II
sullo stato di povertà dei nuclei familiari beneficiari, misurato attraverso due
indici: l’indice d’intensità e l’indice di diffusione.
Il primo capitolo è strutturato in modo da affrontare l’argomento principale solo
dopo aver descritto i vari settori, dal generale al particolare, nei quali si è
inserito. Sì è cosi data una descrizione generale delle caratteristiche del
modello di welfare state italiano, sia sul piano definitorio e sia su quello relativo
alla spesa. Poi si è affrontato, nello specifico, il settore di welfare state che più
da vicino riguarda il RMI, cioè il settore assistenziale.
Seguendo questo percorso si è descritto il modo con cui in Italia viene
affrontata la lotta alla povertà, in quali ambiti e con quali strumenti.
Due paragrafi sono dedicati alla descrizione di due importanti innovazioni
introdotte nel settore assistenziale: l’”Indicatore della situazione economica
equivalente” (ISEE), e la legge n. 328/2000, “legge quadro per la realizzazione
del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.
Dopo aver illustrato il contesto nel quale è stato introdotto il RMI, si è
analizzato il suo ruolo nella lotta alla povertà e nel processo di decentramento
italiano. Infine, sono esposte le caratteristiche generali della misura e i
principali risultati della sperimentazione del primo biennio.
Nel capitolo secondo sono descritte le premesse all’introduzione del RMI in
Italia ed il quadro legislativo nel quale si è svolta la sperimentazione sia a livello
nazionale e sia nel comune di San Giovanni in Fiore . Le premesse sono state
poste a livello europeo, con le Raccomandazioni 441/CEE e 442/CEE del
1992, ed all’interno del nostro paese, con la Commissione d’indagine sulla
povertà, istituita nel 1983 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, allo
scopo di studiare e proporre delle soluzioni per il fenomeno della povertà e con
la Commissione per l’analisi sulla compatibilità macroeconomica della spesa
sociale italiana presieduta da Paolo Onofri, istituita per progettare la riforma
dello Stato sociale italiano.
Le caratteristiche del RMI e delle altre innovazioni introdotte per avviare la
riforma del settore assistenziale, hanno seguito le indicazioni del lavoro svolto
dalla Commissione Onofri, presentato nel febbraio del 1997, al quale è
dedicato uno specifico paragrafo.
III
Inoltre, per evidenziare le diverse implicazioni che il RMI può avere nelle
diverse parti del paese, sono stati esposti i risultati della simulazione
dell’introduzione del RMI su scala nazionale in sostituzione di diversi istituti di
redistribuzione monetaria, effettuata da un gruppo di lavoro della SVIMEZ,
l’“Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno”.
Infine sono descritte le soluzioni normative e di gestione che l’amministrazione
comunale di San Giovanni in Fiore ha adottato per risolvere i problemi posti
dall’applicazione della misura.
Il capitolo terzo è dedicato alla definizione della povertà, sia secondo le
definizioni più diffuse in letteratura, sia secondo il c.d. “approccio delle
capacità” di uno dei maggiori studiosi del fenomeno, l’economista indiano
Amartya Sen. In seguito si è fornita una breve rassegna dei principali strumenti
necessari per la misurazione della povertà, come l’indice di diffusione, l’indice
d’intensità, le soglie di povertà e le scale d’equivalenza utili per confrontare la
condizione economica di famiglie di diversa composizione.
Infine è stata esposta una metodologia per la valutazione dell’efficacia delle
politiche contro la povertà, tratta da un lavoro della Commissione d’indagine
sulla povertà del 1997, al fine di tentare una sua applicazione al caso studio del
presente lavoro.
Il capitolo quarto è interamente dedicato alla sperimentazione del RMI a San
Giovanni in Fiore, sulla base dei dati forniti dall’ufficio servizi sociali del
comune, ed in particolare dal dirigente del settore, dal responsabile dell’ufficio
e dalle assistenti sociali.
Inizialmente sono illustrate le caratteristiche e la composizione della
popolazione coinvolta nella sperimentazione. Essa è stata divisa in tre gruppi: i
nuclei familiari totali richiedenti l’accesso alla misura, i nuclei beneficiari e quelli
esclusi.
In seguito sono presentate le condizioni reddituali dei nuclei familiari che
componevano questi tre gruppi, sia rispetto alle fonti di reddito, sia rispetto al
livello di reddito dichiarato.
Si è poi analizzato l’andamento dei programmi d’inserimento dei soggetti
beneficiari, che avrebbero dovuto accompagnare l’erogazione del sussidio
monetario per tutta la durata della sperimentazione.
IV
Inoltre sono esposti i dati relativi alla spesa per le integrazioni monetarie,
finanziate interamente dal Fondo nazionale per le politiche sociali, istituito
presso il Ministero del welfare state.
Dopo aver esposto i dati sulla sperimentazione si è cercato di applicare la
metodologia di valutazione esposta nel capitolo terzo, al fine di verificare
l’impatto diretto dell’integrazione monetaria sulla povertà registrata tra i nuclei
beneficiari e di descrivere i possibili effetti negativi che l’applicazione della
misura poteva generare nella popolazione coinvolta.
A questo scopo, sono costruiti due indici per la misurazione della povertà
economica, l’indice di intensità e l’indice di diffusione, sulla base delle soglie di
povertà relativa previste dal Dlgs n. 237/1998 e su quelle rappresentate dal
60% del reddito medio nazionale equivalente per due persone, per i diversi
anni della sperimentazione.
Al fine di verificare l’efficacia della misura, questi indici sono costruiti per il
gruppo dei beneficiari prima del trasferimento monetario e dopo.
Inoltre, seguendo la logica della metodologia utilizzata, gli stessi indici sono
costruiti per il gruppo dei nuclei esclusi dalla misura, in quanto quest’ultimi sono
utilizzati come gruppo di controllo per stimare l’andamento degli indici costruiti
per i nuclei beneficiari in assenza d’intervento, in modo da ottenere una stima
netta dell’impatto del RMI.
La non corrispondenza delle condizioni iniziali dei due gruppi ha prodotto una
stima distorta dell’impatto netto del trasferimento monetario, ma l’utilizzo di
questa metodologia di valutazione ha permesso di evidenziare come l’efficacia
di una politica di contrasto alla povertà debba essere misurata non solo
confrontando gli indicatori d’interesse in un momento prima ed uno dopo
l’introduzione della stessa, ma è necessario stimare la dinamica propria del
fenomeno che si intende modificare, cioè in assenza d’intervento, al fine di
ottenere una stima netta dell’impatto.
1
Capitolo primo
Welfare state, assistenza e reddito minimo d’inserimento (RMI) nella
lotta alla povertà in Italia.
1.1 Il modello di welfare state italiano. Caratteristiche generali.
Prima di analizzare le caratteristiche del modello di welfare state italiano, può
essere utile procedere ad una specificazione concettuale del termine. Entrato a
far parte del lessico politico agli inizi del XIX secolo
1
, questo termine è tutt’ora
fortemente ambiguo. Denota sia un insieme di programmi di spesa statali, sia
un modello di società che poggia sull’attuazione di tali programmi. Ma esso non
può essere ricondotto semplicemente ad una quantità di spesa pubblica o a
specifici programmi statali volti al soddisfacimento di determinati bisogni. E’ un
concetto che va collegato al processo di modernizzazione nel suo complesso e
quindi considerato come una risposta alle sfide e alle domande che
provengono dalla società, come l’introduzione di specifici diritti sociali, che
costituiscono la base di un nuovo legame fra cittadino e Stato
2
. Si può quindi
definire il welfare state come “un insieme di interventi pubblici connessi al
processo di modernizzazione, che forniscono protezione sottoforma di
assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, introducendo specifici diritti
sociali nel caso di eventi prestabiliti, nonché specifici doveri di contribuzione
finanziaria”
3
.
Questa definizione consente di tracciare dei limiti temporali e spaziali fra i vari
modelli di welfare che si sono succeduti nel tempo nei vari paesi.
Configurandosi come un sistema di solidarietà istituzionalizzata, i modelli di
welfare possono essere classificati a seconda dell’ambito di solidarietà coperto,
cioè dell’ampiezza della popolazione protetta dai suoi programmi, il che ha in
1
Sembra che il termine sia stato utilizzato per la prima volta negli anni trenta in Inghilterra, in un
discorso dell’arcivescovo di Centerbury, che la utilizzò per contrastare il warfare state nazista con il
welfare state britannico (Ashford D., (1986), “The emergence of the welfare state”.).
2
Ferrera M., (1993), “Modelli di solidarietà”, il Mulino,Bologna.
3
op. cit. Nota 2
2
sé delle implicazioni redistribuitive, incide sulla direzione del flusso
redistribuitivo operato dai programmi di spesa sociale. Infatti la scelta di uno
schema di protezione sociale collegato alla posizione del soggetto nel mercato
del lavoro, privilegia una redistribuizione orizzontale fra categorie, mentre la
scelta di uno schema rivolto all’intera popolazione, quindi universale, privilegia
una redistribuizione verticale, fra le varie fasce di reddito della popolazione.
Partendo da questo criterio di classificazione, - il grado di copertura - si
possono distinguere due grandi categorie di welfare state: il modello
occupazionale ed il modello universalistico
4
.
Il modello di welfare occupazionale è caratterizzato da un ambito di solidarietà
ristretto e frammentato, limitato a determinate categorie di cittadini, a seconda
della loro posizione nel mercato del lavoro. Infatti, i paesi che appartengono a
questa categoria hanno esordito introducendo schemi di protezione riservati ai
soli lavoratori dipendenti, per poi ampliare la popolazione protetta attraverso
piccole inclusioni categoriali, istituendo nuovi schemi di protezione distinti ed
autonomi, sia dal punto di vista finanziario e sia gestionale, generando così una
moltitudine di comunità di rischio
5
.
All’estremo opposto si colloca il modello universalistico dove la comunità di
rischio coincide con la popolazione residente e quindi la protezione dai rischi
economico-sociali costituisce un vero e proprio diritto di cittadinanza esigibile a
prescindere dalla categoria lavorativa di appartenenza.
All’interno di questo continuum “frammentazione occupazionale -
universalismo” si collocano casi misti, in cui le caratteristiche dei due modelli
puri si sovrappongono.
Si può individuare, quindi, un modello universalistico misto, caratterizzato da un
doppio livello di protezione sociale: uno di base costituito da schemi di
sicurezza sociale ad ampia copertura, con prestazioni omogenee ed a somma
fissa, al quale si sono aggiunti schemi di protezione occupazionali, finanziati
tramite contributi e con prestazioni collegate alla retribuzione; quindi in questi
casi la frammentazione occupazionale è sorta da un sostrato universalistico
6
.
Infine il modello occupazionale misto ha seguito una strada opposta a quello
4
op. cit. Nota 2
5
op. cit. Nota 2
6
op. cit. Nota 2
3
universalistico misto, cioè da un sostrato e tradizione di frammentazione
occupazionale sono sorti schemi di protezione con caratteristiche
universalistiche. Infatti in questo tipo di modelli il carattere occupazionale resta
dominante sia per la precedenza temporale, sia nella sua dimensione
quantitativa, ma vi è presente almeno uno schema di protezione a copertura
nazionale incentrato sul principio della cittadinanza.
Il modello a cui appartiene l’Italia è questo, quello occupazionale misto, dove i
sistemi pensionistico e sanitario sono sorti su un’impostazione occupazionale
7
per poi definirsi nella sua completezza solo nel 1978 con l’istituzione del
sistema sanitario nazionale a copertura universalistica , liquidando il
precedente sistema di mutue occupazionali.
Il nostro sistema di sicurezza sociale nacque alla fine del XIX secolo con
l’introduzione di schemi di sicurezza sociale che delineavano un sistema
previdenziale – occupazionale, attraverso provvedimenti che furono in larga
parte concessioni dall’alto
8
, i cui beneficiari erano i lavoratori dipendenti, in
particolare del settore industriale. Essendo legato al mercato del lavoro, il
sistema di sicurezza sociale rispecchiava le sue caratteristiche strutturali, ossia
un’accentuata frammentazione sia settoriale che territoriale. Ricevuto in
eredità questo sistema, estremamente frammentato, nel 2° dopoguerra
l’Assemblea Costituente fissò importanti principi universalistici e di
uguaglianza
9
, riconoscendo a tutti i cittadini pari dignità ed uguaglianza, sia
riguardo ai diritti politici e civili, sia riguardo ai diritti sociali, elemento
caratterizzante dei modelli di welfare state. Si è così configurata una situazione
anomala, caratterizzata dalla sovrapposizione tra principi categoriali e selettivi
del sistema sociale ricevuto in eredità dal passato e criteri universalistici fissati
nella Costituzione.
7
op. cit. Nota 2
8
op. cit. Nota 2
9
Costituzione, art. 3 ”Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti la legge ,senza
distinzione di sesso,di razza,di lingua,di religione,di opinione politiche,di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale ,che,limitando di fatto
la libertà e l’uguaglianza dei cittadini ,impedisce il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica ,economica e sociale del Paese.”
Costituzione, art. 38: ”Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha
diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in
caso di infortunio,malattia,invalidità e vecchiaia,disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati
hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L’assistenza privata è libera.