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Introduzione
Da troppo tempo oramai l’Italia è un Paese incessantemente sotto accusa. C’è chi vuole vedere
nelle nostre difficoltà la fine dell’economia italiana, chi dichiara che abbiamo perso
competitività e, per questo, meritiamo un declassamento a livello di nazione, chi, ancora, ci
vede arrancare e identifica in noi una delle cause dei problemi dell’UE. Queste osservazioni
vengono poi ulteriormente avvalorate da fonti certamente autorevoli ma che, a mio avviso,
peccano di superbia e, forse, d’invidia nei confronti di una nazione tanto piccola eppure così
energica sotto alcuni aspetti. Già, perché viene spesso sostenuta la tesi secondo cui l’Italia non
sarà in grado di affrontare le sfide competitive del futuro se la sua economia continuerà ad
assomigliare a quella di un paese emergente: poco innovativa e fondata su settori a basso grado
tecnologico.
Viene, tuttavia, da chiedersi quanto di queste asserzioni corrisponda al vero. Siamo davvero così
poco innovativi, tecnologicamente avanzati e creativi come i Paesi emergenti cui sovente
veniamo paragonati?
Se si indaga la realtà con occhi più curiosi, meno disfattisti e, magari, con un pizzico di fiducia,
la risposta è assolutamente no.
Gli indici che ci condannano e ci rilegano a ruolo di paese satellite sono spesso basati su
presupposti non del tutto corretti
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. Nonostante l’enorme debito pubblico, nonostante le
innumerevoli crisi politiche, infatti, il tessuto economico è, seppur danneggiato, ancora in piedi.
Inoltre, non ritengo l’Italia il fanalino di coda d’Europa perché nei nostri distretti gli
imprenditori puri ci sono ancora e, sotto il profilo delle abilità, primeggiano in numerosi settori.
Infine, sono convinto che se anche qualche distretto è in crisi, ve ne sono molti altri che stanno
affrontando le difficoltà e dai quali si può apprendere come superare la recessione a livello di
Paese.
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Citando il professor Fortis: “In pochi immaginerebbero che una macchina per imballaggio (realizzata su misura per
una grande multinazionale) o una grande nave da crociera (alta come sei piani di un edificio e con a bordo un paio di
teatri ed un cinematografo) siano prodotti meno innovativi e complessi di un banale telefono cellulare o di uno dei
tanti computer entry level fatti serialmente in milioni di pezzi. Per le classificazioni statistiche internazionali è,
invece, così.” (Fortis, Gagliardi, Mauriello et al., 2013, p. 131).
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Si pensi, ad esempio, al settore del legno-arredo in Brianza. In molti distretti di questa industria
la crisi ha segnato duramente le aziende e imperversa tuttora. Dapprima l’ingresso dei
competitor asiatici, Cina in testa, ha fiaccato le imprese e sgonfiato i relativi fatturati. Poi il
crollo del mercato mobiliare in paesi strategici come gli Stati Uniti, la Spagna, la Danimarca e il
Regno Unito ha compresso le possibilità d’internazionalizzazione. Infine, la grande crisi del
2008 che, anche agevolata da una situazione politica non certo favorevole, ha messo in
ginocchio imprese, cittadini e Stato, inaridendo un mercato nazionale già ristretto per le nostre
PMI.
In un simile scenario, se si fosse dato ascolto alle ricerche internazionali, l’intero settore
avrebbe dovuto implodere su se stesso senza possibilità di resistere, ma così non è stato. Gli
imprenditori, consci d’una situazione interna difficile, hanno saputo alzare lo sguardo oltre i
confini nazionali alla ricerca di terre in qualche modo “vergini” in cui portare la qualità, il lusso
ed il bello della produzione italiana. Hanno conquistato mercati remoti e impensabili come la
Nigeria o l’Angola e hanno dimostrato che l’innovazione può essere il motore di un successo
duraturo.
Non tutti vi sono riusciti, ma fra quelli che hanno vinto la scommessa spicca sicuramente il
distretto del mobile della Brianza che, con i suoi grandi marchi e i piccoli artigiani, ha saputo
giocare d’anticipo proponendosi sin dalla sua nascita come distretto del design, del lusso e del
ricercato.
Da queste considerazioni nasce l’idea di comparare il distretto brianzolo a quello, in crisi, della
sedia di Manzano, di analizzarne la struttura, le caratteristiche e le strategie. Lo scopo:
comprendere quali siano le determinanti del successo brianteo, quali le cause più intime della
crisi manzanese e, quindi, quali i fattori strutturali che, se applicati, permettano di rilanciare
tanto il distretto della sedia quanto un generico distretto in difficoltà.
Evidente l’importanza di un simile lavoro che, nell’opinione dell’autore, dovrebbe essere svolto
con mezzi di più vasta portata anche da studiosi emeriti del settore poiché se non si sostiene
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l’economia dal basso, dagli artigiani e dai piccoli imprenditori che popolano i distretti si rischia
di cadere nella morsa di una crisi insuperabile.
Per condurre una simile ricerca, il metodo seguito è stato il seguente:
§ identificazione delle fonti: nel difficoltoso processo di ricerca dei dati, ho identificato
Intesa Sanpaolo, Osservatorio Distretti, Databank, Camera di commercio di Udine,
Camera di commercio di Monza e Brianza, Confindustria e Istat come principali fonti
da cui ottenere le informazioni relative ai distretti in analisi.
§ Elaborazione delle informazioni: una volta ottenuti i dati, per così dire, grezzi è stato
utile creare alcune tabelle riassuntive e relativi grafici con cui poter analizzare in
maniera più immediata e precisa le informazioni man mano raccolte.
§ Analisi dei risultati: dai grafici creati è stato poi possibile identificare i principali trend
evolutivi dei due distretti. Quest’analisi ha permesso di trarre delle conclusioni
aprioristiche sulle cause che hanno generato i risultati economici analizzati.
§ Creazione di un modello per il rilancio: l’ultimo step del processo è stata la creazione di
un modello per il rilancio dei distretti industriali che prendesse spunto dalle difficoltà, le
criticità ma anche i punti di forza delle due realtà esaminate con il fine di evitare i rischi
tipici dei distretti e, contemporaneamente, sfruttarne le potenzialità più o meno
nascoste.
Un simile lavoro non può prescindere dalle sue basi teoriche, al fine di rendere accessibile non
solo a esperti ma anche a neofiti la comprensione dell’argomento. Punto di partenza dell’intera
analisi è, dunque, la definizione di distretto industriale che, come verrà illustrato più oltre, è
stata variamente articolata da diverse correnti di pensiero nel corso della storia. Il primo capitolo
si sofferma, inoltre, sull’analisi di altre forme di sistemi produttivi per evitare che, come spesso
accade, venga fatta confusione.
Proseguendo, il secondo capitolo analizza la storia specifica dell’evoluzione dei distretti italiani
prendendo in considerazione il punto di vista di più studiosi (Colli, Fortis, Becattini…). Tale
digressione è propedeutica alla presentazione dell’attuale scenario competitivo in cui, nel terzo
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capitolo, s’inseriscono i distretti del mobile di Manzano, prima, e della Brianza, poi. L’analisi
da me condotta della redditività, della competitività e della struttura dei due distretti è quindi
fornita al fine di dimostrare che il successo economico di alcuni attori (il distretto brianzolo) e la
crisi di altri (il distretto manzanese) non dipende da cause congiunturali, ma da fattori strutturali
ben precisi.
Con il quarto capitolo si giunge, finalmente, ad un modello di mia creazione che si propone di
fornire, a quanti di quei distretti che sono in difficoltà, degli strumenti utili per superare la crisi
senza, tuttavia, la presunzione di porsi come La soluzione a ogni problema dei distretti
industriali italiani.
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1. I distretti industriali
1.1 Definizione di distretto industriale
Gli anni ’70 del secolo scorso hanno rappresentato un punto di svolta nella storia delle
economie occidentali. L’ambiente in cui le imprese si trovavano a competere diventò, quasi
improvvisamente, insicuro e colmo di insidie. Al boom economico del decennio precedente
seguì, infatti, un periodo di forte instabilità, politica ed economica, le cui cause strutturali e
congiunturali sono da ricercarsi principalmente nella guerra del Vietnam e nella cessazione
della convertibilità del dollaro in oro (1971). Questi fatti, unitamente al costante aumento del
prezzo del petrolio di quegli anni, portarono molte grandi imprese sull’orlo del precipizio,
costrette a vedere più che dimezzati i propri tassi di crescita.
Quelli che un tempo erano considerati punti di forza del modello fordista sembrano ora ostacoli
insormontabili
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e ben presto le grandi strutture industriali, la forte gerarchizzazione,
l’integrazione verticale, l’ampia produzione interna e la bassa specializzazione di fase lasciano
il posto ad una fitta rete di piccole e medie imprese più flessibili ed elastiche. Il decentramento
produttivo sembra, infatti, la soluzione migliore per abbassare i costi (in particolare quelli legati
al lavoro) e ridurre l’incertezza. L’obiettivo è di ottenere un sistema in grado di meglio adattarsi
ad un ambiente mutevole e dinamico.
La “fioritura della piccola impresa” (Piore) rappresenta dunque un elemento di superamento
dell’irrigidimento delle strutture sociali e produttive, dominate dal grande solco fra capitale e
lavoro, che caratterizza la precedente fase fordista del capitalismo (Becattini).
L’outsourcing strategico e la forte disintegrazione verticale verso imprese sub-fornitrici
maggiormente specializzate, cui molte imprese di grandi dimensioni danno inizio, rappresenta la
nascita di quei sistemi che, solo pochi anni più tardi, verranno definiti “Distretti industriali”
(D.I.).
In questo contesto ci si rende conto che, creando un sistema integrato di piccole e medie
imprese (talvolta con la presenza di una grande impresa guida), ogni azienda riesce a valorizzare
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Naturalmente
ciò
non
vale
per
tutte
le
grandi
imprese
multinazionali
dell’epoca.