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INTRODUZIONE
La bellezza è un concetto facilmente fraintendibile: molti scommetterebbero che
nulla abbia a che vedere con la scienza. Gli esseri umani sono abituati a convivere
con la dimensione estetica quotidianamente, quasi fosse un accidente non
necessario al normale svolgimento delle loro esistenze, considerandola solamente
una funzione superiore dell’evoluta mente umana, certo rafforzata dal cervello,
ma non collegata in modo particolare o esclusivo a qualche sua parte. Questa
concezione comune ha sicuramente condizionato per tanto tempo neuroscienziati
e psicologi, che raramente si sono avventurati in profonde ricerche sull’estetica
capaci di fornire provate basi neurofisiologiche ai processi ad essa sottesi. Eppure
sembra palmare che, se alcuni stimoli provenienti dal mondo esterno attivano più
di altri precisi meccanismi deputati ad infondere piacere, tali automatismi abbiano
un’ancestrale base non solo genetica, ma anche neurobiologica.
A partire dagli anni ’90 però, si è assistito ad un notevole cambiamento di rotta in
tal senso, probabilmente in concomitanza e a seguito di importanti scoperte sul
cosiddetto “cervello visivo”, come ad esempio l’identificazione, intorno alla
corteccia visiva primaria, di aree altamente specializzate necessarie per la visione
normale. È infatti assai recente la concezione per cui “non si vede con gli occhi,
bensì con il cervello”. La visione era considerata un processo in larga misura
passivo attraverso il quale un’immagine, una volta impressa sulla retina, veniva
ricevuta dalla corteccia visiva per essere decodificata ed analizzata; dopo di che
sarebbe stata interpretata in un’altra zona del cervello sulla base di informazioni
presenti e passate. Ma l’idea di un’immagine “impressa” sulla retina è forse ben
lontana dal render giustizia alla realtà: la funzione della retina costituisce un vitale
stadio iniziale in un elaboratissimo meccanismo che da essa si estende alle aree
superiori del cervello. La retina sarebbe dunque un filtro dei segnali visivi, delle
variazioni di intensità della luce e delle differenze di composizione spettrale, ma
includerebbe solo alcuni dei potenti meccanismi che permettono di scartare le
informazioni superflue selezionando soltanto quelle necessarie alla
rappresentazione dei caratteri permanenti ed essenziali degli oggetti. Gran parte di
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questi meccanismi è assegnata alla corteccia. Henry Matisse (1972), forse
inconsapevolmente, osservando che “vedere è già un’operazione creativa che
richiede uno sforzo”, esprime un concetto neurobiologicamente esatto. Infatti, non
sarebbe corretto affermare che la vera funzione del cervello visivo sia limitata
solo all’assicurare il normale svolgimento delle attività necessarie alla
sopravvivenza dell’uomo in senso evoluzionistico: molti animali, sebbene
provvisti di una visione piuttosto rudimentale, riescono ugualmente a nutrirsi o a
riprodursi. La verità è che “noi vediamo per acquisire una conoscenza del nostro
mondo” (Zeki 1993). Non è un caso forse che in greco οἶδα, che è il perfetto del
verbo ὁράω (vedere), significa “io so” (perché ho visto) e che la parola idea
(εἶδος) ha appunto la radice ἰδ dello stesso verbo. Così, la sola conoscenza che
valga la pena di conseguire è quella delle caratteristiche stabili del mondo; di
conseguenza il cervello è interessato solo alle proprietà costanti, immutabili,
permanenti e specifiche degli oggetti e delle superfici della realtà esterna, perché
sono queste le proprietà che gli permettono di ordinare gli oggetti per categorie.
La visione è dunque un processo attivo che richiede al cervello di trascurare i
continui cambiamenti e di astrarre da essi solo ciò che è necessario per la
classificazione degli oggetti, svolgendo tre processi separati ma interdipendenti:
selezionare da un ampio ventaglio di informazioni sempre mutevoli solo quelle
utili all’identificazione delle proprietà costanti ed essenziali di oggetti e superfici;
eliminare ed escludere tutte le informazioni irrilevanti ai fini di questa
conoscenza; confrontare le informazioni visive del passato al fine di identificare e
classificare l’oggetto o la scena interessati.
In questo contesto appare una naturale conseguenza la ricerca delle basi
neurofisiologiche di questi processi a partire dall’osservazione delle opere d’arte
visiva quali pittura e scultura. Tali arti, infatti, sono espressione del nostro
cervello e devono quindi obbedire alle sue leggi nell’ideazione, nell’esecuzione o
nella valutazione, e nessuna teoria estetica che non si basi in modo sostanziale
sull’attività del cervello potrà mai essere completa né profonda. I pittori, ad
esempio, seppure inconsapevolmente e con tecniche del tutto personali, hanno
sperimentato e compreso qualcosa sull’organizzazione del cervello, ancor prima
che se ne occupasse qualsiasi ricerca neurobiologica. Gli artisti compiono
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esperimenti elaborando e rielaborando un’opera fin quando essa non acquista
l’effetto voluto, ovvero finché non piace loro, che è come dire al loro cervello. Ma
se, così facendo, il quadro piace anche ad altre persone – ad altri cervelli – essi
hanno evidentemente afferrato un fatto generale riguardante l’organizzazione
neurale delle vie visive che suscitano piacere, senza conoscere i dettagli di tale
organizzazione e talvolta ignorandone persino l’esistenza. Considerare gli artisti
come “primitivi ed inconsapevoli neurologi” potrebbe apparire un po’ azzardato.
Risulta però impossibile non meravigliarsi nello scoprire che - più di cinquecento
anni fa - Leonardo da Vinci, affermando nel suo Trattato della pittura che i colori
più gradevoli sono quelli in opponenza cromatica, stava enunciando senza saperlo
una verità fisiologica la cui verifica si è avuta solo una cinquantina di anni fa con
la scoperta del principio di complementarità (Svaetichin e Jonasson 1956).
Oppure che il chimico Michel Chevreul, trattò solo nel 1839 - nel suo De la loi du
contraste simultané des couleurs - il problema di come la percezione dei colori
viene influenzata dal contesto, esprimendo scientificamente qualcosa che da secoli
era noto ai pittori. Una volta appurato il ruolo fondamentale delle neuroscienze
nella comprensione e nella valutazione dell’arte, appare utile ed auspicabile, per
rispondere alle tante domande a cui non ancora è stata data una risposta, un
dialogo serrato tra ricerca scientifica e ricerca umanistica che, apparentemente agli
antipodi, in realtà hanno, per molti aspetti, la stessa estetica. Come direbbe Nelson
Goodman, il vero ostacolo è la nostra riluttanza a ridare spazio all’emozione come
parte dei processi cognitivi.
Nei prossimi capitoli dunque, anche attraverso una galleria di esempi
comprendente artisti come Michelangelo, Vermeer, Picasso, Mondrian, Malevič,
Matisse, Pollock, si tenterà di esplorare l’arte visiva illustrando le basi anatomo-
fisiologiche della visione e del piacere estetico e alcuni dei meccanismi che
sottostanno alla percezione e alla fruizione delle opere d’arte, mostrando come
certe soluzioni degli artisti risultino essere proprietà cerebrali della visione e per
questo capite e ammirate dallo spettatore. Infine, si tratterà del nuovo, promettente
campo di osservazione aperto recentemente da Giacomo Rizzolatti con la scoperta
dei “neuroni specchio”, attraverso i quali potrebbe essere possibile comprendere il
diverso grado di efficacia di alcuni schemi iconografici rispetto ad altri.
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1. CENNI DI ANATOMIA E FISIOLOGIA
DELL’ESPERIENZA ESTETICA
È necessario, prima di intraprendere qualsiasi discorso riguardante la percezione
della bellezza, anche volendo limitare la ricerca alle opere d’arte visiva, compiere
un breve excursus sull’anatomia e fisiologia delle zone interessate (sia attivamente
che passivamente) da tali esperienze. Dunque, se d’arte visiva stiamo trattando,
appare ovvio occuparsi dell’apparato visivo e della corteccia visiva, e, per ciò che
riguarda il piacere estetico, dei centri del sistema nervoso centrale coinvolti nella
sensazione di piacere.
1.1 Il sistema visivo
Occorre precisare che, nonostante la precedente affermazione sul “primato” della
corteccia visiva rispetto alla retina e al sistema ottico di cui è dotato l’occhio
umano al fine di un normale processo di visione, non si intende in alcun modo
sminuire l’importanza, anzi la necessità, di tale apparato. È vero infatti che il
vedere inizia nell’occhio, sul fondo del quale si formano delle immagini piccole e
rovesciate; ma questo non è che l’inizio di una catena di eventi che coinvolgono
gran parte del nostro cervello per arrivare straordinariamente alle immagini che
percepiamo. L’occhio umano (figura 1) ha un sistema ottico di grande potenza (60
diottrie) formato da una lente esterna, la cornea (internamente a contatto con un
liquido chiamato umor acqueo), da una lente biconvessa, il cristallino, e da un
liquido gelatinoso,
che riempie tutto il
resto del bulbo
oculare, chiamato
umor vitreo. Le
immagini di oggetti
del mondo esterno
formate dal sistema
ottico dell’occhio
Figura 1: schema anatomico dell’occhio
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sono capovolte e rimpicciolite. Esse si formano sulla retina, una sottile membrana
nervosa che riveste la superficie interna dell’occhio e che contiene le cellule
sensibili: i fotorecettori. È proprio con coni e bastoncelli (i due tipi di
fotorecettori) che l’immagine entra in contatto una volta giunta alla retina; i coni
sono responsabili della visione a livelli di illuminazione abbastanza alti e della
visione dei colori (suddivisi in tre tipi, sono sensibili ai fasci luminosi di
lunghezze d’onda differenti: rosso, verde e blu), i bastoncelli invece sono deputati
alla visione a livelli di illuminazione più bassi. Vi sono poi, nella retina, altri strati
di cellule (bipolari, orizzontali e amacrine) attraverso le quali i fotorecettori sono
collegati con i neuroni dello strato più interno dell’occhio: le cellule gangliari. I
loro assoni, che convergono a livello del disco ottico, escono dalla retina
formando il nervo ottico. I nervi ottici dei due occhi convergono nel chiasma
ottico e di qui gli assoni si ridistribuiscono a formare il tratto ottico. Il tratto ottico
sinistro contiene gli assoni che provengono dalle due metà sinistre delle retine
mentre il destro quelli che provengono dalle due semiretine destre; poiché sulle
semiretine sinistre si formano le immagini della metà destra del campo visivo e
viceversa, ogni tratto ottico porta l’informazione relativa al campo visivo
controlaterale. Queste informazioni rimangono separate rispettivamente negli
emisferi sinistro e destro del cervello, sia nelle stazioni in cui terminano i tratti
ottici (corpi genicolati laterali), sia nelle successive stazioni della corteccia
visiva.
1.2 La corteccia visiva
Se la neurobiologia da secoli studia l’occhio scoprendone man mano ogni
dettaglio anatomico e funzionale, la corteccia sembrerebbe oggi il campo di
ricerca più battuto dagli studiosi con risultati sovente degni di nota. È istruttivo
ricordare (Zeki 1993) che solo in tempi relativamente recenti i neurologi hanno
riconosciuto che la retina è connessa soltanto con una parte ben individuata nel
cervello, la corteccia visiva primaria (o area V1), situata nel lobo occipitale, e che
quindi nel cervello esiste un’area specifica deputata alla visione. Pioniere di
queste indagini fu il neuropatologo Salomon Henschen che, agli inizi del XX
secolo, doveva ancora combattere una strenue battaglia contro quanti credevano