6
Al fine di cercare di ridurre l’estrazione di benefici privati, in un caso da
parte dei manager, nell’altro degli azionisti di controllo, gli ordinamenti
hanno cercato in entrambi i casi delle soluzioni.
Mentre si sollevava il dibattito incentrato sul miglioramento dei sistemi di
governance, si assisteva ad un aumento incredibile della crescita dei gestori
del risparmio collettivo, circostanza che ha fatto sì che prima la dottrina e
successivamente i legislatori spostassero la loro attenzione sugli investitori
istituzionali come potenziale rimedio ai diversi problemi di agenzia.
Il bagaglio informativo, la professionalità e gli ingenti capitali, che dopo
esser stati raccolti venivano in gran parte investiti nelle società quotate,
facevano assumere agli investitori istituzionali una posizione del tutto diversa
da quella dei piccoli risparmiatori, tradizionalmente e logicamente apatici,
rendendo possibile, o perlomeno auspicabile, una loro azione di monitoraggio
nei confronti del management o del gruppo di comando.
Sulla scia di questi dibattiti, nonché spinti proprio dalle istanze degli stessi
investitori istituzionali, i legislatori hanno iniziato a rivisitare le regole di
governance, con l’obiettivo di rivitalizzare maggiormente le assemblee e i
diritti di “voice” degli azionisti, quantomeno di quelli che detenessero quote
significative.
Proprio il fatto che fossero in possesso di minoranze qualificate in grado sia
di poter giustificare i costi legati agli interventi che di poter, attraverso questi
ultimi, influenzare la gestione, ha convinto i legislatori che il coinvolgimento
attivo degli investitori istituzionali nelle società quotate fosse lo strumento
principe per garantirsi l’efficienza delle gestioni e di conseguenza una forma
di tutela mediata per i piccoli risparmiatori, al punto da renderlo uno dei
“punti cruciali delle riforme in tema di corporate governance”
1
.
1
Irace A., Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, in Quaderni di
giurisprudenza commerciale, Milano, Giuffrè, 2001, p. XVI.
7
Nonostante molta fosse l’attenzione rivolta dai legislatori agli investitori
istituzionali e altrettanto elevata fosse l’aspettativa di un loro coinvolgimento,
questi ultimi non sembravano aver abbandonato definitivamente quel
tradizionale atteggiamento di passività orientato all’utilizzo dell’exit piuttosto
che alla voice. Le ragioni della mancata risposta unisona e definitiva degli
investitori alle istanze poste dagli ordinamenti risiedono fondamentalmente
nel fatto che l’attività principale di questi soggetti sia la gestione del risparmio
e che il loro divenire azionisti sia solo una conseguenza dello svolgimento
dell’attività principale: il ruolo esercitabile all’interno della corporate
governance delle partecipate risente quindi di molteplici fattori in grado di
agevolare o limitare tale attività.
Nel presente lavoro, dopo essermi occupata nel primo paragrafo del
fenomeno dello sviluppo degli investitori istituzionali, sia come gestori che
come azionisti, ho analizzato separatamente nel secondo e nel terzo paragrafo
rispettivamente il contesto inglese e quello italiano, in quanto i
comportamenti di questi soggetti sono profondamente legati alla loro
regolamentazione, tipologia e dimensione, alle loro strutture proprietarie e a
quelle degli emittenti, alle condizioni dei mercati, alla normativa societaria e
ad altri fattori soggettivi.
Nei due successivi capitoli ho poi tentato di delineare il ruolo degli
investitori istituzionali e delle associazioni di categoria, mettendo in evidenza
gli ostacoli che tali soggetti incontrano nel divenire maggiormente attivi, col
fine di poter successivamente formulare un giudizio sugli interventi legislativi
e di autodisciplina recentemente adottati in entrambi i paesi. Nel fare ciò, ho
preferito analizzare in primo luogo la situazione presente in Gran Bretagna,
ritenendo fosse utile capire quali sono gli ostacoli incontrati sia dagli
investitori istituzionali che dal legislatore in un paese dove il fenomeno è
sicuramente più sviluppato, al fine di poter essere più critici, o comunque
8
meno illusi, circa le ricadute che la novellata disciplina delle società quotate
potrà avere sul comportamento dei gestori collettivi del risparmio, per quanto
attiene al loro ruolo all’interno delle partecipate domestiche.
Nel presente lavoro si vuole verificare se la riforma inglese e quella
italiana, che nelle loro premesse tanta attenzione avevano riposto sugli
investitori istituzionali e sulle minoranze qualificate, siano state poi, all’atto
pratico, in grado di offrire impulsi adeguati e di rimuovere taluni ostacoli
causa di passività degli investitori qualificati. La normativa societaria ha un
ruolo determinante nel condurre i suddetti a svolgere un ruolo più attivo; solo
se le novellate discipline hanno in modo effettivo aumentato gli incentivi e
diminuito i disincentivi a divenire coinvolti nella gestione sociale ci si potrà
attendere, almeno potenzialmente, l’adozione di un comportamento più
responsabile tale da ridurre l’agency problem.
9
CAPITOLO I
GLI INVESTITORI ISTITUZIONALI
1. LA CRESCITA DEGLI INVESTITORI ISTITUZIONALI COME
ENTI DI RACCOLTA DEL RISPARMIO E COME AZIONISTI.
Gli investitori istituzionali possono essere definiti come istituzioni
finanziarie specializzate che gestiscono collettivamente i risparmi di piccoli
risparmiatori.
Negli ultimi decenni si è sviluppata una tendenza all’istituzionalizzazione
dei risparmi; l’aumento della parte di risparmi delle famiglie dati in gestione a
investitori specializzati ha comportato da un lato la riduzione del capitale
investito direttamente e di quello tenuto in depositi bancari, dall’altro la
crescita degli investitori istituzionali, ossia dei fondi comuni, delle compagnie
assicurative e dei fondi pensione
2
3
.
Questo trend trova una spiegazione nella discesa della dinamica inflativa
che, essendosi stazionata su livelli fisiologici, ha inciso profondamente sui
titoli obbligazionari e ha spinto i piccoli investitori a ricercare investimenti
alternativi che potessero garantire i rendimenti prima ottenuti attraverso
2
Davis E.P., Stein B., Institutional Investors, London, Mit Press, 2001, p. xxiii.
3
Secondo i dati della Federation of Europea Securities Exchanges (FESE) il peso delle partecipazioni
azionarie delle istituzioni di investimento collettivo, compresi i fondi pensione, le compagnie assicurative, i
fondi comuni e le società finanziarie di investimento collettivo, nelle Borse europee alla fine del 2003 era del
25 per cento. Nonostante ciò la differenza tra i vari paesi è notevole: mentre in Gran Bretagna tali istituzioni
detengono il 47.3 per cento della capitalizzazione di mercato e in Svezia il 26 per cento, i restanti mercati
dell’Europa continentale rimangono al di sotto di questa percentuale. 13 su 17 dei paesi considerati sono
sotto al 15 per cento. Si veda FESE, Share Ownership Structure in Europe2004, final version, Novembre
2004, disponibile on line: (http://www.dai.de/internet/dai/dai-2-0.nsf/dai_statistiken.htm) Sebbene i dati
riguardanti l’Europa continentale sono comparativamente bassi, indicano in ogni caso una crescita
considerevole per quanto riguarda il possesso azionario. Secondo i dati raccolti dall’Investment Company
Institute, il patrimonio netto totale dei fondi comuni è cresciuto da $5,525,209milioni a $ 8,106,876 milioni
negli Stati Uniti equivalente ad un 46.73 per cento, mentre da $ 2,743,228 milioni a $ 5,628,152 milioni in
Europa equivalente al 105.17 per cento. Si veda ICI, 2005 Investment Company Fact Book, 45th edn (2005),
Table 44. Consultabile on line: (http://www.ici.org/fact book/index.htlm)
10
strumenti a reddito fisso. Mentre le azioni si prospettavano come unico
investimento alternativo allettante, era chiaro che questo tipo di investimento,
data la rischiosità e la necessità di competenze specifiche, sicuramente non
possedute dal singolo risparmiatore, portava quest’ultimo a fare affidamento
sulla professionalità e preparazione degli investitori istituzionali, trasferendo
risparmi già dati in gestione da linee prudenziali a linee più aggressive o
conferendo ai fondi nuovi flussi di risparmi, in precedenza direttamente
investiti in impieghi a basso rischio senza l’ausilio degli intermediari
4
. La
suddetta ragione non pare essere, però, l’esclusiva motivazione.
Questa tendenza è, infatti, attribuibile in parte anche all’aumento del
risparmio previdenziale, imputabile alla generale ritirata dagli onerosi sistemi
pensionistici pubblici degli Stati continentali
5
; un riscontro di questa
correlazione tra la crescita degli investitori istituzionali (fondi pensione e
assicurazioni vita) e il sistema privato di previdenza si può ritrovare nel
Regno Unito.
Il trasferimento dall’investimento diretto a quello effettuato attraverso gli
investitori istituzionali trova, in aggiunta, tra le principali ragioni la
massimizzazione del rendimento e la riduzione del rischio e dei costi. Prima
dello sviluppo degli investitori professionali, infatti, solo persone con grandi
risorse economiche si potevano permettere investimenti in valori mobiliari,
pagando alti costi di diversificazione, mentre le categorie medio-basse
potevano salvare i propri risparmi dall’inflazione solo attraverso depositi
bancari che davano rendite basse. Successivamente, i soggetti con redditi
medi e bassi hanno praticamente abbandonato i depositi bancari mentre i più
4
Reboa M., Proprietà e controllo di impresa:aspetti di corporate governante, Milano, Giuffrè Editore, 2001,
pp. 105-106.
5
Marseguerra G., Governo delle imprese e mercati finanziari:il ruolo degli investitori istituzionali, in Il
Risparmio n. 1, 2000, p. 3
11
benestanti hanno fatto lo stesso con l’investimento individuale, entrambi per
far gestire i propri risparmi da soggetti specializzati
6
.
Gli intermediari finanziari, mettendo insieme i risparmi delle famiglie,
riescono a garantire rispetto all’investimento diretto un miglior trade-off tra
rischio e rendimento, il quale è dato dalla gestione professionale dei portafogli
attraverso un’intensa attività di compravendita gestita in base all’andamento
azionario e dalla diversificazione degli investimenti, che sono soggette a costi
inferiori rispetto a quelli che verrebbero applicati ai singoli. La dimensione
degli investitori istituzionali comporta la possibilità, preclusa ai singoli, di
investire in attività grandi e indivisibili e, più importante, fa beneficiare delle
economie di scala, con minori costi medi per investitore. Questi derivano
dall’abilità di operare con grandi quantità, fatto che comporta una riduzione
delle commissioni.
La preferenza all’investimento attraverso questi soggetti è una conseguenza
anche della scarsa protezione che i piccoli risparmiatori ricevono in alcuni
ordinamenti e della loro difficoltà a raccogliere informazioni e a controllare le
compagnie dove investono, dovuta sia alla mancanza di conoscenze che alla
“apatia razionale”. Al contrario gli investitori istituzionali sono in grado di
ottenere e, cosa più importante, di esaminare le informazioni riguardanti
l’impresa partecipata, anche se si tratta solo di notizie pubbliche
7
. E, a
differenza del piccolo peso che hanno gli investitori individuali sul governo
della società, quelli istituzionali sono potenzialmente in grado di esercitare
pressione sulle partecipate sia grazie all’exit che alla voice, pressione che sarà
tanto maggiore quanto maggiore è il peso dell’investitore istituzionale
8
.
6
Davis E.P., Stein B., op. cit., p. 34.
7
A differenza le banche, grazie allo loro status di creditore, dispongono anche delle notizie private e godono
così di una conoscenza maggiore delle condizioni dell’impresa.
8
“I cospicui investimenti dei fondi all’interno di grandi società hanno, per certi versi imposto, per altri reso
possibile: una rivisitazione delle regole del gioco: una rivitalizzazione dei diritti di “voice” degli azionisti,
quantomeno di quegli azionisti che detengono quote significative della proprietà. L’utilizzo dei diritti di