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agli studi sul gesto di indicare, che per le sue particolari caratteristiche è
stato uno dei più studiati dalla letteratura sull’argomento.
In seguito verranno presentati degli studi sul repertorio gestuale
dei bambini con diversi quadri sindromici: sordità, disturbi specifici del
linguaggio, sindrome di Williams e sindrome di Down. Tali ricerche si
sono rivelate particolarmente interessanti in quanto questi bambini
presentano spesso ritardi o anomalie del linguaggio, ed i gesti possono
costituire per loro un’ importante fonte alternativa di comunicazione.
Al contrario dei bambini con tali patologie, i bambini affetti da
autismo, pur presentando notevoli ritardi o perfino assenza di sviluppo
linguistico, non compensano tale limitazione con una ricca gestualità, ma
al contrario il loro repertorio gestuale appare particolarmente povero,
probabilmente anche come conseguenza delle caratteristiche proprie della
patologia ed in particolare del deficit che questi bambini presentano
nell’interazione sociale, che li rende non desiderosi di comunicare.
Nel capitolo 3, dopo una descrizione delle principali
caratteristiche dell’autismo, verrà analizzato lo sviluppo gestuale dei
bambini che ne sono affetti. Anche in questo campo una parte importante
viene assegnata agli studi sul gesto di indicare. In particolare si è rivelata
fondamentale la scoperta che i bambini con autismo presentano gravi
difficoltà nel produrre e comprendere l’indicare protodichiarativo ed a
questo proposito sono le ricerche che connettono questa mancanza ad un
deficit della “teoria della mente” nei soggetti con autismo (Camaioni,
1997).
Infine verranno presentati diversi studi che rilevano come la
mancanza di gesti, ed in particolare del gesto di indicare
protodichiarativo, si sia rivelata in molti casi un indice attendibile per
discriminare soggetti affetti da autismo da quelli con sviluppo tipico ad
un’età molto precoce, intorno ai 12-18 mesi.
Lo studio del repertorio gestuale dei bambini con autismo, può
essere dunque molto importante in quanto non solo aiuta a comprendere
meglio le caratteristiche e i deficit di questa sindrome, ma costituisce
anche un campo proficuo nella ricerca di indicatori per una diagnosi
sempre più precoce, dato che l’età media attuale in cui essa avviene è di
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circa 3 anni, e quindi per un sempre più tempestivo intervento volto a
migliorare la qualità di vita di questi soggetti e delle loro famiglie. E’
stato infatti ampiamente documentato come bambini trattati
precocemente hanno in futuro una qualità di vita migliore rispetto a
coloro che vengono diagnosticati ad età più avanzate.
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CAPITOLO 1
IL REPERTORIO GESTUALE DEI BAMBINI CON
SVILUPPO TIPICO
1.1 IL GESTO: PRINCIPALI DEFINIZIONI
Il termine “gesto” è ampiamente utilizzato ed applicato a diversi
comportamenti non verbali, ma non è facile spiegarne con esattezza il
significato. Nella letteratura che si è occupata di tale argomento sono
infatti riportate molteplici definizioni che differiscono tra loro
sostanzialmente per la risposta che danno a due quesiti fondamentali: le
parti del corpo che considerano coinvolte nel gesto e come considerano la
gestualità legata al linguaggio.
Kendon (1986) rileva che la parola “gesto” viene comunemente
utilizzata come etichetta per quell’insieme di azioni visibili che i
riceventi percepiscono come governati da un intento comunicativo chiaro
e riconosciuto. Secondo questo autore i gesti hanno delle caratteristiche
che li distinguono da latri tipi di attività (azioni pratiche, aggiustamenti
posturali...):
- i gesti sono “escursioni” cioè si muovono da una posizione di
riposo/appoggio e tornano sempre in tale posizione
- hanno una struttura a “picco”, ossia un centro del movimento
riconosciuto come ciò che tale movimento rappresenta
- sono ben delimitati: le azioni identificate come gesti hanno dei
precisi confini di inizio e fine, diversamente ad esempio dagli
aggiustamenti posturali che possono essere graduali e non
presentano un picco nel movimento
- simmetria: se si fa riavvolgere un filmato di qualcuno che compie
dei gesti è difficile vedere la differenza rispetto a quando il
filmato procedeva in avanti, e ciò suggerisce che i gesti abbiano
una simmetria di organizzazione che le azioni e gli aggiustamenti
posturali non hanno
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Kendon (op. cit.) inoltre definisce “gesticolazione” l’insieme dei
movimenti delle mani e delle braccia spontanei, associati al discorso.
Secondo McNeill (1992) tutti i movimenti visibili del parlante
sono dapprima divisibili in gesti e non gesti; questi ultimi comprendono
il toccare se stessi e la manipolazione di oggetti. Tutti gli altri sono gesti.
Questi ultimi sono definiti con riguardo alla loro relazione con il
linguaggio come movimenti non convenzionali che co-occorrono col
parlato, e tale definizione, come si può notare, può essere applicata a
quella che Kendon (1986) definisce gesticolazione. Secondo McNeill
(op. cit.) i gesti sono un riflesso dello schema concettuale sottostante i
processi di verbalizzazione; in quest’ottica essi fanno normalmente parte
del bagaglio espressivo e non si affiancano al discorso solo nei momenti
di difficoltà espressive.
Iverson e Thal (1998)descrivono i gesti come azioni prodotte con
intento comunicativo, di solito espressi usando dita, mani, braccia, e che
includono anche espressioni facciali e corporee.
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1.2 LE TIPOLOGIE GESTUALI
Per introdurre gli studi che seguono ci sembra utile argomentare
su quelle che sono le più note classificazioni gestuali utilizzate nella
letteratura che si è occupata di questo aspetto nell’ambito della psicologia
e delle scienze sociali.
Una delle prime classificazioni di gesti è stata proposta da Ekman
e Friesen (1969). Essi si sono occupati di analizzare il repertorio della
comunicazione non verbale nell’uomo, con particolare attenzione ai gesti
e soprattutto alle espressioni del volto. Questi autori hanno fornito
supporti sperimentali alle analogie nelle modalità di significazione
mimica delle emozioni in varie culture, individuando i cosiddetti
“universali”, cioè delle configurazioni espressive tipiche di quelle che
possono essere considerate le emozioni fondamentali, e analizzando le
regole di esibizione delle emozioni che invece sono diverse da cultura a
cultura.
Tornando alle classificazioni gestuali, Ekman e Friesen (op. cit.)
seguono tre criteri:
- l’uso, cioè le circostanze esterne che possono coincidere col
gesto, inibirlo, causarlo o classificarne il significato, il tipo di
relazione col parlato, il grado di consapevolezza di chi lo compie,
l’intenzionalità della comunicazione, il feed-back esterno che il
gesto può ricevere, e il tipo di informazione comunicata che può
essere condivisa o meno da chi compie il gesto e chi lo osserva, di
tipo informativo, comunicativo o interattivo
- l’origine, ossia come il gesto è entrato a far parte del repertorio
dell’individuo; può essere una risposta specifica della specie
umana a stimoli esterni, può essere appreso perché comune a tutta
la specie o appreso all’interno di specifiche culture
- la codifica, cioè la corrispondenza tra il segno gestuale e il suo
significato. Questo può essere estrinseco se il gesto sta per
qualcos’altro o intrinseco quando coincide con il suo stesso
significato
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In base a queste categorie gli autori classificano i seguenti tipi di
gesti:
- emblemi: gesti appresi culturalmente, prodotti anche per
sostituire un atto linguistico (es. fare ciao con al mano)
- illustratori: gesti legati al discorso che ne chiariscono il
contenuto (es. mostrare con le mani la forma di un oggetto di cui
si sta parlando)
- adattatori: gesti inconsapevoli, appresi durante l’infanzia che
riguardano contatti col proprio corpo (autoadattatori), scambiare
oggetti o contatti fisici con altre persone (eteroadattatori) o
contatti con oggetti (es. giocare con qualcosa che si ha in mano)
- segni regolatori: per lo più movimenti del capo o del volto che
servono a controllare il flusso della conversazione
- espressione delle emozioni tramite il volto; Ekman e Friesen
individuano sette emozioni di base: gioia, sorpresa, paura,
tristezza, rabbia, dolore e disgusto.
Una classificazione più recente,e anche più utilizzata negli studi e
nelle ricerche sulla produzione gestuale, è quella di McNeill (1992) il
quale considera il gesto come parte del linguaggio e dunque prende in
considerazione l’uso dei gesti all’interno del discorso. Egli distingue i
gesti in proposizionali e non. Del primo gruppo fanno parte quei gesti che
appartengono al processo di ideazione:
- iconici: gesti che somigliano nella forma e /o nel contenuto a
qualche aspetto concreto del contenuto semantico del discorso che
accompagnano
- deittici: Il gesto trae significato dal suo referente che può essere
realmente presente nell’ambiente o solo idealmente. Uno dei gesti
deittici più frequentemente studiati è il gesto di indicazione
(estensione del braccio e/o del dito indice in direzione di un
oggetto/evento).
- metaforici: gesti che esprimono concetti astratti che vengono
concretizzati in una specifica forma fisica.
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I gesti non preposizionali caratterizzano invece l’attività
discorsiva e vengono suddivisi in:
- beats: movimenti delle mani e/o braccia in su, giù, avanti, dietro,
con funzione di enfatizzare le parti del discorso a cui sono
associati e dare ritmo alla conversazione
- coesivi: gesti che partecipano con le parole all’espressione del
contenuto del discorso.
Come si può notare Ekman e Friesen (1969), a differenza di altri
autori più recenti, come Kendon (1986) e McNeill (1992) considerano
nel sistema gestuale anche espressioni facciali e movimenti non solo
delle mani e delle braccia.
Nelle ricerche sui bambini, che interessano maggiormente gli
studi che verranno di seguito illustrati, di solito vengono utilizzate due
macrocategorie per codificare la gestualità. I gesti vengono suddivisi in
deittici (indicare, dare, mostrare e richiesta ritualizzata), quelli cioè in cui
il referente è dato dal contesto in cui il gesto viene messo in atto
(Camaioni, Volterra e Bates, 1976), e gesti referenziali che al contrario,
denotano uno specifico referente e rimangono relativamente stabili anche
in contesti diversi. (Caselli 1983).
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1.3 IL GESTO DI INDICARE
Il gesto di indicare è di particolare rilievo tra i gesti comunicativi
sia perché è universale,in quanto diffuso in tutte le culture, ed anche
perché possiede delle caratteristiche peculiari: appare frequentemente
nella comunicazione infantile, si sviluppa in maniera diversa rispetto agli
altri gesti in quanto sembra comparire spontaneamente piuttosto che
come imitazione del comportamento, ed è un’abilità unicamente umana.
Questo gesto è stato anche uno dei maggiormente studiati nella
letteratura della comunicazione infantile e tra coloro che se ne sono
occupati in modo particolare ricordiamo sia Vigotskij (1962) che Werner
e Kaplan (1963). Questi autori hanno avanzato due diverse ipotesi
sull’origine di questo gesto e sulle sue funzioni. Per Vigotskij (1962)
l’indicare è fondamentalmente un gesto strumentale ed emerge dai
tentativi falliti di raggiungere un oggetto da parte dell’infante. Per
Werner e Kaplan (1963) al contrario il gesto di indicare e quello di
prensione seguono due linee evolutive diverse, e l’indicare ha
principalmente una funzione contemplativa o dichiarativa. Essi
sottolineano infatti che sin dalla sua comparsa (10-12 mesi) il gesto di
indicare viene prodotto in contesti comunicativi (stimoli distali, oggetti
fuori dalla portata del bambino) in cui la funzione del gesto è quella di
condividere l’attenzione/interesse per un bersaglio, senza che si verifichi
quasi mai la sostituzione dell’indicazione con la prensione. Il gesto di
prensione, d’altro canto, appare in contesti (stimoli prossimali, oggetti
appena fuori dalla portata del bambino) in cui la funzione del gesto è
quella di segnalare il desiderio di raggiungere e prendere un oggetto.
I ricercatori hanno cercato di sottoporre a verifica queste due
concezioni, confrontando la capacità del bambino di usare il gesto di
indicazione e la richiesta ritualizzata (es. stendere il braccio con il palmo
della mano aperta). Secondo alcuni studiosi (Murphy e Messer, 1977;
Leung e Rheingold, 1981) il fatto che la richiesta ritualizzata venga
padroneggiata dal bambino prima dell’indicare e che la sua frequenza
diminuisca con l’età parallelamente all’aumento dell’indicazione
costituisce una prova a favore dell’ipotesi di Vygotskij.