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Il raggiungimento del potere all’interno dell’organizzazione aziendale è l’obiettivo
che accomuna tutti gli stakeholders dell’impresa. La proprietà, i dipendenti e le
organizzazioni sindacali, l’autorità tributaria, i finanziatori esterni, i clienti, i
fornitori: queste sono solo alcune delle classi che convergono nella gestione
dell’attività e che, inevitabilmente, entrano in conflitto al fine di raggiungere il
maggior livello possibile di potere e garantirsi il più alto valore aziendale.
La gestione strategica e operativa dell’attività viene distribuita tra i singoli gruppi di
stakeholders in relazione alle diverse forme e dimensioni che l’azienda può
assumere. Mentre in una piccola impresa la gestione del potere spetta
all’imprenditore-proprietario, in quanto questi è colui che rischia ed è quindi la
persona maggiormente motivata alla creazione del profitto, in una impresa di più
grandi dimensioni la distribuzione del potere risulta essere la conseguenza dei
conflitti tra i diversi gruppi di portatori di interesse.
Lo scopo di questo studio è l’analisi degli specifici conflitti di potere che nascono
nelle società per azioni che ricorrono all’indebitamento, tra i detentori dei diritti di
proprietà (gli azionisti) e i detentori dei diritti di credito (cioè i finanziatori esterni).
La ricerca è anche finalizzata ad esaminare fino a che punto i conflitti di potere
possono intensificarsi, con particolare attenzione al caso in cui l’impresa si trovi in
situazione di crisi finanziaria o insolvenza e debba, conseguentemente, subire dei
processi di rinegoziazione del debito con rafforzamento del potere dei creditori, al
fine di poter continuare la propria attività, evitando il fallimento.
Il primo capitolo introduce il tema trattato facendo riferimento alla configurazione
del modulo organizzativo dell’impresa. Questo viene introdotto come uno schema a
più livelli, i cui principali sono il livello proprietà e il livello controllo. Partendo
dalla configurazione del modulo organizzativo della grande impresa, si sottolinea
perciò il problema di partenza della separazione tra la proprietà e il controllo.
Vengono così introdotte le figure dei managers, agenti degli azionisti, e delle loro
aspirazioni in termini di potere e controllo sull’organizzazione aziendale. Mentre
nell’impresa di piccole dimensioni la massimizzazione del profitto coincide con la
massimizzazione dell’utilità dell’imprenditore-proprietario, nell’impresa di più
grandi dimensioni, solitamente costituita in forma di società per azioni, la
separazione tra proprietà e il controllo porta ad un conflitto tra gli interessi degli
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azionisti e quelli dei managers. La tendenza di questi ultimi a perseguire la crescita
dimensionale dell’organizzazione su cui esercitano appunto il controllo, piuttosto che
realizzare la massimizzazione del profitto, può portare a scelte operative non
ottimali.
L’analisi si sposta ad analizzare il problema delle decisioni riguardanti la scelta
ottimale dei progetti di investimento e la scelta tra le differenti forme di
finanziamento degli stessi. La tendenza delle imprese a seguire uno schema di
riferimento per l’utilizzo delle fonti di finanziamento introduce la teoria dell’ordine
gerarchico di attivazione delle fonti di finanziamento. Questa teoria viene analizzata
in termini di sue cause e motivazioni (storia della società, informazione asimmetrica,
rapporti di agenzia e comportamento manageriale). Successivamente viene illustrato
il modello alla base della teoria degli investimenti, introdotto nel 1958 da Modigliani
e Miller, nelle ipotesi di assenza e di presenza di imposte societarie. Tuttavia la teoria
di Modigliani e Miller risulta di difficile applicazione nella realtà poiché, nella scelta
tra il capitale proprio e il capitale di debito per il finanziamento degli investimenti,
devono essere considerate diverse variabili, oltre a quelle del modello, quali: il
fenomeno di moral hazard, i costi di monitoraggio associati ai contratti di debito, i
fenomeni di selezione avversa e di razionamento del credito, i conflitti di agenzia tra
gli azionisti e tutte le altre classi di stakeholders, i costi del dissesto finanziario,
diretti e indiretti.
Il primo capitolo si conclude con l’introduzione di un modello alternativo a quello
fondato sull’ordine gerarchico di attivazione delle fonti di finanziamento: il modello
basato sul trade off tra i benefici fiscali del ricorso al capitale di debito e i costi
derivanti dal possibile dissesto finanziario. Secondo tale modello, l’impresa
determina la sua struttura finanziaria ottimale integrando al meglio i costi e i benefici
derivanti dal ricorso al capitale di debito.
Nel secondo capitolo, si tenta di effettuare un confronto tra i due modelli introdotti in
precedenza. Il fine è determinare quale, tra il modello dell’ordine gerarchico e il
modello basato sul trade off, può essere utilizzato dall’impresa per massimizzare
l’efficienza delle scelte di finanziamento-investimento.
L’analisi svolta nel secondo capitolo è finalizzata ad esporre, in maniera più
approfondita, i costi e i benefici derivanti dal ricorso al capitale esterno e tutti i
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fenomeni collegati a tale attività. Il capitolo si conclude con l’esame del ricorso al
capitale di debito da parte delle imprese italiane, sulla base di uno studio condotto
dalla Banca d’Italia. L’analisi viene svolta evidenziando le differenze in termini di
costo del ricorso al capitale di debito e di potere contrattuale, tra le imprese
appartenenti a distretti industriali e le imprese isolate. I risultati indicano una
posizione favorevole delle prime nei confronti degli investitori istituzionali, quali le
banche, che, in ambito locale, detengono un quasi monopolio nella concessione di
finanziamenti.
Il terzo capitolo è dedicato ad un confronto tra le piccole società, quelle non quotate
e le società di più grandi dimensioni e alla facilità con cui esse possono ricorrere al
finanziamento tramite capitale di debito. Il leverage viene, perciò, analizzato in
termini di caratteristiche dell’impresa: la reputazione, le garanzie fornite, la
possibilità di accedere ad agevolazioni fiscali.
Una delle conseguenze più importanti del ricorso al capitale di debito è la possibilità
che la società subisca una distorsione dei propri investimenti, a causa del potere dei
creditori e delle politiche egoistiche perseguite dagli azionisti. La distorsione degli
investimenti si manifesta con una variazione dei tassi di rendimento e dipende da
diverse variabili: rischiosità del progetto, correlazione tra i cash flows del progetto e
quelli della società, dimensione relativa del progetto. Per illustrare meglio i risultati
dell’analisi, viene effettuato un confronto tra tre diverse tipologie di società:
un’industria farmaceutica, un’industria metallica e un’industria operante nel campo
delle utilities (gas, elettricità).
I problemi di underinvestment e overinvestment, derivanti dai conflitti di agenzia tra
azionisti e creditori, sono le cause dell’aumento dei costi legati al ricorso al capitale
di debito. Infatti, generalmente i finanziatori riescono ad prevedere i comportamenti
egoistici degli azionisti della società indebitata. Conseguentemente sono disposti a
concedere il finanziamento richiesto solo a determinate condizioni. Queste si
manifestano con la previsione, nei contratti di debito, di clausole restrittive, dette
covenants.
Le soluzioni proposte dalla letteratura e dalla pratica, comunque, non si limitano a
suggerire solo l’utilizzo delle covenants nei contratti di debito. Infatti, la possibilità
che gli azionisti continuino a perseguire i propri interessi a danno di quelli dei
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creditori dipende anche dalla probabilità con cui questi ultimi effettuano delle
verifiche sul regolare rispetto delle clausole contrattuali. La motivazione di fondo è
che gli azionisti, subendo il rischio di impresa, anche se col beneficio della
responsabilità limitata alla titolarità della propria quota, tendono a garantirsi la
maggior parte della ricchezza derivante dai progetti di investimento. Nel quarto
capitolo viene proposta una serie di possibili soluzioni al fenomeno suddetto.
Alcuni propongono di dissociare adeguatamente la ricchezza degli azionisti da quella
dei managers, concedendo a questi ultimi di piani di stock options appositamente
ideati. Solitamente i contratti di incentivo vengono creati per aumentare il valore
delle azioni piuttosto che l’intero valore della società. Quest’ultimo obiettivo può
essere raggiunto solo riuscendo a controllare l’incentivo dei managers a correre un
rischio addizionale.
Altri studiosi introducono la possibilità di emettere, anziché titoli di debito standard,
particolari titoli ibridi. È il caso delle azioni privilegiate e delle obbligazioni
convertibili. Ma, al fine di evitare che le fasi negative del ciclo economico
influiscano sulle società indebitate in maniera eccessiva causando crisi di tipo
finanziario, altri autori presentano dei titoli di debito innovativi: le obbligazioni debt-
equity linked.
L’ultimo capitolo è dedicato all’analisi delle differenze tra gli investitori istituzionali
e gli investitori dispersi. L’impresa ha infatti l’opportunità di scegliere il tipo di
capitale di debito da emettere. L’analisi, perciò, descrive le differenze, in termini
organizzativi, di potere contrattuale e di priorità nella riscossione dei pagamenti, tra
large creditors e small creditors. Le caratteristiche tra le due tipologie suddette
influiscono, conseguentemente, sui conflitti con gli azionisti. Il maggior potere
contrattuale delle istituzioni finanziarie rispetto agli investitori dispersi e agli
azionisti, riesce spesso a determinare una dipendenza della società dalla volontà dei
finanziatori. Il potere contrattuale dei large creditors, in qualche caso, riesce anche a
modificare la composizione dei consigli di amministrazione delle società. Il diverso
peso delle varie tipologie di detentori di capitale di debito influisce, così, sia sulla
gestione aziendale, sia sulla possibilità di continuare l’attività. Infatti, nel caso
estremo del dissesto finanziario o dell’insolvenza, il maggior potere dei finanziatori
esterni influisce diversamente sul futuro della società. Mentre gli investitori
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istituzionali, se interessati al futuro dell’impresa, sono disposti a negoziare i diritti
alla partecipazione della società che sarà riorganizzata, gli investitori dispersi
risultano maggiormente interessati alla completa riscossione del loro credito e
tendono più frequentemente a minacciare o richiedere il fallimento della società.
Alcuni autori, tuttavia, propongono un modello alternativo per la risoluzione del
dissesto finanziario e la riorganizzazione dell’impresa: il modello basato
sull’esercizio di particolari options concesse agli stakeholders. Tale modello teorico
riesce a risolvere il dissesto finanziario in un tempo minore rispetto a quello basato
sulla contrattazione tra finanziatori e azionisti, basandosi su una vendita fittizia della
società agli stakeholders. I risultati di entrambi i modelli consistono in una nuova
distribuzione dei diritti di proprietà tra gli stakeholders e, conseguentemente, ad una
nuova configurazione di potere all’interno dell’organizzazione.
Il capitolo si conclude illustrando la situazione delle imprese italiane, in genere
medio-piccole, sensibili all’andamento del ciclo economico generale e al fenomeno
del razionamento del credito nel mercato dei capitali. L’impossibilità di fornire
adeguate garanzie nei confronti dei finanziatori pone le imprese italiane in una
situazione di dipendenza e di elevata fragilità.
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CAPITOLO PRIMO
IL FINANZIAMENTO DEI PROGETTI DI
INVESTIMENTO SECONDO LA TEORIA
TRADIZIONALE.
1.1 - L’imprenditore e il modulo organizzativo. 1.2 – Il modulo
organizzativo nella grande impresa. 1.3 – I managers, agenti degli
azionisti. 1.4 – L’ordine gerarchico di attivazione delle fonti di
finanziamento. 1.5 - Le motivazioni della teoria dell’ordine gerarchico.
1.6 - La teoria di Modigliani e Miller. 1.7 - Il costo del ricorso al
capitale di debito. 1.8 - I costi del dissesto finanziario. 1.9 -
Integrazione tra scudo fiscale e costi del dissesto. 1.10 -
Concentrazione e dispersione del debito.
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1.1 - L’imprenditore e il modulo organizzativo.
Nell’ambito dell’assetto capitalistico classico l’imprenditore crea il modulo
organizzativo dell’impresa acquistando diritti di proprietà sui beni patrimoniali, cioè
sui non-human assets. Oltre a tali diritti, egli acquisisce flussi di attività lavorative
stipulando contratti relazionali con un nocciolo duro di individui che forniranno, in
esclusiva, tali attività lavorative. Il modulo organizzativo sarà così formato non solo
dai beni patrimoniali ma anche da lavoratori.
Vi sono inoltre altri agenti che vengono coinvolti dall’imprenditore (clienti, fornitori,
prestatori d’opera occasionali, con contratti “una tantum” o relazionali). Questi
hanno propri interessi ad interagire con l’impresa e sono positivamente interessati
alla vitalità di questa (vengono spesso definiti stakeholders dell’impresa). Quando,
perciò, si parla di modulo organizzativo dell’impresa ci si riferisce a tutti coloro che
vengono coordinati direttamente dall’imprenditore, ma la sfera economica in cui
maturano le strategie dell’impresa include anche gli stakeholders esterni.
Se immaginiamo una piccola impresa, il modulo organizzativo può essere così
schematizzato:
Figura 1.1 - Il modulo organizzativo nella piccola impresa.
L’imprenditore, nel ruolo di coordinatore del team, ossia della squadra produttiva,
corre il rischio d’impresa ed ha il diritto/dovere di esercitare il controllo
sull’organizzazione e sul suo funzionamento attraverso le quattro funzioni basilari
IMPRENDITORE
ORGANIZZAZIONE INTERNA
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dell’assegnazione dei compiti, della sincronizzazione, del coordinamento e
dell’incentivazione.
Il motivo per cui, secondo la teoria dei diritti di proprietà, il controllo deve essere
esercitato dal titolare, affinché si abbia la massima efficienza, è che egli è la persona
maggiormente interessata. Egli stesso deve perciò godere dei 5 diritti fondamentali
alla base della conduzione dell’impresa:
• Ricevere il surplus;
• Modificare la configurazione contrattuale esistente;
• Organizzare il modulo;
• Stare al centro di tutti i contratti;
• Liberarsi dell’azienda.
Nella piccola impresa, quella individuale, proprio perché il capo dell'azienda è un
imprenditore-proprietario, la titolarità dei diritti coesiste con il potere di controllo.
Ciò si riflette anche nella funzione-obiettivo dello stesso imprenditore, che si
esplicita nella massimizzazione del valore atteso del profitto:
dove: E[P] è il valore atteso del profitto, Qvpv sono i ricavi (quantità vendute ai
prezzi di vendita), il termine tra parentesi rappresenta l’insieme dei costi di
produzione (Liwi è la quantità di lavoro pagata al prezzo wi, Kjrj è l’ammontare di
capitale utilizzato, pagato al presso rj) e Qapa è il totale degli acquisti.
1.2 – Il modulo organizzativo nella grande impresa.
Il modello suddetto si complica se si considera una impresa con una dimensione più
articolata, se cioè, ad esempio, l’imprenditore ha ingrandito le dimensioni
dell’attività modificando la struttura in più funzioni o divisioni. Il problema che
sorge in tal caso è che l’imprenditore-controllore non riuscirà più ad influire
[ ] ∑∑∑∑ −
+−=ΠΕ
a
aa
j
jji
i
i
v
vv pQrKwLpQmax
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direttamente sul funzionamento del nuovo modulo organizzativo. Se parliamo infatti
di una grande impresa, l’imprenditore, restando proprietario, avrà bisogno di ridurre
le proprie mansioni di controllo. Si arriverà quindi ad avere una nuova
configurazione di modulo organizzativo, articolata in più livelli:
LIVELLO PROPRIETA’
LIVELLO CONTROLLO
LIVELLO
LIVELLO BLACK BOX
Figura 1.2 - La struttura a tre nodi della grande impresa.
La struttura organizzativa della grande impresa risulta così suddivisa in tre
macrolivelli di controllo e responsabilità.
Il vertice della struttura è rappresentato dal livello proprietà, espressione della
partecipazione dell’imprenditore o dei diversi soci-proprietari.
Il secondo livello viene definito livello controllo: si nota in esso la presenza di nuovi
partecipanti all’attività produttiva, che svolgono le proprie mansioni in funzione delle
attese dei proprietari. I managers, così sono solitamente definiti, si occupano quindi
della definizione della struttura organizzativa interna e del funzionamento della
stessa nel rispetto delle regole dettate dai proprietari. Queste regole vengono espresse
in termini di rendimenti delle attività e dei progetti.
Il terzo livello viene definito livello black box: esso rappresenta la struttura e il
funzionamento della singola unità organizzativa d’impresa.
UNITA’
ORGANIZZATIVA
IMPRENDITORE
CHIEF EXECUTIVE OFFICER
DGM1 DGM2 DGM3 DGMn-1 DGMn
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La definizione dell’organizzazione interna del modulo organizzativo è un compito
dei singoli Division General Managers (DGM). E’ possibile, come evidenziato in
figura 1.2, che esista anche un passaggio intermedio che veda come protagonista un
altro organo, il Chief Executive Officer (CEO) che coordinerà la suddivisione dei
poteri tra i singoli Division General Managers.
La maggior parte della letteratura sulla teoria dell’impresa, negli ultimi anni, ha
rivolto il proprio interesse verso lo studio del rapporto tra i tre suddetti livelli di
responsabilità e controllo nel modulo organizzativo. Il problema, nel caso specifico,
è stato spesso analizzato in relazione ad imprese di grandi dimensioni e operanti in
diversi mercati. Sono, infatti, le imprese più grandi quelle in cui si verificano
distorsioni (a livello informativo e relativamente alle decisioni di investimento)
causate dalle diverse tendenze degli individui appartenenti al livello proprietà e al
livello controllo. Si parla, in genere, di conflitti di interesse tra classi di stakeholders
(i managers e i proprietari).
I suddetti conflitti di interesse nascono in genere in relazione alla scelta tra le varie
opportunità di investimento.
1.3 – I managers, agenti degli azionisti.
I managers sono comunemente definiti agenti dei proprietari poiché essi svolgono la
funzione di mandatari di questi. Tuttavia, non sempre gli interessi di managers e
proprietari coincidono. Ciò dipende da una diversa configurazione delle variabili che
influiscono sulle rispettive funzioni di utilità. Sono, infatti, queste ultime che
determinano la funzione-obiettivo dei singoli. È stato già descritta la funzione-
obiettivo dell’imprenditore: essa si traduce con la massimizzazione del valore atteso
del profitto dell’impresa poiché è questa la variabile che influenza la funzione di
utilità dell’imprenditore.
La funzione obiettivo del manager è di diversa natura. Egli non ha investito alcun
capitale nella conduzione dell’impresa, se non il proprio sforzo e la propria
professionalità a servizio della proprietà. Conseguentemente, poiché egli non corre
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un rischio simile a quello dell’imprenditore-proprietario (cioè il rischio di impresa),
la sua funzione di utilità dipenderà da variabili diverse dalle precedenti. Quella
dell’agente, infatti, è una figura particolare all’interno dell’organizzazione aziendale.
Egli si trova ad essere il gestore di un capitale non suo ma che deve comunque essere
utilizzato in maniera efficiente, in termini di rendimento degli investimenti. E’,
infatti, proprio il rendimento degli investimenti la variabile che maggiormente
influisce sulla funzione di utilità dei proprietari.
In molti casi, però, esiste una correlazione diretta tra l’aumento del profitto e la
crescita dimensionale dell’azienda. Quest’ultimo fattore si traduce in un aumento
delle risorse a disposizione del management per effettuare ulteriori investimenti di
capitale. Conseguentemente, maggiori livelli di attività disponibili per il management
implicano un potere più influente sui suoi subordinati e, perciò, su tutta
l’organizzazione dipendente.
Si può quindi definire la funzione di utilità dell’agente come dominata dal valore
atteso del profitto e dal valore della crescita dimensionale dell’azienda.
Tuttavia la correlazione tra i valori delle due variabili suddette non ha un andamento
sempre positivo e costante, anzi risulta marginalmente decrescente all’aumentare
dell’entità della crescita dimensionale. Ciò implica che non tutti gli investimenti
tendenti alla massimizzazione della dimensione dell’azienda portano ad una
massimizzazione del profitto.
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Figura 1.3 - Il trade-off tra la crescita dimensionale e il profitto.
Nella situazione esposta in figura 1.3, la variabile profitto risulta correlata
positivamente con la variabile dimensionale. Tuttavia, oltre un certo punto, P*, la
correlazione diventa negativa e il profitto non viene massimizzato se si punta
solamente sul fattore di crescita.
Delegare la scelta dei progetti di investimento ai managers potrebbe modificare la
tendenza generale di un’impresa alla massimizzazione del profitto. Dalla relazione di
trade-off rappresentata in figura 1.3 e dalla particolare configurazione della funzione
di utilità dell’agente (dipendente dalle variabili di profitto e di crescita dimensionale)
deriva che l’impresa potrebbe intraprendere anche progetti di investimento non
efficienti in termini di massimizzazione dei rendimenti a causa della tendenza dei
managers a massimizzare anche la crescita dimensionale. La funzione di utilità di
questi ultimi può essere descritta nel modo seguente:
P Valore del profitto
P*
0
g* Crescita dimensionale g
( )gfU ,Π=
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dove P è la variabile profitto e g è la variabile crescita dimensionale. Una tale
struttura implica una particolare forma delle relative curve di indifferenza che può
essere schematizzata nel modo seguente:
Figura 1.4 - Curve di indifferenza della funzione di utilità del manager.
Gli agenti, per la tendenza ad esercitare il proprio potere sui subordinati e sulle
risorse disponibili, sono orientati alla scelta di investimenti finalizzati soprattutto alla
crescita dimensionale. Questi, tuttavia, non sempre sono profittevoli in termini di
rendimento sugli investimenti intrapresi, cioè non sempre sono a Valore Attuale
Netto positivo. Si dice spesso che gli agenti tendono all’Empire Building quando si
vuole indicare la tendenza di questi ad intraprendere progetti di investimento che
massimizzano la crescita dimensionale, piuttosto che il profitto dell’impresa.
P Profitto
Curve di indifferenza
0
Crescita dimensionale g
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L’imprenditore o, trattandosi di grande impresa, i soci-proprietari, saranno propensi
solo ad accettare i progetti con Valore Attuale Netto positivo che aumentano il valore
aziendale e, conseguentemente, la loro utilità, in forma di ricchezza. Il conflitto di
interessi che riguarda la relazione tra il livello proprietà e il livello controllo si spiega
perciò nella differenza tra diverse configurazioni delle relative funzioni di utilità.
Lasciare ai propri mandatari pieno potere sulla scelta degli investimenti potrebbe
produrre una situazione come quella schematizzata nella figura seguente:
Figura 1.5 - Il trade-off tra crescita dimensionale e profitto: la scelta dell'agente.
Se le due variabili seguono lo stesso andamento, e perciò hanno correlazione positiva
fino al punto P* da cui parte il trade-off, è probabile che l’optimum per il manager si
realizzi nel tratto discendente della curva, cioè in P0. In tale punto la correlazione tra
le due grandezze è negativa ma l’utilità dell’agente è maggiore rispetto al punto P*.
Al punto P0 corrisponde un valore g0 di crescita dimensionale, maggiore del valore
g*, che è il punto di ottimo che massimizza il valore del profitto P.
P Profitto
P*
P0
0
Crescita dimensionale g* g0 g