specializzati, in grado di garantire una maggiore
trasparenza e tutela agli azionisti ed a tutti gli stakeholder i generale.
Nel secondo capitolo si analizza l’evoluzione avuta nel corso del tempo
dall’impianto normativo italiano, per quello che attiene i principali interventi del
legislatore, in merito alle norme atte ad influenzare la corporate governance delle
imprese italiane. Nel corso del capitolo si espongono quindi le principali innovazioni
apportate per merito del Testo Unico della Finanza emanato nel 1998, della Legge sulla
tutela del risparmio del 2005 e della riforma del diritto societario del 2003; andando
successivamente a trattare, brevemente, le principali caratteristiche dei tre modelli di
amministrazione e controllo (tradizionale, dualistico, monistico), fra cui le società per
azioni possono optare secondo quanto previsto dal nostro ordinamento. Oggetto di
attenzione sono, inoltre, le raccomandazione formulate nei confronti delle società
quotate italiane dal Codice di Autodisciplina predisposto da Borsa Italiana. Fra i vari
argomenti trattati dal Codice, trovano una esplicita considerazione i comitati interni agli
organi di corporate governance, essendo oggetto di raccomandazione la istituzione di
un comitato per il controllo interno e di un comitato per le remunerazioni; lasciando alla
discrezionalità delle società la scelta di istituire un comitato competente sui processi di
nomina degli amministratori. La parte finale del secondo capitolo si propone di
analizzare nel dettaglio le funzioni e le caratteristiche attribuite dal Codice di
Autodisciplina a tali comitati.
Il terzo capitolo pone l’attenzione sulle pratiche di corporate governance
attualmente vigenti in quattro Paesi esteri (Stati Uniti, Regno Unito, Germania,
Francia), andando ad analizzare il ruolo attribuito e sulla base di quali criteri
(disposizioni normative, regolamenti di borsa, codici di autodisciplina), questi Paesi
prevedono la costituzione di comitati interni agli organi di governance.
4
Il quarto capitolo, infine, include una analisi empirica compiuta su dieci società
quotate italiane appartenenti all’indice FTSE MIB. L’analisi, relativa alla situazione
esistente alla fine dell’esercizio 2010, è stata compiuta attraverso l’osservazione dei dati
e delle informazioni che si possono ricavare attraverso la lettura delle “Relazioni sul
governo societario e sugli assetti proprietari”, che le imprese quotate sono tenute a
redigere ed a pubblicare in una apposita sezione del proprio sito internet, nonché in
quello di Borsa Italiana. In aggiunta sono stati presi in considerazione anche i fascicoli
di bilancio predisposti annualmente dalle società. L’analisi si è focalizzata sulla
informativa fornita e sulla adeguatezza rispetto alle raccomandazioni del Codice di
Autodisciplina relativamente ai comitati istituiti internamente ai consigli di
amministrazione delle dieci imprese prese in considerazione. Per ognuno dei tre
comitati previsti dal Codice, è stata rilevata la numerosità dei componenti e la relativa
percentuale di amministratori indipendenti presente all’interno di questi, andando altresì
ad analizzare le eventuali deviazioni, rispetto a quanto raccomandato dal Codice, e le
motivazioni portate dalla società a spiegazione di tale comportamento. Sempre con
riguardo ai comitati istituiti dalle dieci società analizzate, è stato, inoltre, rilevato il
numero di riunioni tenute durante l’anno, che congiuntamente alla rilevazione della
partecipazione media a queste ultime da parte dei componenti, possono essere un utile
indizio della effettività con cui operano i comitati stessi.
5
1. LA CORPORATE GOVERNANCE: ORIGINI, TEORIE,
PARADIGMI
1.1. Origini della corporate governance e teorie interpretative
Il tema della corporate governance è senza dubbio materia di estrema attualità e
oggetto di studio da parte di tutto il mondo economico.
Nonostante il recente interesse sull’argomento, derivato in gran parte dai
clamorosi default di alcune imprese multinazionali sia in Italia sia in ambito
internazionale, il tema del governo societario è sempre stato al centro dell’attenzione. Il
dibattito sull’argomento in esame è stato caratterizzato dalla discontinuità, e a periodi
con un gran numero di contributi sono seguiti anni di pausa.
Il problema del governo delle imprese nasce per disciplinare i rapporti tra
soggetti legati tra di loro dallo svolgimento di una attività economica in comune. Fin
verso la metà del XIX secolo le aziende non costituivano entità autonome, ma erano
legate agli imprenditori, i quali mantenevano la responsabilità per i debiti della società.
La mancanza della responsabilità limitata, con la conseguenza della possibilità da parte
dei creditori sociali di rivalersi direttamente sul patrimonio dei soci, limitava
notevolmente l’interesse degli investitori a partecipare al capitale di rischio delle
imprese. In questo contesto il ruolo di conferente capitale di rischio e il ruolo di
amministratore coincidevano ancora con la figura dell’imprenditore.
La situazione si modifica nel momento in cui l’aumento della complessità dei
rapporti commerciali e di produzione rende necessaria l’introduzione nell’ordinamento
giuridico delle società dotate di responsabilità limitata. Tali società hanno la capacità di
assumere la titolarità di diritti e responsabilità legali che prima spettavano solamente
alle persone fisiche, e che rimangono distinte ed indipendenti da quelle degli azionisti
che temporaneamente possiedono quote del capitale di rischio.
Le società di capitali sono inoltre in grado di acquistare la proprietà di beni,
redigere contratti con terze parti, citare ed eventualmente citare in giudizio ed avere una
durata superiore alla vita di coloro che ne possiedono le azioni in un dato momento
1
.
1
Zattoni, A. “Assetti proprietari e corporate governance”, Egea, Milano, 2006.
6
La nascita delle moderne società rappresenta un passo fondamentale della storia
dell’economia in quanto ora divengono possibili accordi tra soggetti interessati ad un
medesimo investimento, ma dotati di diverse prospettive circa la durata temporale o
l’ammontare di risorse da impiegare. La garanzia offerta dalla responsabilità limitata
permette inoltre agli imprenditori di poter attingere facilmente a capitali esterni, in
modo da finanziare più facilmente la crescita dell’impresa.
Successivamente, agli inizi del XX secolo, con la cessione sul mercato azionario
di parte delle quote di proprietà delle imprese, si assiste all’ampliarsi del numero di
azionisti che partecipano alle società, ma nel contempo si verifica la separazione tra
coloro che forniscono capitale di rischio e i manager che gestiscono concretamente
l’attività economica.
Nasce così la moderna società ad azionariato diffuso (public company),
caratterizzata dalla frammentazione della proprietà tra un elevato numero di azionisti,
che non hanno potere gestionale sulla società, e dalla presenza di manager professionisti
che assumono le decisioni fondamentali per la vita dell’impresa. La proprietà risulta
quindi suddivisa tra azionisti, che detengono i diritti di godimento dei rendimenti
residuali, e i manager, che sono chiamati a gestire le risorse aziendali orientandole
verso i livelli di redditività attesi.
Il fenomeno della separazione tra proprietà e controllo è approfondito ed esposto
da Berle e Means
2
in uno studio empirico del 1932 sulla struttura proprietaria e di
controllo delle tre maggiori imprese americane operanti rispettivamente nel settore dei
trasporti (Pennsylvania Road), dei servizi (American Telephone & Telegraph co.) ed
industriale (Steel co.), che all’epoca erano quotate nel mercato azionario degli Stati
Uniti. Gli Autori verificarono che per tutti e tre i casi analizzati il maggiore azionista
possedeva nel 1929 meno dell’1% del capitale della società
3
.
La ricerca ha inoltre ricostruito la struttura azionaria di numerose imprese,
riscontrando la diffusione del fenomeno della frammentazione azionaria all’interno del
sistema economico statunitense
4
.
I due Autori individuarono come conseguenza della separazione tra proprietà e
controllo una possibile divergenza di obiettivi tra azionisti e manager. Essi infatti
2
Berle A.A., Means G.C. “The Modern Corporation and Private Property”, Macmillan, New
York, 1932.
3
Zattoni A., Op. cit.
4
Zattoni A., Op. cit.
7
scrivono: “il controllo materiale degli strumenti di produzione risulta ceduto a gruppi
ristretti che amministrano l’insieme delle proprietà solo presumibilmente, ma non
necessariamente, nell’interesse dei possessori dei titoli”
5
.
In seguito allo studio di Berle e Means il dibattito sulla corporate governance ha
avuto una pausa, almeno per quanto riguarda gli studi dei principali economisti. Dalla
fine degli anni ’50 fino alla metà degli anni ’70 prendono campo le teorie manageriali
dell’impresa, che contribuiscono ad analizzare il tema del governo economico delle
imprese.
Rifiutando i principi delle teorie classiche e neonull classiche secondo cui
l’imprenditore gestisce l’impresa secondo la propria funzione di utilità e in un’ottica di
massimizzazione del profitto, le teorie manageriali sostengono che nelle imprese di
grandi dimensioni, con azionariato diffuso, l’obiettivo della massimizzazione del
profitto viene sostituito dalla funzione di utilità dei manager
6
.
In tale proposito Marris indica tra gli interessi più importanti del manager
7
:
˗ l’esigenza di conservare il ruolo manageriale di comando;
˗ un elevato stipendio;
˗ un elevato potere decisionale;
˗ una posizione sociale di prestigio.
Il fenomeno della separazione dal controllo è stato analizzato anche alla luce
della teoria dell’agenzia, secondo la quale un soggetto (il principale), delega ad un altro
soggetto (l’agente) l’utilizzo di alcune risorse.
Tale tipo di rapporto può portare ad alcuni problemi rilevanti
8
:
˗ i due attori possono essere caratterizzati da interessi contrastanti e per il
principal può risultare troppo difficile o costoso controllare l’operato del
proprio agent;
˗ esiste una asimmetria informativa nel rapporto tra principal e agent, in
favore di quest’ultimo.
Questa asimmetria può generare due tipi di problemi
9
:
5
Berle A.A., Means G.C., Op. cit., p. 11.
6
Baumol W.J. “Business Behaviour, Value and Growth”, Macmillan, New York, 1959
7
Marris R.L. “La teoria economica del capitalismo manageriale”, Einaudi, Torino, 1972.
8
Costanzo P., Priori M., Sanguinetti A. “Governance e tutela del risparmio: best practice,
regole e comunicazioni al mercato”, Vita e Pensiero, Milano, 2007.
9
Costanzo P., Priori M., Sanguinetti A. ibid
8
˗ adverse selection ovvero selezione contraria: il principal non sceglie
correttamente l’agent in quanto non è in grado di valutare con precisione
le capacità effettive dello stesso;
˗ moral hazard ossia azzardo morale: l’agent adotta un comportamento
“sleale” nei confronti del principal che non è in grado di verificarne
l’operato in maniera efficace.
Nelle imprese caratterizzate da separazione tra proprietà e controllo, la relazione
esistente tra azionisti e consiglieri di amministrazione si può configurare come un tipico
rapporto di agenzia in cui i primi ricoprono il ruolo di principale, mentre i secondi
quello di agenti. Il problema di agenzia nasce nel momento in cui i soggetti coinvolti
perseguono interessi differenti, se non conflittuali, e a causa della presenza di una
asimmetria informativa tra principale e agente.
Data una tale situazione di asimmetria informativa, si vengono a generare costi
di agenzia, che risultano essere la sommatoria dei seguenti tipi di costi
10
:
˗ costi di controllo, cioè il costo delle attività intraprese dal principal al
fine di misurare, valutare, regolamentare, incentivare l’agent a compiere
determinati comportamenti;
˗ costi di rassicurazione, ovvero il costo di tutte le attività intraprese
dall’agent per convincere il principal che l’operato del primo è allineato
agli interessi del secondo;
˗ costi residuali, ossia i costi associati a qualsiasi altra divergenza che le
suddette azioni non sono in grado di ricomporre.
I menzionati costi di agenzia non possono essere annullati, ma solo minimizzati,
poiché i principali non riescono a controllare l’operato dei propri agenti in maniera
efficace. Ciò a causa della limitatezza della razionalità umana e della complessità e
imprevedibilità dell’ambiente esterno ed interno all’azienda, che impediscono la
creazione di contratti completi tra azionisti e manager
11
.
Inoltre, in una ipotesi di polverizzazione estrema della compagine societaria, si
verifica il fenomeno di free rider dell’attività di controllo poiché nessun conferente di
capitale di rischio possiede una quota sufficiente ampia del rendimento residuale
10
Jensen M., Meckling W. “Theory of the Firm: managerial behavior, agency costs and
ownership structure”, in Journal of Financial Economics, 1976, n.3.
11
Un contratto è completo quando riesce a prevedere il comportamento che ciascuno
dei contraenti deve tenere in ogni possibile circostanza futura.
9
dell’impresa, tale da giustificare il sostenimento dei costi legati alla definizione dei
contratti con gli altri stakeholder e al controllo del rispetto dei termini in essi previsti
12
.
Il rimedio a queste questioni, in grado di allineare il più possibile gli interessi
contrastanti e minimizzare l’adozione di comportamenti opportunistici da parte dei
manager, può essere individuato in un efficace ed efficiente modello di corporate
governance.
La teoria dell’agenzia è stata oggetto di numerose critiche, dovute
principalmente al fatto che essa si basa sul principio che le imprese siano caratterizzate
dalla separazione tra proprietà e controllo.
Studi empirici
13
hanno però dimostrato che il modello di impresa predominante
nella maggior parte dei paesi non è quello indicato da Berle e Means, che invece è
predominante solamente nei paesi anglosassoni.
Un ulteriore obiezione alla teoria dell’agenzia proviene dal fatto che questa non
riuscirebbe a spiegare i sistemi di corporate governance dei paesi non anglosassoni, in
quanto in questi sarebbero presenti fattori storici e culturali che sono ignorati dalla
teoria.
Un approccio alternativo alla teoria dell’agenzia negli studi sulla corporate
governance è quello della stewardship theory
14
. Tale teoria accetta l’esistenza di due
classi di operatori economici, rifiutando però l’assunto del comportamento
opportunistico dei manager. Chi dirige l’impresa, secondo questa visione, è portato alla
massimizzazione del benessere dell’organizzazione, in quanto questa risulta essere la
condizione necessaria per poter soddisfare il proprio. Il benessere del manager risulta
essere funzione di quello dell’impresa. Da ciò consegue che non vi è alcun conflitto tra
manager e azionista, essendo il primo mosso dall’intenzione di salvaguardare e far
crescere l’impresa, che è anche l’obiettivo del secondo.
Il ruolo della struttura di governance dell’impresa risulta quindi, secondo la
stewardship theory, quello di meccanismo in grado di assicurare che l’operato dei
manager si traduca con efficacia in elevate performance.
12
Zattoni A., Op. cit.
13
La Porta R., Lopez De Silanes F., Shleifer A. “Corporate ownership around the world”, in The
Journal of Finance, vol. 54, n. 2, April, 1999.
14
Donaldson L., Davis J.H. “Stewardship theory or agency theory: CEO governance and
shareholder returns”, in Australian Journal of Management, n. 1.