2
Le Regioni sono quindi un’invenzione
1
della Costituzione, una
dimensione “intermedia”
2
e inedita tra le esperienze federali e
l’assetto tradizionale dello Stato centralizzato con deboli autonomie
amministrative
3
; ed è affermazione generalmente condivisa dalla
dottrina prevalente
4
, che la regionalizzazione dello Stato nacque
dall’esigenza di creare un reale pluralismo istituzionale capace di
garantire un’ampia libertà alle diverse collettività territoriali, nel
perseguimento e nella gestione di interessi locali, mediante ampi
poteri anche di grado legislativo
5
.
1
R. BIN, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, in Le Regioni, n. 4/2001, 614.
2
Definita così da Gaspare Ambrosini, personaggio che dominò i lavori della Costituente
insediatasi nel 1946.
3
La dottrina prevalente è concorde nel concepire entrambe le forme di Stato (regionale e federale),
come “sottotipi” dello Stato unitario, essendo queste formule utilizzate per descrivere il più o
meno intenso grado di decentramento compatibile con la loro unità attuato all’interno degli
ordinamenti statali. Si può dire, con intento esemplificativo, che la Regione equivale,
nell’ordinamento di cui fa parte, alle unità costitutive dello Stato federale comunque denominate:
Cantone, Land, Provincia, Stato membro. In entrambi i casi gli enti territoriali non possono essere
considerati sovrani: infatti, gli organi centrali dello Stato esercitano poteri che, sia per la
legittimazione loro attribuita dall’ordinamento giuridico, sia di fatto, sono superiori a quelli di ogni
altro elemento dello Stato persona. Lo stesso potere dell’ente di darsi una propria Costituzione o
Statuto che dir si voglia, deve essere esercitato nei limiti ad esso imposti dalla Costituzione. Sul
tema , cfr. per tutti, V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, I, Padova, 1970, 71 ss.; C.
MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, II, 1976, 1511 ss.; F. CUOCOLO, Diritto
regionale italiano, Torino, 1991, 3 ss.; L. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova 1991, 51 ss.;
T. MARTINES - A. RUGGERI, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 1987, 32 ss.; R. BIN,
Reinventare i Consigli, Il Mulino n. 3/2000, 456 ss.
4
Cfr., per tutti F. CUOCOLO, Vent’anni di autonomia regionale fra concentrazione e
decentramento, in AA.VV., Le Regioni. Bilancio di vent’anni, Edizioni Scientifiche, Napoli 1991,
21 ss. e P. CARETTI, Il nuovo assetto delle competenze normative, in AA.VV, Le autonomie
territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale, G. BERTI e G.C. DE
MARTIN (a cura di), Milano 2001, 57 ss.
5
Cfr. in proposito E. FOLLIERI, L’organizzazione amministrativa degli enti pubblici territoriali e
degi altri enti pubblici, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna 2001, 688, l’autore evidenzia
come la varietà dei tipi di enti pubblici non rispecchia alcun disegno se non l’”espressione del
momento storico e delle necessità e interessi che si intendevano soddisfare quando sono stati
istituiti”, esigenze che pongono il “nuovo” lasciando il “vecchio”; A. RUGGERI,
Neoregionalismo, dinamiche della normazione, diritti fondamentali. Relazione al Convegno su
“Regionalismo differenziato: il caso italiano e spagnolo”, Messina 18-19 ottobre 2002, in rete:
www.associazionedeicostituzionalisti.it, ritiene che l’autonomia “realizza se stessa col fatto stesso
di mostrarsi, ad un tempo, e nella stessa misura, adeguata ai bisogni emergenti nel territorio ed ai
valori coi quali essa fa sistema, al punto di incidere sul modo stesso con cui i bisogni si formano e
manifestano, indirizzandoli naturalmente verso i valori ed obbligando i valori stessi (e i principi
che ne sono espressione) a piegarsi sui bisogni, vale a dire a caricarsi di significati idonei ad
offrire la massima, alle condizioni storicamente date, protezione ai bisogni”.
3
E’ da evidenziare, nell’ottica di quanto segue, la centralità dell’art.
5 della Costituzione repubblicana
6
: esso contrappone ed armonizza da
un lato, l’unità
7
e l’indivisibilità
8
della Repubblica, dall’altro la
distribuzione delle funzioni pubbliche mediante le autonomie locali e
il decentramento amministrativo.
Il Titolo V prospetta la distinzione tra i due tipi di Regioni, quelle
ad autonomia ordinaria e quelle ad autonomia speciale
9
, rinviando per
la disciplina di queste ultime ai rispettivi statuti adottati con altrettante
leggi costituzionali
10
.
Tuttavia, il sistema nel suo complesso presenta, quanto alle sue
linee fondamentali, una essenziale omogeneità di fondo, che giustifica
una considerazione congiunta, salva la necessità di dare conto delle
6
Disposizione originariamente collocata in apertura del Titolo V della parte II della Costituzione,
nella redazione definitiva fu scorporata e collocata nella parte della Costituzione dedicata ai
“Principi fondamentali”, principi “supremi” che fungono oltre che da limiti di revisione alla
Costituzione e all’ingresso del diritto comunitario nel nostro sistema, come strumenti essenziali di
interpretazione e di integrazione del testo costituzionale, sul punto v. A. ANZON, I poteri delle
Regioni dopo la riforma della Costituzione, Il nuovo regime e il modello originario a confronto,
Torino, 2002, 69.
7
Il riferimento può leggersi nel senso che l’Italia è uno Stato unitario, in cui all’unità politica della
collettività nazionale corrisponde la “Repubblica” come unico ed esclusivo centro di imputazione
della sovranità statale.
8
Essa implica il divieto assoluto di smembramento della Repubblica in più Stati indipendenti.
9
Tranne il Friuli-Venezia Giulia, costituita nel 1963 (fino ad allora vigeva l’incertezza sullo status
di questa “terra di confine”), le altre Regioni ad autonomia speciale: Valle d’Aosta, Sicilia,
Trentino-Alto Adige e Sardegna, nacquero prima dell’approvazione della Costituzione
repubblicana (e quindi prima della costituzione delle Regioni ordinarie), allo scopo di arginare le
spinte separatiste, o per assicurare protezione a minoranze linguistiche, o ancora per tamponare le
particolari condizioni di arretratezza dovute a ragioni economico-sociali e morfologiche del
territorio.
10
Cfr. tra i tanti, T. MARTINES, Diritto Costituzionale, cit., 778; M. MAZZIOTTI DI CELSO,
Legge regionale, in Enc. giur., XXVIII, Roma 1990, 3 ss. Mentre i “tipi” di potestà legislativa
delle Regioni ad autonomia ordinaria sono uguali per tutte, il particolarismo e la frammentazione
che permea il nostro ordinamento regionale, si appalesa nei diversi “tipi” di potestà legislativa
attribuiti alle Regioni ad autonomia speciale, regolati, per ciascuna di esse dal rispettivo statuto, ne
deriva che una Regione speciale, non solo può differire da quelle ad autonomia ordinaria, ma
anche dalle altre Regioni ad autonomia speciale. Quindi lo stesso Titolo V, mentre costituisce la
fonte di ogni disciplina delle prime, non si applica dunque, in via di principio alle Regioni speciali,
che soggiacciono invece alla rispettiva disciplina derogatoria e perciò “speciale”, salvo che
nell’ipotesi di alcune lacune di questa, in cui il Titolo V può essere utilizzato per rimediarvi.
4
differenze quando indispensabile
11
. A conferma ciò infatti, la
distribuzione “di base” delle competenze sia legislative che
amministrative è identica sia per le Regioni ad autonomia ordinaria
che per quelle speciali
12
.
Le differenze scaturiscono dai diversi tipi di potestà legislativa
attribuite alle Regioni, in relazione a ciò si distinguono
13
:
una competenza legislativa regionale esclusiva (o piena o primaria)
di pertinenza delle sole Regioni ad autonomia speciale, e delle
province autonome di Trento e Bolzano; tale potestà poteva essere
esercitata nelle materie indicate dai rispettivi Statuti, ed era definita
appunto “esclusiva” in quanto escludeva, o avrebbe dovuto
escludere
14
sulla materia, la competenza legislativa statale, o
quantomeno quest’ultima avrebbe inciso solo limitatamente
15
.
Tale potere, a salvaguardia dell’unità e dell’indivisibilità della
Repubblica, in aggiunta all’ovvio rispetto della Costituzione, era
arginato da un lato da limiti di merito quali l’interesse nazionale e
11
Così A. ANZON, I poteri delle Regioni dopo la riforma della Costituzione, cit., 75, che
sottolinea come la specialità di tali Regioni sia stata nella pratica e soprattutto nella giurisprudenza
costituzionale progressivamente ridotta sia per quanto riguarda le caratteristiche differenziali di
una Regione rispetto all’altra, sia nei confronti dell’autonomia delle Regioni ordinarie.
12
Il riferimento è al limite territoriale e a quello delle materie, tassativamente enumerate sulle
quali le Regioni hanno competenze legislative e (in base al principio del parallelismo),
amministrative.
13
Per quanto segue cfr., per tutti, F. CUOCOLO, Istituzioni di diritto pubblico, Milano 1998, 572
ss.; T. MARTINES, Diritto Costituzionale, Milano 1992, 817 ss.; Cfr., V. CRISAFULLI, Lezioni
di diritto costituzionale, II, Padova, 1984, 120 ss.; A. D’ATENA, Legge regionale (e provinciale),
in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973, 969 ss.; R. BIN, Legge regionale, in Digesto delle Discipline
Pubblicistiche, IV ed., vol IX, Torino, 173 ss.
14
M. OLIVETTI, L’Italia verso il federalismo? Il sistema italiano delle autonomie dopo la
riforma costituzionale de 2001, in AA.VV., Federalismo y regionalismo. Memoria del VII
Congresso Iberoamericano de Derecho Constitucional, Doctrina juridica, n. 103, Universidad
Nacional Autonòma de Mèxico, 2002, 369, l’autore sottolinea, come tale competenza “piena” sia
stata nella prassi “schiacciata” sul modello della competenza concorrente e “appiattita su spazi
non più ampi di quelli spettanti al Regolamento”.
15
A testimonianza dell’importanza di questa “incidenza”, è significativo che tre Statuti speciali, il
valdostano, il sardo e quello del Trentino-Anto Adige, prevedessero espressamente che
l’autonomia delle rispettive Regioni avrebbe dovuto svolgersi entro l’”unità politica della
Repubblica”.
5
gli interessi delle altre Regioni, dall’altro da limiti di legittimità
affidati alla vigilanza della Corte Costituzionale
16
.
Per le Regioni ordinarie invece, il vecchio testo dell’art. 117 Cost.,
al primo comma prevedeva una potestà legislativa ripartita (la
disciplina di ciascuna materia è ripartita tra lo Stato, che stabilisce i
principi, e la Regione, che detta le norme di dettaglio), o
concorrente (a disciplinare la materia concorrono, secondo le
modalità surriferite, sia lo Stato che la Regione).
Essa si caratterizzava per il fatto di essere sottoposta, oltre che ai
limiti suesposti, anche al limite interno rappresentato dai principi
fondamentali
17
stabiliti, per ciascuna materia oggetto della
elencazione, dalle leggi statali di settore, le cd. leggi-cornice
18
.
L’ultimo comma dell’art. 117 Cost. prevedeva la potestà legislativa
di attuazione; essa, veniva demandata alle Regioni (ad autonomia
ordinaria), con leggi statali, che individuavano la materia e
conferivano, volta per volta il potere de qua; per tale ragione
16
Rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, delle norme fondamentali delle leggi
statali di riforma economico-sociale, e obblighi internazionali.
17
Si tratta di un limite peculiare di questo tipo di potestà legislativa regionale, che si distingue in
base a criteri quantitativi da quello dei “principi dell’ordinamento giuridico” condizionanti la
competenza esclusiva delle Regioni speciali. I primi devono risultare da disposizioni contenute in
leggi dello Stato, mentre i secondi, proprio per il grado di astrattezza, di regola non si prestano ad
essere espressi in specifiche disposizioni. Sul tema cfr., T. MARTINES, Diritto Costituzionale,
cit., 822, l’autore ribadisce (e solleva a riguardo dubbi di legittimità costituzionale), come con
l’art. 17 della legge 16 maggio 1970, n. 281, si sia istituzionalizzata la regola, che la prassi aveva
fino a qual momento di fatto seguito, secondo cui in mancanza di leggi-cornice, le Regioni
potevano presumere i principi fondamentali dalle leggi vigenti, stabilendo di contro che detti
principi avrebbero potuto in futuro “risultare” da leggi che “espressamente” li stabilissero; l’autore
de definisce questa manovra normativa un “escamotage” resosi necessario per mettere le Regioni
in condizione di legiferare; V. anche L. PALADIN, La potestà legislativa regionale, Padova,
1958, 143 ss, che sottolinea come, dal confronto tra l’VIII e la IX disp. trans., emerga la non
necessarietà della previa emissione di leggi-cornice per l’attivazione della potestà normativa
concorrente.
18
Sull’argomento cfr. per tutti, F. CUOCOLO, Le leggi cornice nei rapporti fra Stato e Regioni,
Milano 1967, 79 ss.; A. RUGGERI, Ancora in tema di leggi statali e leggi regionali su materie di
competenza ripartita, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1997, 277 ss.; T. MARTINES,
Diritto Costituzionale, cit., 823. Secondo questi autori (espressione di gran parte della dottrina), le
leggi-cornice sono leggi di “indirizzo politico”, “leggi direttiva”, “leggi di riforma”, il cui
contenuto ha carattere innovativo e fissa il “binario politico” sul quale la legislazione regionale
deve muoversi, a salvaguardia dell’unità degli interessi nazionali.
6
questa potestà è definibile come “delegata” o “facoltativa”
19
.
Il fatto che la Costituzione non parli di leggi, bensì di norme, ha
fatto argomentare parte della dottrina circa la natura formalmente
legislativa o regolamentare, dell’atto con cui le norme d’attuazione
vengono emanate, propendendo peraltro per la prima tesi
20
.
La potestà attuativa si arricchiva
21
, per le Regioni ad autonomia
speciale (con esclusione della Sicilia), della facoltà di emanare,
nelle materie indicate ad hoc da ciascuno statuto (o anche da leggi
dello Stato), norme di integrazione delle disposizioni delle leggi
statali, affinché le stesse fossero adeguate dalle Regioni, in base
alle loro diverse e particolari esigenze
22
.
E’ utile sottolineare, nell’ottica della prossima trattazione
dell’argomento, come il Progetto di Costituzione redatto dalla
Commissione dei 75 e sottoposto all’Assemblea Costituente nel
gennaio del 1947, fosse molto più audace di quanto sia stato trascritto
poi nella Carta fondamentale
23
, e bastano pochi cenni per rendersene
conto: ab origine la potestà primaria e quella integrativa sarebbero
dovute spettare anche alle Regioni ordinarie, e la potestà ripartita
19
P. CAVALERI, Diritto regionale, Padova, 2003, 130.
20
Cfr., per tutti I. FASO, Le minori potestà legislative delle Regioni, Milano, 1975, 86 ss.
21
Sulla potestà integrativa “istituzionalizzata”, vedi A. D’ATENA, Potestà regionale integrativa e
disposizioni di attuazione degli Statuti speciali, in Giur. cost., 1971, 1073 ss.
22
V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, op. cit., 120.
23
Sulla natura compromissoria della Costituzione, cfr., T. MARTINES, Diritto Costituzionale,
cit., 767 ss.; M. OLIVETTI, L’Italia verso il federalismo?, cit., 365 ss., mediante una sorta di
“fotografia storico-politica” dell’Italia dell’immediato dopoguerra, gli autori evidenziano le
principali ragioni della “timidezza della Costituzione del 1947 nella traduzione operativa, per quel
che riguarda i poteri delle Regioni, del principio autonomistico”, e il ridimensionamento nel testo
costituzionale rispetto ai “progetti di un regionalismo realmente innovatore”. Lo scenario politico
che si presentava ai padri costituenti era, all’indomani della caduta del fascismo e della monarchia,
caratterizzato da spinte opposte: la forte ideologia “centrifuga” della Democrazia Cristiana (lo
stesso fondatore De Gasperi individuava le Regioni e la separazione verticale del potere come un
“antidoto contro il totalitarismo”), trovava le resistenze “centripete” delle sinistre dell’epoca (esse
consideravano il regionalismo, come limite alla possibilità di realizzare le riforme sociali che
ritenevano necessarie per l’Italia dell’epoca). Non ultimi i “timori” dei liberali, per i quali
l’autonomismo regionale se pur nella cornice del principio fondamentale dell’indivisibilità della
Repubblica (art. 5 Cost.), era considerato un pericolo per la “faticosamente raggiunta” unità
nazionale.
7
sarebbe stata soggetta a limiti meno stringenti di quelli confermati nel
testo definitivo, dal momento che il limite dei principi (le leggi-
cornice), sarebbe stato solo eventuale.
La nostra, come e più di altre Costituzioni coeve, si caratterizzava
(e si caratterizza), per il fatto di delineare un progetto "forte" di
cambiamento della società
24
, tuttavia, malgrado la portata rilevante del
suo art. 5 e della sua ampia apertura verso il regionalismo
25
, il nostro
restava un ordinamento prevalentemente incentrato intorno al
legislatore e all’amministrazione statale; un ordinamento tutto
orientato a privilegiare e a garantire le ragioni di quell'eguaglianza
formale e sostanziale, che, in ossequio all'art. 3 della Costituzione,
doveva essere il risultato, oltre che della rimozione delle differenze
legate alle condizioni economiche e sociali, anche del divieto di
discriminazione ratione loci.
24
F. PIZZETTI, La ricerca del giusto equilibrio tra uniformità e differenza: il problematico
rapporto tra il progetto originario della Costituzione del 1948 e il progetto ispiratore della
riforma costituzionale del 2001. La relazione è stata tenuta al corso SPISA, 6 maggio 2002, in
rete: www.giurcost.org.
25
A. D’ATENA, Le vicende del regionalismo ed i problemi della transizione al federalismo, in
Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari della Camera dei deputati, n. 2/1994, 18
ss., l’autore sottolinea la logica decisamente garantistica del nostro modello regionale, confermato
innanzitutto dalla circostanza che la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni è
direttamente stabilita da fonti costituzionali; costituzionalizzazione rivolta a porre il riparto
medesimo al riparo da interventi del legislatore ordinario statale.
8
1.2. La crisi del modello tradizionale e le esigenze federaliste
Il modello policentrico di produzione normativa delineato dalla
Carta Costituzionale, con tutto il suo carico di compromessi storico-
politici, volti a contemperare le esigenze di unità ed indivisibilità
dell'ordinamento, da un lato, e di rispetto dell'autonomia politica
regionale dall’altro, a trent'anni dalla sua attuazione non sembrava
aver affatto raggiunto gli obiettivi per i quali era stato concepito,
soprattutto alla luce dello scarso valore qualitativo e quantitativo della
produzione normativa regionale
26
.
Si è registrato infatti, un sempre più marcato e preoccupante
fenomeno di ”atrofia”
27
nell’esercizio del potere legislativo da parte
dei Consigli regionali, palesando la crisi del tradizionale modulo
giuridico, quello “euclideo”
28
, caratterizzato dalla rigida separazione
dualistica delle competenze tra centro e periferia
29
.
26
C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 1514; A. D’ATENA, Lezioni tematiche di
diritto costituzionale, 1996, 53.
27
Così P. CARETTI, Il nuovo assetto delle competenze normative, cit., 58, che nella sua
interessante dissertazione, opinando su studi condotti su una campionatura di Regioni (ad
autonomia ordinaria e speciale), richiama l’attenzione sulla scarsa produzione legislativa (in media
0-5 leggi all’anno) e sulla subordinazione della legge regionale a quella statale, che pur non
rientrando tra i canoni del rapporto gerarchico, confinava la normativa regionale ad una funzione
di dettaglio, reso manifesto dalla proliferazione di una “microlegislazione di settore” (meramente
riferita a di leggi di spesa e di tipo organizzativo). La legge regionale, era, nella prassi,
amministrativizzata, succube del pregnante ossequio nei confronti della legislazione statale sui
principi.
28
Cfr. S. BARTOLE, Intervento, in “Regioni: politica o amministrazione?”, Milano, 1973, 285; R.
BIN, Legge regionale, cit. 174, gli autori criticano il cd “principio del terzo escluso”, il quale, in
un’ottica di incomunicabilità tra centro e periferia, non prevedeva aree di sovrapposizione tra le
competenze di Stato e Regioni, considerati, secondo un’impostazione definita “paleo-
regionalistica”, alla stregua di due “rette parallele destinate a non incrociarsi mai“.
29
Sulla separazione/integrazione delle competenze crf., A. RUGGERI, Riforma del Titolo V della
Costituzione e autonomie locali, in Nuove Autonomie, n. 4-5/2002, 545 ss.; F. PIZZETTI, I nuovi
elementi “unificanti” del sistema italiano: il “posto” della Costituzione e delle leggi costituzionali
ed il “ruolo” dei vincoli comunitari e degli obblighi internazionali dopo la riforma del Titolo V
della Costituzione, Torino, 6 maggio 2002, in rete: www.federalismi.it; A. RUGGERI, La
ricomposizione delle fonti in sistema nella Repubblica delle autonomie e le frontiere della
normazione, Intervento svolto al Convegno su “La funzione normativa di Comuni, Province e
Città metropolitane nel nuovo sistema costituzionale”, Trapani, 3-4 maggio 2002, in rete:
www.statutiregionali.it.
9
Il disegno della crisi del sistema, può partire da queste
considerazioni, per affondare poi nelle diverse ragioni politiche e
giuridiche, che hanno reso necessaria quella “valanga di riforme”
30
,
che si è abbattuta, soprattutto nell’ultimo decennio, sulle Regioni;
dopo anni di inerzia, durante i quali le diverse maggioranze
avvicendatesi alla guida del Paese nelle varie legislature hanno più o
meno apertamente manifestato diffidenze nei confronti delle
autonomie regionali, propendendo tutte per una supremazia
dell’”oltrapotente”
31
Stato, sulle autonomie locali
32
.
Una situazione del genere non poteva che riverberarsi sul potere
legislativo che la Regione rebus sic stantibus, era legittimata ad
esprimere; essa infatti, pur essendo già pesantemente privata, per
espressa previsione costituzionale, della competenza in materie
cruciali, attinenti al diritto penale, ai rapporti civili, al diritto
processuale e tributario, veniva ulteriormente penalizzata dal mancato
raccordo tra centro e periferia, e dalla mancata previsione
costituzionale di congegni in grado di comporre gli eventuali conflitti
tra indirizzo politico centrale e indirizzi politici regionali.
Nel tempo, quindi, la Regione è stata confinata ad una legislazione
attinente ai rapporti di diritto pubblico, e ha assistito inerme ad una
continua “riappropriazione”
33
di ambiti di competenza locale da parte
30
R. BIN, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, cit., 613.
31
M. MINGHETTI, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione,
Bologna, 1881 (ristampa anastatica 1992, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane), 240-2481.
Colpisce l’enfasi con la quale l’allora Ministro, già all’indomani dell’Unità d’Italia sottolineava
l’esigenza di una traslazione dell’autorità dal “centro alla circonferenza”.
32
L’attuazione tardiva delle Regioni ordinarie (solo nel 1970), è dovuta infatti all’ostruzionismo
della stessa Democrazia Cristiana, maggiore artefice del regionalismo in sede costituente, che per
decenni ha considerato le stesse come una minaccia alla propria leadership politica nazionale. Sul
tema v., M. OLIVETTI, L’Italia verso il federalismo?, cit., 370, e A. D’ATENA, Le vicende del
regionalismo ed i problemi della transizione al federalismo, cit., 18.
33
Sul tema della “precedenza” della legge statale, cfr. L. PALADIN, Diritto regionale, Padova,
1992, 247.
10
dello Stato, che, mediante legge ordinaria, attraverso un calibrato
utilizzo della normativa (soprattutto in ambito penale e tributario
34
),
introduceva sempre nuovi “meccanismi” attraverso i quali ingerirsi
sempre più nelle questioni regionali, relegando gli enti locali a
funzioni integrative, sussidiarie, e, spesso meramente attuative, di
disposizioni centrali
35
.
Il ruolo marginale, e spesso quindi neppure necessario, della legge
regionale, è stato ulteriormente alimentato dalla inaffidabilità politica
delle stesse Regioni, nei confronti delle quali, in nome di un non
sempre precisato “interesse nazionale”, si giustificava il
“protettorato”
36
statale su di esse.
34
Autorevole dottrina non ha esitato a definirla quale situazione di “inflazione ipertrofica”, cfr. R.
BIN, Legge regionale, cit., 180; L. PALADIN, Diritto regionale, cit., 73.
35
Sul tema cfr. tra i tanti, F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di governance in un sistema
policentrico esploso, in Le Regioni n. 6/2001, 1153 ss.; M. LUCIANI, Le nuove competenze
legislative delle Regioni a statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici
della l. cost. n. 3 del 2001, in Seminario su “Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione –
Primi problemi della sua attuazione”, Bologna 14 gennaio 2002, in rete:
www.associazionedeicostituzionalisti.it; F. PIZZETTI, I nuovi elementi “unificanti” del sistema
italiano... cit.; A. RUGGERI, Neoregionalismo, dinamiche della normazione, diritti fondamentali,
cit.; A. DE ROBERTO, Il sistema delle fonti dopo la riforma del Titolo V della Costituzione,
relazione al Convegno sul “Sistema delle fonti normative dopo il Titolo V”, Catania, 7 giugno
2002, in rete: www.associazionedeicostituzionalisti.it. In particolare, l’autore sottolinea come
nonostante un unilaterale (e valido solo per le Regioni) divieto di sconfinamento legislativo, lo
Stato, forte dell’ottocentesco primato, custodito nella Carta Fondamentale, disponeva, in vista
della produzione normativa, di “sconfinati prati verdi nei quali galoppare senza limiti”. Quanto
poi al ruolo svolto dalla Corte Costituzionale, v. ancora R. BIN, Legge regionale, cit., 179.
Essendo i poteri riconosciuti alle Regioni, e le modalità di ripartizione degli stessi con lo Stato,
indisponibili, in quanto stabiliti da norme di rango costituzionale, la Suprema Corte, era (ed è)
investita, in qualità di giudice di costituzionalità delle leggi, del giudizio sugli atti ritenuti lesivi
delle rispettive sfere di competenza. Si sottolinea come l’introduzione della funzione di indirizzo e
coordinamento, dei poteri sostitutivi, e dei “meccanismi” destinati ad operare originariamente solo
piano dell’attività amministrativa, ma poi estesi anche a quello della legislazione, sono stati
confortati dalla “complicità” della stessa Corte, le cui “imbarazzanti” decisioni propendevano a
favore della causa del centralismo, quale sorta di conseguenza naturale necessaria del ruolo
unificante svolto dal legislatore e dall’amministrazione centrale.
36
R. BIN, Legge regionale, cit., 178 ss., tra le ragioni della crisi ordinamentale ha avuto
importanza notevole l’atteggiamento del cd. personale politico locale, per il quale l’ente locale non
era un obiettivo finale, bensì una mera tappa di un “cursus honorum” verso cariche centrali; da qui,
in un’ottica di continuità politica centro-periferia, è stata consequenziale l’avocazione al centro
delle decisioni “locali cruciali”. L’autore sottolinea in particolar modo la retinenza degli organi
centrali ad una responsabilizzazione amministrativa troppo pregnante senza che su du essa non vi
fossero “poteri di cogestione, di indirizzo-coordinamento e di sostituzione”.
11
Ad un siffatto scenario si aggiungano ulteriori “zavorre” di
carattere giuridico dalle quali emerge l'assoluta incapacità del Titolo
V, così come previsto nella sua impostazione originaria, di soddisfare
eventuali spinte autonomistiche locali.
In particolare, si pensi alla fittissima trama di limiti imposti al
legislatore regionale, e ai controlli preventivi sul loro rispetto da parte
del Governo, alla pratica delle leggi-cornice dettagliate, aventi
carattere dispositivo-suppletivo rispetto ad un successivo (ma in realtà
solo eventuale) intervento del legislatore regionale, e, non ultima, la
stessa utilizzazione di clausole generali di incerta interpretazione e
applicazione per la definizione di quei “cippi confinari”
37
che
ripartivano la competenza normativa tra Stato e Regioni.
Quanto (se pur brevemente) esposto, non lascia dubbi su come la
sostanziale desuetudine del Titolo V
38
sia il punctum crucis della crisi
che ha attraversato (e sta attraversando) il nostro ordinamento; una
crisi, quella dello Stato-nazione, che si innesta in uno scenario
riguardante la maggior parte dei paesi nella nuova geopolitica della
fine del ‘900
39
.
Dal secondo dopoguerra ad oggi, s’è avvertita, infatti, in Europa e
nel mondo, una generale reazione allo statalismo, e si è azionata una
generalizzata presa di coscienza di quanto il centralismo esasperato
37
R. BIN, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, cit., 614.
38
Sul punto cfr. A. D’ATENA, Le vicende del regionalismo ed i problemi della transizione al
federalismo, cit., 17 ss., e R. BIN, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, cit.,
615, l’autore si spinge oltre, definendo le autonomie locali “decostituzionalizzate”, in
considerazione del ruolo primario svolto dalla legge ordinaria, dalla prassi e dalla stessa
giurisprudenza costituzionale rispetto ai dettami del Titolo V della Costituzione.
39
Cfr. in proposito G. MIGLIO, Modernità del federalismo, pubblicato su Il Sole-24 Ore del 10
luglio 1990, con il titolo: Ma è nel federalismo che emerge la modernità; G. TREMONTI, La
questione federale, in rete: www.fedlib.it, l’autore parla a riguardo di una crisi vasta quanto è stata
quella dell’Ancien Regime della fine del ‘700; ci troviamo a vivere un periodo storico in cui “lo
Stato-nazione è troppo piccolo, rispetto ai fenomeni che si sviluppano su scala mondiale, e troppo
grosso, rispetto alle esigenze di governo locale.
12
abbia avvilito (e possa avvilire ancora) energie di importanza vitale
per lo sviluppo locale (e non solo).
Ciò ha scatenato un rilancio di attenzione per i modelli
federalistici, non più limitati alla tradizionali esperienze tipicamente
federali degli Stati Uniti, del Canada, della Germania, della Svizzera
40
,
ma utilizzati come moduli per risolvere situazioni politiche diverse (si
pensi al modello federale proposto per la convivenza delle diverse
etnie nell’Iraq post Saddam Hussein).
Tirando le fila, questo inizio di secolo è stato di importanza
cruciale per l'evoluzione istituzionale italiana.
Da un lato il Paese avanza, insieme con gli altri paesi membri
dell'Unione Europea
41
, sulla via di una integrazione sovranazionale
sempre più stretta, non solo economica ma anche politica
42
, e al tempo
stesso, sulla via del decentramento dei poteri e delle funzioni di
40
Sui modelli cfr. P. CARROZZA, Intervento nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulle
tematiche inerenti alle modifiche all’art. 117 della Costituzione. Presso la I^ Commissione Affari
Costituzionali, seduta di martedì 28 gennaio 2003, in rete: www.camera.it; v. anche A. DE
TOCQUEVILLE, La democrazia in America, Milano, 1982, 156-160, l’autore, analizzando il
modello statunitense: “Basta osservare un momento gli Stati Uniti di America per scorgere tutti i
beni che essi traggono dall'adozione di questo sistema. Presso le grandi nazioni accentrate, il
legislatore è obbligato a dare alle leggi un carattere uniforme che non tiene conto della diversità
dei luoghi e dei costumi; ignaro dei casi particolari, non può procedere che con regole generali;
gli uomini sono dal canto loro obbligati a piegarsi alle necessità della legislazione, poiché‚ la
legislazione non può adattarsi ai loro bisogni e costumi; grande causa questa di torbidi e di
miserie. Questo inconveniente non esiste nelle confederazioni in cui i principali atti dell'esistenza
sociale sono regolati dal Congresso, mentre tutti i particolari sono lasciati alle legislazioni
provinciali”.
41
Nell’ambito della stessa Unione Europea, la maggioranza degli Stati sta assumendo modelli di
organizzazione federal/regionale: Austria, Spagna, Belgio, Francia, Gran Bretagna, Portogallo e
Polonia, e la stessa Europa si sta avviando a costruire una Costituzione basata sull’adozione di
istituzioni di tipo federale, cfr. sull’argomento B. CARAVITA, Per un federalismo equilibrato e
solidale, intervento al Seminario “Forma di governo e federalismo nell’Italia che cambia”, Roma,
16 gennaio 2002, in rete: www.federalismi.it.
42
Cfr P. J. PROUDHON, Perchè la natura dell’Italia è federalista, tratto da “Garibaldi et l’Unitè
italienne”, articolo apparso sull’Office de Publicitè il 17 settembre 1862, in rete:
www.statutiregionali.it; C. BARBERI, Il federalismo libertario, Ragusa, 1992, 92-109, si
ripropone quel modello, definito già all’epoca “europeista” sviluppato dal Cattaneo (anche se
permeato da un eccessivo idealismo), e seppur in modo diverso, anche da “europeisti della prima
ora” quali Mazzini e Proudhon, che vedevano nell'autonomismo non solo un rimedio
all'inefficienza (e alla corrutela) del potere centrale, ma teorizzarono l'idea di una federazione
europea vista come soluzione pacificatrice, all’indomani delle due guerre mondiali, tra i popoli del
Vecchio Continente.
13
governo, sta attuando un processo di organizzazione della Repubblica
secondo un modello federale
43
, nato sotto la forte pressione della Lega
Nord, e sviluppatosi, negli ultimi 5-6 anni, trovando un approdo
44
,
nella riforma del Titolo V, entrata in vigore oramai quasi due anni fa.
Il federalismo moderno, quello che il nostro ordinamento si sta
cucendo addosso
45
, non risponde solo ad un’esigenza di foedus (patto)
politico, ma è strumento di avvicinamento del potere ai cittadini; è
43
Sulla distinzione tra Stato federale e Stato (unitario) regionale, v. G. DE REYNOLDS, Cos’è il
federalismo?, testo tratto da: “Gonzagues de Reynolds, Coscience de la Suisse. Billets à ces
Messieurs de Berne, Neuchatel”, La Baconnière, 1938, 96 ss., i1 federalismo è una forma politica
nella quale molti piccoli Stati o città, allo scopo di meglio difendere la loro esistenza, mantenere la
loro indipendenza e promuovere i loro interessi comuni, consentono a sacrificare una parte della
loro sovranità, dando luogo ad un nuovo ordinamento e creando un potere centrale al quale
conferiscono un numero, maggiore o minore, di funzioni, ma con carattere esclusivo e sovrano. Il
federalismo differisce profondamente dal regionalismo e dal decentramento; lo Stato regionale
sorge per iniziativa dello Stato esistente, che attribuisce, con le procedure previste dal suo
ordinamento, ad enti appositamente creati rilevanti poteri di natura amministrativa e, a volte,
legislativa, in un ambito territoriale delimitato e senza alcuna attribuzione sovrana. È quindi il
potere preesistente che li crea e che conferisce loro un'esistenza legale. È da questo potere che
dipendono. Al contrario, il federalismo implica Stati sovrani che preesistano al potere centrale,
creandolo e attribuendogli liberamente, perché egli sia in condizione d'agire, dei sacrifici di
sovranità. Vi sono dunque nel federalismo due elementi costitutivi: gli Stati, le città che si
federano (elemento costituente), e il potere centrale che essi istituiscono (elemento costituito).
Secondo A. ANZON, I poteri delle Regioni dopo la riforma della Costituzione, cit., 23, Stato
federale e Stato regionale appartengono ad una medesima categoria e a distinguerli sarebbe
soltanto il grado e/o l’intensità dell’autonomia complessivamente riconosciuta ai centri minori; ciò
sarebbe ulteriormente confermato dalla considerazione che tra gli Stati “composti” la differenza
rilevante è piuttosto quella tra modelli “duali”, basati sul criterio tendenziale di separazione delle
competenze e della contrapposizione tra autorità centrali e locali, e modelli “collaborativi”, basati
sulla più o meno accentuata integrazione delle competenze e sulla cooperazione tra centro e
periferia, mentre resta sullo sfondo la loro forma federale o regionale.
44
Definito “impreciso e insoddisfacente” da B. CARAVITA, Per un federalismo equilibrato e
solidale, cit.
45
Molto critiche sono le considerazioni di S. BARTOLE, Ordinamento federale dello Stato, in A.
FERRARA e L.R. SCIUMBATA (a cura di) La riforma dell'ordinamento regionale. Le modifiche
al titolo V della costituzione, Milano, 2001, 70 ss. l’autore, prendendo spunto da chi, usando il
federalismo “a sproposito”, teorizza un passaggio (indolore) dall’ordinamento regionale a quello
federale, quasi fosse possibile distinguere nettamente “ciò che c’era prima da ciò che dovrebbe
esserci dopo”, sottolinea come invece il federalismo non appartenga all’Italia, e non si può pensare
di introdurlo sic et sempliciter “solo perchè qualcuno è andato alle fonti del Pò”; e D. RESTA,
Intervento nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sulle tematiche inerenti alle modifiche all’art.
117 della Costituzione. Presso la I^ Commissione Affari Costituzionali, seduta di martedì 28
gennaio 2003, in rete: www.camera.it, l’autrice sottolinea come le riforme già avviate, siano
“partite con il piede sbagliato”, perchè se l’intenzione è quella di fare del nostro un ordinamento
federale, più che sul Titolo V, si sarebbe dovuto intervenire sul Titolo I della Costituzione,
decidendo la forma di Stato, e modificando la struttura dello Stato attuale in base alla forma
prescelta. Invece sembra quasi si voglia “togliere un pezzetto di sovranità per volta [...] scavare
una fossa intorno ai piedi dello Stato sovrano, in modo da fargli perdere quota ed indebolirlo, per
poi attaccarlo ai lati, modificarlo e ribaltarlo”
14
funzionale ad una maggiore articolazione dei poteri pubblici;
rispecchia un’esigenza di coinvolgimento delle collettività territoriali
nelle decisioni economiche e nell’organizzazione dei servizi.
La via di questa evoluzione è indicata (e lo era già dal ’48), nella
Costituzione; all’art. 5 è fissato, infatti, non solo il fine dell'autonomia
e del decentramento
46
, ma anche un metodo: la Repubblica ha una
funzione irrinunciabile sia di garanzia della propria unità ed
indivisibilità, che di promozione delle autonomie; e la rinnovata (o
rinnovanda) forza dell'ordinamento regionale, sta tutta nella
valorizzazione delle diversità che caratterizzano le diverse Regioni
47
.
Il federalismo, quasi per definizione, non può essere omogeneo;
esso si basa proprio sulla possibilità di differenziazione. Non si può
contradditoriamente pretendere che le differenze siano uguali, ma lo
sforzo sta tutto nel congegnare tale asimmetria in modo tale da non
rompere il foedus stesso.
Il nuovo punto di vista, sul quale s’è puntellata la rinnovata
mentalità riformatrice, si basa proprio sulla valorizzazione delle
diversità in un’ottica di nuova cultura della responsabilità, senza la
quale l’autonomia rischierebbe di risultare sterile o addirittura
46
Autonomia e decentramento rispondono in modi differenti, alla medesima esigenza: la
distribuzione delle funzioni pubbliche dall’apparato centrale verso la periferia. L’autonomia
implica infatti che una quota di poteri sia assegnata ad enti distinti dallo Stato-persona, capaci di
provvedere ai propri interessi dando a sè stessi le regole della propria condotta: ad enti cioè che
siano titolari anche di una potestà normativa, che si estrinseca nella produzione di norme
equiparate a quelle dello Stato (a questa si affianca l’autonomia amministrativa, quella finanziaria
e quella politica). Il decentramento amministrativo comporta invece l’affidamento di funzioni ad
apparati periferici dello Stato, che facenti parte della sua organizzazione, ne subiscono la direzione
e il controllo. Sul punto v. A. ANZON, I poteri delle Regioni dopo la riforma della Costituzione,
cit., 71 ss.
47
Lo stesso Presidente della Repubblica non ha mancato, in più di un’occasione, di sottolineare
come le autonomie non confliggano col principio costituzionale di unità dello Stato: vedi in
particolare, C. A. CIAMPI, Intervento all’incontro con le autorità durante la visita nella Regione
siciliana, Palermo, 13 gennaio 2000: “La consapevolezza della necessità di crescita delle
autonomie e, per altro verso, il nuovo senso di appartenenza europea, non diminuiscono affatto
l'amore per la nostra Patria, l'Italia: anzi lo arricchiscono e lo rendono più forte”.
15
dannosa; si tratta sostanzialmente di uno strumento ad uso e consumo
della buona amministrazione, della semplificazione e dell’efficienza
delle diverse istituzioni.
In definitiva, s’è avvertita una generale esigenza di essere meglio
amministrati, di attrezzare il Paese per reggere con più efficacia la
doppia sfida della competizione globale e della integrazione europea,
con innovazioni istituzionali e politiche, fondate sull’essenziale e non
più prorogabile valorizzazione dell'autogoverno territoriale,
rafforzando al contempo, i meccanismi della cooperazione e coesione
nazionale.