6
soprattutto alla volontà delle persone, è possibile realizzare dei luoghi in cui si può davvero parlare
di rieducazione.
Nel 2° capitolo ho affrontato il tema dell’organizzazione carceraria, considerando tutte le tipologie
di persone che operano all’interno dell’Istituzione. E’ un tema piuttosto dibattuto, soprattutto per
l’alto numero dei soggetti coinvolti, ognuno con una professionalità che, spesso, si scontra con le
altre, e rende difficile un lavoro sinergico. L’ultima parte ho voluto dedicarla al volontariato, perché
è un’esperienza che mi appartiene e che vivo intensamente, e alle reali possibilità che si prospettano
al momento attuale, in cui sembra che la Giustizia voglia fare dei passi indietro rispetto a quanto
conquistato finora.
Nella seconda parte, preceduta da una premessa, mi sono dedicata alle misure alternative alla
detenzione. Nel 4° capitolo, in particolare, ho elencato le possibili misure, scaturite dalla Legge
354/75, mentre nel 5° ho cercato di spiegare la complessità dell’U.E.P.E., l’Ente appunto che si
occupa della loro applicazione. Anche questo è un argomento delicato: l’U.E.P.E., con la sua storia e
le sue contraddizioni, coinvolge in prima persona gli Assistenti Sociali ed il loro ruolo, tutt’altro che
facile. Oltretutto ho avuto la possibilità di sperimentare personalmente le difficoltà di questo lavoro,
attraverso il mio tirocinio di quest’anno.
Nel 6° capitolo ho affrontato la dimensione affettiva del detenuto: a parte le forme frammentarie ed
episodiche già dette prima, la possibilità di coltivare i sentimenti e le relazioni intime che si avevano
all’esterno, sono davvero scarse, dilazionate nello spazio e nel tempo. Sembra, quasi, che le
relazioni vengano vissute in senso negativo: come mancanza e perdita lasciando, in coloro che
vivono tale situazione, emozioni a volte difficili da gestire; sembra che molto del tempo vissuto
all’interno del carcere sia in funzione dei colloqui, delle telefonate, in cui, seppure ristretti, si possa
vivere attivamente un rapporto interpersonale.
Il 7° capitolo è dedicato alla storia di un caso, per dimostrare che, anche per le persone
multiproblematiche, ci sono delle possibilità di rieducazione e reinserimento nella società.
Nell’8° ed ultimo capitolo, mi sono permessa di esprimere quelle che, per me, sono le possibilità di
cambiamento, sia per il detenuto che per il lavoro dell’Assistente Sociale, pur nelle difficoltà del
momento, ma convinta che si può ancora puntare sulle “persone” e su una società che sa
riaccogliere, segno questo di umanità, di equilibrio e di serenità che, alla lunga, costituiscono una
garanzia di maggior sicurezza per tutti.
7
1) IL DETENUTO
1.1 - EVOLUZIONE STORICA DEL CONCETTO DI CARCERAZIONE
L’interrogativo sempre attuale sul perché della pena è stato tra i più dibattuti nella storia
dell’umanità ed ha interessato non solo la scienza penale ma anche altre discipline, quali la filosofia,
che fin dalle scuole presocratiche si è variamente pronunciata sulla questione. Le innumerevoli
risposte alla domanda oscillano tra due polarità difficili da superare: le teorie assolute e relative.
Per le Scienze assolute la pena è un valore positivo che trova in se stessa la ragione e la
giustificazione. Appartengono a questo gruppo tutte le dottrine retribuzioniste, secondo le quali la
pena viene applicata “quia peccatum est”, cioè a giustificazione del reato commesso. Come dire che
il bene va ricompensato con il bene e il male con il male. Per la retribuzione morale la pena è
un’esigenza etica profonda ed inviolabile della coscienza umana, una necessità che scaturisce
dall’imperativo di giustizia insito in ogni uomo.
Per la retribuzione giuridica invece la pena trova il proprio fondamento all’interno dell’ordinamento
giuridico. Il delitto, poiché ribellione del singolo alla volontà della Legge, esige una riparazione che
ristabilisca l’equilibrio alterato.
Per le Teorie relative la pena è un mezzo per conseguire uno scopo estrinseco: si punisce per
impedire che nel futuro si commettano altri delitti. Le dottrine relative sono distinte tra prevenzione
generale (o intimidazione), prevenzione speciale e emenda. Secondo la prima, la pena consiste in un
mezzo per dissuadere i cittadini dal compiere atti criminosi. L’emenda mira al pentimento del reo; la
funzione è di purificazione dello spirito ed è protesa verso la redenzione morale. La prevenzione
speciale mira invece ad eliminare o ridurre il pericolo che il soggetto ricada nel delitto.
Nel corso dei secoli, a seconda delle diverse necessità sociali, l’idea centrale retributiva e
dell’intimidazione si è combinata con le istanze preventivo-rieducative fino ad arrivare a riconoscere
la pluridimensionalità della pena.
Quale sia la pena a cui conviene fare ricorso per meglio garantire l’adempimento delle funzioni che,
a seconda dei tempi e dei tipi di società, vengono ad essa attribuiti, è un quesito sempre aperto
nell’ambito della politica criminale. Nel corso dei secoli si è potuto assistere ad una metamorfosi dei
sistemi punitivi, un lento e graduale passaggio dalla pena del taglione e della vendetta privata, forme
arcaiche di punizione, all’affermarsi del concetto di internamento istituzionalizzato. La storia del
diritto penale è quindi contrassegnata da un lento processo di umanizzazione delle pene, avvenuto
attraverso il progressivo abbandono delle forme più crudeli di repressione. Ciò che muta sono
essenzialmente i metodi per “Sorvegliare e punire”. Foucault, nel libro omonimo, prende in esame
la pubblica tortura in sé. Sostiene l'autore che questo genere di spettacolo costituiva una sorta di
8
"piazza teatrale" cui corrispondevano diverse funzioni e diversi effetti (desiderati ed indesiderati)
per la società.
Le funzioni perseguite erano:
ξ riflettere la violenza del delitto originario sul corpo del condannato, a monito di tutti;
ξ porre in atto la vendetta del sovrano - leso dal crimine (anche solo idealmente, ed al di
fuori dell'ovvio caso del regicidio) - sul corpo del colpevole. La tesi di Foucault è che la
legge era considerata un'estensione del corpo del sovrano, pertanto era pienamente logico
che la vendetta si incarnasse nella violazione dell'integrità fisica (corpo) del condannato.
Alcuni degli "effetti collaterali" (naturalmente indesiderati) erano:
ξ fornire al corpo del condannato un palcoscenico su cui ricevere simpatia ed ammirazione;
ξ trasformare il corpo del condannato in un sito del conflitto tra le masse ed il sovrano.
L'autore osserva in proposito che spesso le esecuzioni sfociavano in tumulti in appoggio
del prigioniero.
Pertanto, conclude Foucault, in definitiva la pubblica esecuzione si rivelava obiettivamente
controproducente e perfino anti-economica. Per di più essa era applicata in modo eterogeneo,
irrazionale e quasi casuale. Ne consegue che il suo costo politico era troppo alto. Era addirittura
l'antitesi dei più moderni interessi dello stato: ordine e generalizzazione.
Con l’avvento dello Stato di diritto, la sanzione penale diventa una procedura legale che comporta la
sottrazione della libertà per un periodo proporzionato alla gravità del delitto commesso anche se il
Carcere, come strumento di esecuzione della pena, è una creazione relativamente recente. Nel
medioevo la prigione è solo un luogo dove viene custodito l’imputato in attesa di processo, un
passaggio temporaneo nell’attesa dell’applicazione della pena reale, che consiste in qualche cosa di
essenzialmente diverso dalla sola privazione della libertà. Essa è rappresentata da una somma di
denaro, da una sofferenza fisica, dall’esilio, dalla gogna, dalla morte, cioè dalla privazione nei
riguardi del colpevole di quei beni riconosciuti universalmente come valori sociali: la vita, l’integrità
fisica, il denaro. Contrassegnate dal particolarismo, dall’incertezza, dall’arbitrarietà e dalla
discriminazione tra le classi sociali, le pene, nella loro natura di vendetta pubblica, sono
completamente disancorate da razionali criteri di proporzione. Il processo penale, “inquisitorio”, non
è né un mezzo per garantire la giustizia né uno strumento per l’accertamento della verità, in quanto
fondato sulla negazione della dialettica processuale, sulla segretezza e sulla tortura.
La crudeltà e la spettacolarità delle esecuzioni assolvono la funzione di deterrente nei confronti di
coloro che intendono trasgredire le regole imposte dal Sovrano e dalla Chiesa, la quale esercita,
attraverso i delitti contro la religione, un rigido “controllo delle coscienze”. È solo a partire dal
Seicento che queste punizioni cominciano ad essere sostituite dal Carcere che lentamente si
affermerà come l’unica pena. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, sotto la spinta del
9
pensiero illuminista, si compiono i primi passi verso l’umanizzazione della pena e nell’esecuzione
penale emerge il ruolo della detenzione in sostituzione delle pene corporali. Particolarmente
significativo è il contributo dell’illuminista lombardo Cesare Beccaria, che nella sua opera “Dei
delitti e delle pene” del 1764 sottolinea i difetti delle legislazioni giudiziarie a lui contemporanee e
propone delle possibili soluzioni per porre rimedio alle lacune e alle ingiustizie dei vari sistemi
penali. Nel suo libro il filosofo avanza una decisa battaglia contro l’oscurità delle leggi, in quanto
causa di interpretazioni arbitrarie che favoriscono gli abusi, e sottolinea la necessità di estirpare il
sistema delle denunce anonime, pratica che alimenta i “riprovevoli” istinti della vendetta e del
tradimento. Egli evidenzia inoltre l’iniquità dell’adozione dei metodi violenti in uso al suo tempo
quali strumenti repressivi. Ad esempio la tortura, che oltre ad essere una pratica “disumana” non
garantisce l’emergere della verità, in quanto davanti al dolore fisico chiunque sarebbe disposto a
confessare qualsiasi delitto. La pena di morte deve essere abolita sia perché viene meno allo spirito
del contratto sociale, in base al quale nessun uomo è disposto a dare la propria vita in nome della
convivenza comunitaria, sia perché non è un deterrente efficace contro la criminalità. Secondo
Beccarla spaventa più l’idea di una lunga pena detentiva che non l’idea di una pena durissima, ma
istantanea. È importante che la sanzione segua in tempi brevi il reato commesso, per non lasciare
l’indiziato nell’incertezza riguardo la sua sorte e per imprimere nella mente dei cittadini la
consequenzialità di colpa e pena. Un altro principio innovatore del trattato è l’attribuzione di un
carattere laico alla pena, alla quale Beccaria assegna una funzione completamente diversa rispetto a
quella dell’espiazione del peccato nel senso cristiano. La punizione attribuita dall’autorità
giudiziaria è solo un mezzo per “impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini” , nonché uno
strumento per “rimuovere gli altri dal farne uguali”. È importante inoltre prevenire i crimini
educando alla legalità e facendo in modo che le leggi siano rispettate, temute, chiare e facili da
comprendere per tutti. La pena è in sostanza per il pensatore milanese un mezzo di difesa e di
prevenzione sociale. Le idee di Beccaria sono accolte con grande successo in tutto il continente
europeo e accendono un dibattito che garantisce il raggiungimento di una nuova consapevolezza sul
tema.
A partire dal XIX secolo in tutta Europa il carcere diventa la modalità di esecuzione per eccellenza.
Sorto inizialmente come mero strumento di custodia dell’imputato, vede nel tempo modificata la sua
funzione. Si passa alle più moderne architetture carcerarie che riproducono un “brano della città”,
una continuazione naturale del tessuto urbano. In Italia la filosofia del carcere è stata caratterizzata
da una logica “custodialistica”. Nel periodo precedente l’Unità d’Italia il penitenziario è l’edificio in
cui vengono reclusi indifferentemente le persone in attesa di giudizio, i condannati e coloro che la
società considera scomodi e pericolosi. Queste persone vengono allontanate dalla collettività allo
scopo di eliminare il pericolo di “contagio” con agli altri membri della comunità. Nel 1891 viene