6
che questi soggetti siano posti ai margini della società, e non siano in grado di
godere di pieni diritti o di fornire un utile contributo alla collettività.
In particolare, le problematiche riguardanti i soggetti in stato di disagio
sociale all’interno del mondo del lavoro sono duplici: da un lato occorre
garantire pari opportunità nella ricerca delle occasioni di lavoro; dall’altro lato è
necessario salvaguardare questi lavoratori da eventuali discriminazioni sul
posto di lavoro, legate alla loro criticità nei rapporti personali od ad un presunto
minor apporto alla produttività dell’azienda in cui vengano inseriti.
Il legislatore ha affidato per lungo tempo ai meccanismi del collocamento
ordinario, le sorti dei lavoratori provenienti dall’area del disagio. La sostanziale
ineffettività del principio dell’avviamento numerico (legge n. 264/49), che
avrebbe dovuto garantire la massima imparzialità nella ricerca delle occasioni di
lavoro, ha posto però questi soggetti in una situazione di estrema criticità,
risultando nel contempo insufficiente l’avviamento dei disabili appartenenti alle
c.d. “categorie protette” realizzato secondo le norme del collocamento
obbligatorio, legge n. 482/68.
A tale meccanismo vincolistico, diretto a garantire l’accesso al lavoro a
determinate categorie tassativamente individuate dalla legge, si affianca, per il
collocamento ordinario, l’istituto della riserva previsto dall’art. 25 legge n.
223/91. Tale istituto, nato come forma di temperamento della generalizzazione
della richiesta nominativa, individua quali beneficiari delle assunzioni in quota
riservata, un insieme eterogeneo di lavoratori: le c.d. “quote (o fasce) deboli”.
Accanto ai lavoratori iscritti alle liste di mobilità ed ai disoccupati di lungo
periodo è prevista l’individuazione, mediante delibera della Commissione
Regionale per l’Impiego (CRI), di particolari categorie di lavoratori, determinate
anche per specifiche aree territoriali. Questa particolare categoria “aperta”,
grazie ad un’estrema flessibilità d’utilizzo, può essere utilizzata da parte della
CRI in chiave promozionale, al fine di favorire da un lato il collocamento dei
soggetti in stato di disagio sociale, e dall’altro lato la soluzione di peculiari
problematiche occupazionali che si verifichino a livello locale.
La prima parte del lavoro è diretta ad illustrare l’evoluzione della
disciplina del collocamento, ed a chiarire quindi la ratio degli interventi realizzati
in tema di avviamento al lavoro in questi ultimi anni.
7
Viene illustrato in particolare il funzionamento dell’istituto della riserva,
evidenziando la possibilità di inserire, all’interno delle quote deboli, soggetti in
stato di disagio sociale, al fine di creare a loro favore un canale privilegiato per
l’ingresso nel mondo del lavoro. Accanto all’analisi del ruolo fondamentale
svolto dai soggetti istituzionali preposti al funzionamento del nuovo meccanismo
vincolistico, vengono evidenziati, da un lato le problematiche cui la nuova
normativa ha dato vita, legate ad esempio a fenomeni di concorrenzialità
interna tra le diverse categorie di riservatari, e dall’altro lato il ruolo svolto dal
nuovo istituto per il reinserimento lavorativo dei lavoratori iscritti alle liste di
mobilità, i quali possono contare inoltre, su di un sistema variamente
incentivante finalizzato al loro reimpiego.
Chiarito il quadro normativo di riferimento per la realizzazione di politiche
attive del lavoro, la seconda parte dello studio analizza le opportunità offerte
dagli strumenti occupazionali disponibili per i soggetti in stato di disagio sociale.
Attraverso un’intensa produzione normativa, questo decennio ha
apportato nuove prospettive occupazionali per le categorie svantaggiate, a
cominciare da quelle offerte dai lavori socialmente utili, intesi, da un lato come
strumento finalizzato ad un graduale ingresso nel mondo del lavoro delle
categorie più deboli, e dall’altro lato come politica di workfare per i soggetti che
già beneficiano di contributi assistenziali, lavoratori in mobilità su tutti.
Ruolo determinante ed in continua evoluzione, è altresì svolto dalle
cooperative sociali di tipo b), ex legge n. 381/91 e, più in generale, dal c.d.
“terzo settore”, per il reinserimento lavorativo dei soggetti provenienti dall’area
del disagio. A questo obiettivo hanno contribuito anche gli enti locali, sia
attraverso la progettazione ed il supporto dei percorsi di “collocamento mirato”,
sia, come nel caso della regione Liguria e della sua legge n. 41/95,
approntando normative in materia di promozione occupazionale che riservino
una particolare attenzione alla forza lavoro debole.
Aspetti più specifici caratterizzano il reinserimento lavorativo di soggetti
legati ad esperienze carcerarie, di tossicodipendenza e di diffusione del virus
HIV, ma, ancor prima, vengono trattate le conseguenze connesse ad un
generale ripensamento dell’organizzazione del lavoro tradizionale che,
attraverso il diffondersi del telelavoro, può consentire un utilizzo più proficuo dei
lavoratori disabili, migliorandone quindi la loro integrazione sociale.
8
Questo studio, illustrando in un quadro unitario le opportunità
occupazionali che a vario titolo si presentano ai soggetti che si trovano in
situazione di disagio, o, più in generale appartenenti alle quote deboli, punta ad
evidenziare come, grazie all’estrema varietà degli interventi realizzabili, non sia
mai ipotizzabile a priori un’esclusione definitiva dal mercato del lavoro. Per i
soggetti che presentino scarse capacità lavorative residue, è necessario
sviluppare un diverso approccio, che ne permetta un utile inserimento
attraverso corsi di formazione, riqualificazione, stages in azienda.
Anche in un periodo di forte crisi dello stato sociale è possibile garantire
uno sbocco occupazionale alle categorie più deboli. Le periodiche rilevazioni
dell’OCDE - Organisation de Coopération et de Developpement Economique -
rivelano infatti che, contrariamente a quanto si crede, l’Italia spende per le
politiche del lavoro meno di tutti gli altri paesi europei, Portogallo e Grecia
esclusi
2
.
Gli studi dell’OCDE presentano una vastissima rassegna di ricerche
locali condotte in diversi paesi (Italia esclusa), sulle principali misure di politica
attiva: dai servizi per l’impiego ai programmi di formazione per lavoratori
disoccupati o “a rischio”, dagli interventi a favore dei giovani svantaggiati o
disoccupati agli incentivi all’assunzione, dall’aiuto a “mettersi in proprio” ai
programmi di lavori pubblici. Seguendo come criterio di valutazione la
condizione occupazionale e retributiva di chi è stato coinvolto nelle suddette
politiche attive, l’effetto risulta nel complesso positivo, ma, in alcuni casi, appare
praticamente nullo. In generale ciò sembra dipendere dal modo in cui il
programma è stato concepito: i risultati migliori sono associati a misure “mirate”,
attuate cioè per rispondere a bisogni di persone o gruppi particolari; al contrario
i risultati peggiori sono associati a misure “ad ampio spettro”, senza precisi
destinatari, le quali concorrono infatti ad escludere, o comunque a penalizzare,
le fasce più deboli tra la popolazione con problemi occupazionali. A volte questi
2
OCDE, “Labour Force Statics 1971-1991”, Paris, 1993; OCDE, “Employment outlook”, Paris,
1994. Dalla seconda metà degli anni ’80 ai primi anni ’90 l’intera spesa pubblica per queste
politiche è cresciuta dal 1,5% all’1,8% del Pil, ma nel contempo la media europea è salita dal
2,6% al 3%.
Secondo E.REYNERI, Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, 1996, pag. 382, “questa
ridotta distanza può dare un’impressione fuorviante del reale stato di arretratezza italiano,
poiché le spese per le politiche attive sono concentrate nell’apprendistato, mentre poco o nulla
si spende per le misure più innovative, dalla formazione continua alla promozione dell’incontro
tra domanda e offerta di lavoro, al sostegno delle fasce deboli”.
9
soggetti non sono neanche presi in considerazione perché non si iscrivono agli
uffici del lavoro o non rispondono alle loro sollecitazioni, mentre i programmi
presuppongono che le persone da coinvolgere si manifestino
spontaneamente
3
.
Analogamente, la tutela offerta dal diritto del lavoro si applica ad un’area
in cui si colloca meno della metà della forza-lavoro italiana; si assiste quindi ad
una marcata divisione, in seno ai lavoratori, tra la categoria degli insiders, i
privilegiati arroccati nella cittadella del lavoro regolare iperprotetto, e quello
degli outsiders: i disoccupati, i precari, le quote deboli, che dalla cittadella sono
permanentemente esclusi
4
. Per superare tali problematiche, occorrerebbe
abbandonare meccanismi di tipo vincolistico basati su graduatorie e procedure
burocratiche, rafforzando nel contempo la posizione contrattuale dei lavoratori
che trovano maggiori difficoltà di reinserimento. Occorrerebbe cioè compensare
la menomazione professionale, culturale o sociale di questi soggetti, con un
sovrappiù di offerta di ciò che a loro essenzialmente manca: informazione,
formazione e mobilità, affinché gli handicap fisici e sociali siano di fatto
neutralizzati, permettendo a chi ne è portatore, di competere alla pari con gli
altri lavoratori.
In quest’ottica sembra peraltro collocarsi la recente riforma del
collocamento operata dal d.P.R. n. 469/97, che realizza il trasferimento alle
regioni delle competenze in materia di avviamento al lavoro ed elimina il
monopolio pubblico in materia di collocamento. La contemporanea riforma della
struttura del collocamento (che porterà ad esempio alla soppressione della
CRI), e la creazione di nuovi organi cui demandare i compiti in materia di
politica attiva del lavoro, dovrebbe permettere di raggiungere un maggior livello
di efficacia delle misure poste in essere, attraverso la creazione di un nuovo
sistema di servizi che garantisca l’integrazione tra politiche attive del lavoro e
politiche formative. Molte situazioni descritte in questo lavoro, dagli interventi
della CRI all’attività di supporto delle Agenzie per l’Impiego, subiranno rilevanti
modifiche con la definitiva attuazione della riforma, della quale si è dato conto in
un paragrafo a sé stante. Essendo però il d.P.R. n. 469/97 un intervento in fieri,
l’impatto effettivo della riforma potrà essere valutato solo tra qualche anno.
3
E.REYNERI, op. ult. cit., pag. 384.
4
P.ICHINO, Il lavoro e il mercato, Milano, 1996, pag. 4.
10
Come sottolineato da parte della dottrina, le riflessioni svolte in questo
lavoro non devono prescindere da un coinvolgimento sul piano etico delle
imprese. Adottando una logica aziendalistica, ogni impresa va considerata
come una comunità immersa nell’ambiente, coinvolta nella soluzione di
problematiche che possono garantire il raggiungimento di obiettivi di crescita
civile per l’intera collettività. D’altro canto, i problemi legati al rispetto dei valori
umani e sociali, se ignorati o non affrontati con senso critico e responsabilità,
possono diventare fonte di rischi particolari per l’intera attività economica
5
.
Le imprese che non vogliano subire ricadute e rischi sulla loro attività,
non dovrebbero quindi rinunciare ad affrontare con senso critico e
responsabilità i problemi legati al rispetto dei valori umani e sociali che
inevitabilmente si presentano ogni qual volta si proceda all’assunzione di
lavoratori provenienti dall’area del disagio sociale.
5
F.CORNO, Etica in impresa, Padova, 1992, pag. XV.
11
P A R T E I
L’AVVIAMENTO AL LAVORO DELLE
C.D. “QUOTE DEBOLI”
C A P I T O L O 1
I SOGGETTI IN STATO DI DISAGIO SOCIALE NEL QUADRO
DELL’EVOLUZIONE STORICA DEL COLLOCAMENTO
1.1 L’EVOLUZIONE DELLA NORMATIVA
Il perno dell’intervento pubblico sul mercato del lavoro è rappresentato a
tutt’oggi dalla disciplina vincolistica del collocamento, inteso come sistema
istituzionale-normativo predisposto per lo svolgimento dell’intermediazione fra
domanda ed offerta di lavoro, in vista della collocazione od assunzione della
manodopera.
Il fenomeno dell’intervento pubblico sul mercato del lavoro è comunque
ben più vasto, coinvolgendo infatti, oltre al collocamento, numerosi altri aspetti:
dal sostegno dei fenomeni di disoccupazione involontaria ai meccanismi di
informazione operanti nel mercato del lavoro, dal sostegno dell’occupazione
giovanile ai progetti di orientamento e formazione professionale, solo per citare
gli aspetti più evidenti.
Questi interventi cercano, nel loro complesso, di fornire una risposta
articolata agli squilibri quantitativi e qualitativi presenti nel mercato, al fine di
favorire l’incontro, e quindi lo scambio, tra la domanda e l’offerta di lavoro.
La disciplina a cui l’intervento pubblico dà vita si distingue, nel suo
complesso, per il suo carattere imperativo, imponendo vincoli e limiti
all’autonomia contrattuale dei datori e dei prestatori di lavoro (art. 1322 c.c.),
ma, nel fare ciò, persegue l’obiettivo, nello stesso tempo sociale e pubblico, del
sostegno e della promozione dell’occupazione
6
.
6
E.GHERA, Il collocamento, in Dig. disc. Priv., sez. comm., VIII, Torino, 1992, pag. 103.
12
In particolare, l’intervento pubblico in materia di intermediazione della
manodopera ha riflesso le preoccupazioni del legislatore e dei sindacati che,
all’indomani del periodo corporativo, vollero combattere in primo luogo gli
episodi di “caporalato”, di mediazione nella ricerca di un’occupazione e la
pratica delle c.d. “liste nere”, cioè della discriminazione dei soggetti non
desiderabili perché sindacalmente molto “combattivi” o politicamente scomodi
7
.
“Tutto questo sottolinea la funzione essenzialmente protettiva dell’istituto
del collocamento, intesa da un lato come disciplina normativa rivolta ad
introdurre, in antitesi alla spontaneità del mercato, una regolamentazione del
rapporto tra domanda ed offerta di lavoro, e dall’altro lato come strumento di
politica economica, finalizzato alla prevenzione ed alla riduzione della
disoccupazione. (…) Può dirsi quindi che la disciplina del collocamento sia
funzionale al controllo sociale del mercato del lavoro e persegua l’obiettivo di
pervenire ad una distribuzione dei posti di lavoro disponibili, secondo criteri di
equità”
8
.
“Garantire un largo e gratuito accesso alle informazioni relative alle
occasioni di lavoro ed ai lavoratori in cerca di occupazione, permette infatti di
ridurre gli svantaggi dei soggetti meno dotati di risorse economiche ed
informative: le fasce deboli dell’offerta, che sono meno inserite nelle reti di
relazioni personali ed incontrano maggiori difficoltà nella ricerca del lavoro”
9
.
La necessità di predisporre una tutela a favore dei lavoratori più
svantaggiati, sarà il fattore chiave soprattutto nell’analisi delle problematiche
che verranno trattate in queste pagine, legate all’inserimento lavorativo della
forza lavoro debole o, più in generale, versante in condizioni di disagio sociale,
affinché le occasioni di lavoro disponibile siano assegnate secondo criteri di
giustizia sostanziale, nel pieno rispetto dei principi costituzionali in tema di
lavoro.
E’ infatti “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei
7
In quest’ambito una tutela forte arriverà però, soltanto lo Statuto dei lavoratori (legge n.
300/70), ed in particolare con l’art. 8 che vieta “al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come
nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi,
sulle opinioni politiche, religiose e sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini
della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”.
8
E.GHERA, op. ult. cit., pag. 104.
9
E.REYNERI, Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, 1996, pag. 390.
13
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese” (art. 3, c. 2, Cost.). Coerentemente “La Repubblica
riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che
rendono effettivo questo diritto” (art. 4, c. 1, Cost.).
L’intervento pubblico sul mercato del lavoro si caratterizza però per una
stratificazione legislativa che, nel suo insieme, riflette l’evolversi delle
congiunture politiche ed economiche succedutesi nel corso degli anni. E’ infatti
possibile suddividere la sequenza legislativa in una triplice fase che, apertasi
sul finire degli anni ‘60, si è protratta a tutt’oggi
10
.
La prima fase, che si prolunga sino alla metà degli anni ‘70, è quella della
c.d. legislazione garantista-promozionale, nata sull’onda della grande spinta
sociale e sindacale esplosa nel biennio 1968-69, legislazione rivolta però, in
larga parte, alla tutela della sola mano d’opera occupata e priva quindi di
iniziative promozionali a favore dei lavoratori disoccupati.
La seconda fase, nota come quella del c.d. diritto dell’emergenza, si
protrae fino all’inizio degli anni ‘80, e testimonia una prima inversione di
tendenza che mira ad una deregolazione dei processi gestionali del mercato del
lavoro.
10
La stessa legge n. 264/49 è frutto di un serrato dibattito politico. Come osserva L.MARIUCCI,
Collocamento, in Encicl. Giur., VI, Roma, 1988, pag. 2-3, al momento del varo della legge,
occorreva stabilire le forme della gestione e i modi di avviamento del collocamento.
Sotto il primo aspetto si pose l’alternativa tra “statalizzazione” e “sindacalizzazione”.
Nell’immediato dopoguerra la situazione di fatto appariva contraddittoria: in alcune provincie,
specialmente nel settentrione, il collocamento era gestito direttamente dalle associazioni
sindacali, in altre era amministrato dagli Uffici del lavoro. La CGIL e le forze di sinistra
proponevano di adottare l’ipotesi della sindacalizzazione, affidando i compiti relativi
all’avviamento a commissioni sindacali sottoposte a controllo pubblico. La maggioranza di
governo optò invece per una diversa scelta, ispirata al fine di conservare al collocamento il
carattere di pubblica funzione. Ne risultò una soluzione di compromesso a basso profilo: il
servizio del collocamento fu affidato agli Uffici provinciali del lavoro e alle loro sezioni staccate
(art. 24, legge n. 264/49), mentre ad un ruolo marginale, se non meramente virtuale, furono
relegate le commissioni di controllo a partecipazione sindacale.
Per ciò che concerne il problema dell’avviamento, entrò invece in gioco la nota alternativa tra
avviamento nominativo e numerico. Nel primo caso si lascia al datore di lavoro libertà di scelta
tra gli iscritti alla lista, nel secondo la mediazione pubblica si spinge fino ad individuare l’altro
contraente in base a requisiti professionali indicati ed alle graduatorie di avviamento. La legge
n. 264/49 optò, formalmente, per quest’ultima soluzione. In apparenza veniva adottato un
sistema vincolistico: obbligo di iscrizione alle liste, obbligo di richiesta al competente Ufficio per
chi voglia assumere, avviamento numerico salvi i casi in cui siano ammesse richieste
nominative, assunzioni dirette o passaggi diretti da azienda ad azienda. Fu però proprio questo
largo numero di eccezioni a trasformare il principio generale in eccezione.
14
La terza fase, a tutt’oggi aperta, comincia sotto la denominazione del c.d.
diritto della crisi e continua sotto quella del c.d. diritto della flessibilità. Se la
parola crisi indica il perpetuarsi, all’inizio degli anni ’80, delle problematiche a
carattere occupazionale, la parola flessibilità evidenzia il consolidarsi, nel corso
dello stesso decennio, di una politica di maggiore libertà imprenditoriale nella
ricerca e nella gestione della forza lavoro
11
.
Solo sul finire degli anni ’80 verranno però realizzati una serie di
interventi razionalizzatori (dalla legge n. 56/87 al recentissimo Pacchetto Treu,
passando per la fondamentale legge n. 223/91 e l’era della concertazione
Governo-Sindacati inaugurata dall’accordo del Luglio 1993) che, nel riformare il
mercato del lavoro, pur confermando da un lato il primato della legge, dall’altro
lato riconoscono una serie di flessibilità alle imprese ed affermano la
disponibilità a praticare forme di “delegificazione”
12
.
11
G.GHERA, op. ult. cit., pag. 105, evidenzia come la produzione normativa realizzata durante
la legislazione dell’emergenza prima, e nel quadro della legislazione della flessibilità poi,
quantunque frammentaria ed occasionale, sia stata rivolta alla diversificazione, dal lato
dell’offerta, degli interventi di sostegno all’occupazione, in particolare attraverso l’introduzione di
misure promozionali dell’occupazione giovanile e, in genere, della mobilità della manodopera.
Dal lato della domanda gli interventi si sono invece concretizzati nella promozione
dell’occupazione attraverso l’autorizzazione e la costituzione di tipi speciali di rapporto di lavoro
c.d. “flessibili”, alternativi al tradizionale rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (
per esempio contratti di formazione lavoro e contratti a tempo parziale ex legge n. 863/84, e
contratti a tempo determinato ex legge n. 56/87).
La liberalizzazione del mercato del lavoro e l’incentivazione dell’occupazione, possono essere
considerate infatti, le linee portanti di ogni intervento legislativo in tema di politica attiva
dell’occupazione.
12
F.CARINCI, R.DE LUCA TAMAJO, P.TOSI, T.TREU, Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro
subordinato, III edizione, Torino, 1995, pag. 94-100.
15
1.2 IL COLLOCAMENTO ORDINARIO NELLA LEGGE FONDAMENTALE
DEL 1949 E NELLA LEGISLAZIONE SUCCESSIVA
La legge 29 aprile 1949, n. 264 (c.d. “legge Fanfani”), recante
“Provvedimenti in materia di avviamento al lavoro e di assistenza dei lavoratori
involontariamente disoccupati”, contiene la disciplina fondamentale del
collocamento ordinario, vale a dire del sistema di intermediazione della
manodopera operante per la quasi totalità del lavoro privato non agricolo, salvo
i collocamenti speciali o circuiti preferenziali relativi a particolari settori, fasce
sociali e categorie
13
.
La legge n. 264/49 contiene quindi una serie di disposizioni rivolte a
definire il procedimento amministrativo di avviamento dei lavoratori ed il quadro
degli organi preposti al collocamento, ma, soprattutto, racchiude in sé i principi
che per decenni hanno retto il sistema del collocamento della manodopera,
sistema di cui lo Stato detiene il monopolio e che avrebbe dovuto garantire,
nelle intenzioni del legislatore, l’oggettività delle procedure di avviamento al
lavoro, svolte gratuitamente dallo Stato nell’interesse dei lavoratori
14
.
13
Numerosi sono stati negli anni gli interventi realizzati. Se infatti la legge n. 482/68 disciplina il
collocamento obbligatorio delle c.d. categorie protette (cfr. par. 1.3), la legge n. 83/70 scinde dal
collocamento ordinario il collocamento agricolo. Collocamenti speciali sono inoltre previsti per i
lavoratori dello spettacolo, degli alberghi, dei panifici e per la gente di mare.
Altri provvedimenti mossi da una logica promozionale, seppur superati, hanno invece dato
luogo alla creazione di liste speciali per il collocamento della forza lavoro giovane (legge n.
285/77) ed a circuiti preferenziali per i lavoratori in mobilità (legge n. 675/77; cfr. par. 4.1).
Più recentemente, le leggi n. 863/84 e n. 943/86 hanno istituito liste apposite, rispettivamente
per i lavoratori a tempo parziale e per i lavoratori extra-comunitari.
14
Per ciò che concerne il tema del monopolio pubblico, la Corte di Cassazione aveva
comunque già sottolineato, con sentenza 23.2.1966, n. 546, in SGL, II, pag. 9, che “l’attività di
collocamento dei lavoratori costituisce attività di carattere pubblicistico riservata alla pubblica
amministrazione, che ha il monopolio di tale funzione, con il conseguente divieto della
mediazione privata nell’ampio senso di ogni attività di interposizione nel collocamento delle
forze di lavoro”.
16
L’art. 7, legge n. 264/49, sancisce in particolare che “il collocamento è
funzione pubblica esercitata secondo le norme del presente titolo”
15
.
Nel nuovo sistema dunque, i lavoratori che aspirino a trovare
un’occupazione, siano essi operai o impiegati, sono tenuti ad iscriversi nelle
liste di collocamento presso gli Uffici nella cui circoscrizione abbiano la propria
residenza (art. 8), secondo i criteri e le classificazioni previste
16
. Nel contempo
viene vietata la mediazione nella ricerca del lavoro, anche se gratuita (art. 11, c.
1), stabilendo che i datori che intendano procedere a nuove assunzioni,
debbano inoltrare richiesta al competente Ufficio, nella cui circoscrizione si
svolgono i lavori ai quali la richiesta si riferisce (art. 13, c. 2)
17
.
15
Questa disposizione discende direttamente dall’art. 20 del r.d.l. n. 1934/38; tale legge, che ha
avuto vigore fino alla pubblicazione della citata legge n. 264/49, definiva “pubblica” la funzione
del collocamento, nell’interesse della produzione e dello Stato, affidandone l’esercizio alle
competenti associazioni professionali dei lavoratori. Tale soluzione trovava infatti fondamento
nella natura giuridica di queste associazioni, riconosciute dallo Stato “enti di diritto pubblico”.
Soppresso il sistema sindacale-corporativo fascista con ordinanza n. 28 del Governo militare
alleato del territorio occupato, e riconfermato il principio della “funzione pubblica” nella sua più
completa integrità dalla legge n. 264/49, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 1352 del 29
maggio 1950, n. 1934, in MGL, 1950, pag. 200, ha tenuto a tal fine a sottolineare che “il R.D. 21
dicembre 1938, relativo alla disciplina della domanda e offerta di mano d’opera e all’obbligo di
ricorrere all’Ufficio di collocamento, non è stato mai abrogato, né esplicitamente, né tacitamente
ed ha conservato sempre piena efficacia, fino all’emanazione della legge n. 264/49. Non può
parlarsi neppure di sospensione di detto decreto, perché alle organizzazioni fasciste soppresse
furono sostituiti gli uffici del lavoro a cui furono demandate le funzioni di competenza delle
prime”.
16
Le iscrizioni, che devono essere eseguite cronologicamente, secondo l’ordine di
presentazione della richiesta (art. 10, c. 1), garantiscono al lavoratore una determinata anzianità
di iscrizione ai fini della formazione delle graduatorie di avviamento al lavoro. E’ necessario
però che l’interessato, per essere iscritto nelle liste di collocamento, abbia compiuto l’età
stabilita dalla legge per essere assunto e sia in possesso del libretto di lavoro o del certificato
sostitutivo, laddove tali documenti siano prescritti (art. 9, c. 1).
I lavoratori iscritti vengono distinti e classificati in categorie (l’art. 10, c. 2, ne prevedeva in
origine 5), e successivamente raggruppati per settori di produzione, entro ciascun settore per
categorie professionali ed entro ciascuna categoria per qualifica o specializzazione (art. 10, c.
3).
L’art. 10, legge n. 56/87, ha ridotto a tre le classi in cui sono divise le liste di collocamento:
a) disoccupati in cerca di prima occupazione, occupati con lavoro a tempo parziale con orario
non superiore a 20 ore la settimana, e lavoratori con contratto a termine non superiore a 4 mesi;
b) occupati che aspirino a diversa occupazione;
c) pensionati.
Di questa terna la legge n. 223/91 considera, ai fini dell’individuazione dei beneficiari della
riserva, solo gli iscritti alla prima classe (cfr. par. 2.3).
17
L’obbligo di rivolgersi all’ufficio predetto non ricorre, però, per alcune categorie di lavoratori,
espressamente elencati dalla legge all’art. 11, c. 3, per le quali è prevista l’assunzione diretta.
L’assunzione diretta viene consentita altresì, nei casi di passaggio diretto ed immediato del
lavoratore, dall’azienda nella quale è occupato ad un’altra (art. 11, c. 6), e allorquando ricorra
l’urgente necessità di evitare danni alle persone e agli impianti (art. 19).
17
“La richiesta di lavoratori all’ufficio di collocamento da parte del datore di
lavoro deve essere numerica, per categoria e qualifica professionale” (art. 14, c.
1).
Una volta ricevuta la richiesta di assunzione l’ufficio competente
procederà all’atto finale della propria attività di intermediazione, avviando
presso il datore i lavoratori iscritti nelle proprie liste, tenendo conto della
categoria e della qualifica richiesta. A tal fine il lavoratore dovrebbe essere
individuato dall’Ufficio secondo criteri obiettivi, in funzione del carico familiare,
della situazione economica e patrimoniale, dell’anzianità di iscrizione nelle liste
(art. 10, c. 3, legge n. 56/87).
“Un cenno a parte merita la questione concernente le relazioni
intercorrenti tra l’atto di avviamento ed il contratto di lavoro, al fine di stabilire se
con l’avviamento operato dall’ufficio di collocamento si perfezioni il contratto di
lavoro, o se questo sorga solo in seguito, per effetto di una diretta stipulazione
tra le parti. In quest’ultimo senso è orientata la prevalente dottrina,
considerando l’atto di avviamento come un elemento estrinseco al contratto che
agisce semplicemente come condizione della sua validità”
18
.
La Corte di Cassazione ha previsto tuttavia che “il datore di lavoro, che
ometta o ritardi l’assunzione dei lavoratori avviati, è tenuto, salvo prova
liberatoria a suo carico ex art. 1218 c.c., all’obbligo (derivante da responsabilità
contrattuale) di risarcire i danni subiti dai predetti lavoratori e coincidenti, di
norma, con le retribuzioni non percepite dai medesimi, tranne i casi in cui
questi, nel periodo per il quale si è protratto l’inadempimento, abbiano trovato
altra proficua occupazione o siano rimasti disoccupati per loro negligenza”
19
.
L’avviamento da parte dell’Ufficio non determina quindi l’obbligo di concludere il
18
U.COLETTA, Collocamento dei lavoratori, in Encicl. Dir., VII, Milano, 1960, pag. 437.
E’ infatti annullabile, ai sensi dell’art. 2098 c.c., il contratto di lavoro concluso in violazione delle
disposizioni sul collocamento. Alla previsione del c.c., che attribuisce al pubblico ministero la
legittimazione della relativa azione, si aggiunge quella dell’art. 33 dello statuto dei lavoratori
(legge n. 300/70), che attribuisce analoga facoltà al direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro.
In ogni caso, il mancato esercizio dell’azione di annullamento del contratto da parte del
pubblico ministero, ex art. 2098 c.c., per violazione delle norme sul collocamento, non inficia la
validità del rapporto di lavoro.
Per ciò che concerne in particolare l’attività di mediazione nell’avviamento al lavoro, essa
viene prevista e punita dall’art. 27 della legge n. 264/49 (modificato da ultimo, dall’art. 10 legge
n. 56/87), il quale prevede sanzioni di tipo penale per chi esercita la mediazione, e di tipo
amministrativo-pecuniario per i datori di lavoro che non assumono tramite gli Uffici di
collocamento.
19
C.CASS., 16. 3. 1988, n. 2465, GI, 1988, pag. 132. Contra, per l’insussistenza del diritto al
risarcimento del danno, C.CASS. 15. 3. 1984, n. 1772, MFI, 1984, pag. 347.
18
contratto, ma solo quello di trattare secondo buona fede (art. 1337). Dalla sua
violazione consegue la mera responsabilità risarcitoria.
La legge prevede tuttavia la possibilità per il datore di lavoro di rifiutare
l’assunzione di lavoratori da lui precedentemente licenziati per giusta causa
(art. 15, c. 5).
Nei confronti del sistema delineato da queste disposizioni, sono state
sollevate questioni di illegittimità costituzionale, rispetto agli artt. 1, 2, 3, 4, e 16
della Costituzione.
L’Alta Corte ha però riconosciuto la legittimità costituzionale delle norme
di cui alla legge n. 264/49 in quanto “provvedono ad attuare praticamente le
esigenze di lavoro dei cittadini ed a disciplinare le condizioni e i modi per
l’assunzione dei lavoratori”
20
. Inoltre “il principio della libertà di scegliere
un’attività di lavoro non è leso né compromesso in modo tale da essere
annullato per effetto di limitazioni poste dalla legge a tutela di altri interessi e di
altre esigenze sociali, come l’iscrizione in albi professionali, la determinazione
di requisiti particolari per l’ammissione a posti di lavoro, la determinazione di
modi e condizioni per l’assunzione di lavoratori”
21
.
Nella stessa sentenza la Corte Costituzionale ha escluso che le norme
riguardanti il collocamento dei lavoratori contengano una violazione della libertà
di circolazione e soggiorno, giacché l’obbligo di iscrizione dei lavoratori nelle
liste di collocamento della propria residenza non incide, in sé e per sé, sulla
libertà di circolazione e di soggiorno in qualsiasi parte del territorio nazionale.
Con la sentenza n. 248/86 la Corte Costituzionale ha infine rilevato che il
significato del collocamento come funzione pubblica può essere colto solo
rifacendosi alla regola fondamentale della chiamata numerica: “la scelta del
legislatore di siffatta disciplina (...) ha un razionale fondamento nella necessità
di evitare l’esercizio della mediazione privata ed il danno che ne subirebbero i
lavoratori assoggettati a un indebito sfruttamento. (…) Il riconoscimento, esteso
a tutti i lavoratori, in applicazione del principio di uguaglianza, impone di
procedere ad un equa ripartizione delle occasioni di lavoro esistenti, le quali
non coprono tutta l’area dei lavoratori per la ben nota insufficienza dei posti di
lavoro”. L’Alta Corte conclude con un’affermazione molto impegnativa, secondo
20
C.COST., 17. 4. 1957, n. 53, MGL, 1957, pag. 64.
21
C.COST., 4. 3. 1971, n. 41, FI, 1971, I, pag. 840.
19
la quale “il collocamento pubblico è uno strumento di politica attiva del lavoro
cui non è opportuno rinunciare. Fino a che sussistono la crisi economica (...), la
necessità di equilibrare la domanda e l’offerta di lavoro, la necessità di una
direzione statale della politica economica (...), la necessità di interventi pubblici
a sostegno dei livelli occupazionali (...), le esigenze di mantenimento dei
raggiunti livelli di socialità, peraltro costituzionalmente garantiti, delle realizzate
conquiste sociali, sembra difficile instaurare un regime di piena libertà fondato
sulla sola richiesta nominativa del lavoratore”
22
.
L’Alta Corte riconosce quindi nella richiesta numerica il fondamento che
consente al collocamento di mantenere il significato di funzione pubblica.
Proprio sulla richiesta numerica si sono però incentrate le critiche di maggior
parte della dottrina, soprattutto da parte di chi vede nella regola numerica il
dissolvimento effettivo dell’intuitus personae, quanto meno nella fase pre-
contrattuale
23
.
L’intero sistema era comunque costruito in modo tale da renderne
improbabile il funzionamento. Se esteriormente la disciplina appariva rigida,
dietro lo schermo della “pubblicizzazione” si svolgeva una vera e propria
“liberalizzazione” del collocamento, coperta dalla gestione “burocratico-
clientelare” del servizio. La legge del 1949 non costituì infatti in alcun modo, un
limite né alle politiche di assunzione delle industrie settentrionali durante
l’espansione economica della fine degli anni ’50, né alle prassi di caporalato
nelle campagne meridionali
24
.
Gli automatismi che avrebbero dovuto reggere il sistema , risultarono
troppo primitivi per poter funzionare con reciproca soddisfazione di chi offre e di
chi cerca lavoro. I lavoratori non si dimostrarono spontaneamente inclini ad
accettare, in nome della solidarietà, il più totale anonimato che ne nasconde la
soggettività e ne mortifica le aspirazioni personali. D’altro canto i datori di lavoro
non intesero rinunciare alla possibilità di scegliere il contraente. I collocatori di
Stato vennero così rapidamente spiazzati dal circuito reale dei flussi di
manodopera, con il mercato del lavoro abbandonato alla sua anarchia.
22
C.COST., 28. 11. 86, n. 248, RIDL, 1987, II, pag. 257.
23
L.MARIUCCI, op. ult. cit., pag. 3.
24
L.MARIUCCI, op. ult. cit., pag. 10.
20
“La descritta tecnica di governo del mercato del lavoro sarà pertanto
ricordata per la sua idoneità a perseguire non tanto l’ideale di giustizia
distributiva accarezzata dai padri costituenti, quanto piuttosto ad interpretare
l’indignazione morale provocata dal cinismo di datori di lavoro decisi a sfruttare
la loro posizione dominante in un mercato afflitto da un’endemica sproporzione
tra domanda ed offerta di lavoro”
25
.
Le critiche alla legge n. 264/49 non sono però circoscritte ai limiti posti
dalla richiesta numerica al funzionamento del mercato del lavoro, ma si
estendono al basso profilo da essa ricoperto in termini di politica attiva per le
c.d. fasce deboli.
“La legge privilegia infatti, nella promozione di una maggior domanda di
occupazione, una logica “passiva”, attraverso una distribuzione paritaria della
domanda di lavoro esistente e la rilevazione della disoccupazione involontaria,
in vista della corresponsione della sola indennità relativa.
La legge non realizza poi una conduzione “manageriale”,
professionalizzata ed orientata verso il risultato, ma “burocratica”, generica e
vincolata al procedimento.
(…) Il provvedimento risulta inoltre costruito a misura di una realtà
agricolo-industriale, divenuta ben presto anacronistica in presenza della
massiccia emigrazione sud/nord e dell’accelerata urbanizzazione dell’Italia del
boom. Esso sarà pertanto destinato a rimanere quasi ignorato in fase di
espansione occupazionale e a ritornare al centro dell’attenzione riformatrice in
fase di crisi”
26
.
Ciò che più rileva però, sarà l’incapacità della legge n. 264/49 di
raccogliere le istanze della forza lavoro debole e versante in situazioni di
disagio sociale, anche alla luce della deroga generalizzata al criterio
dell’avviamento numerico.
25
G.GHEZZI, U.ROMAGNOLI, Il rapporto di lavoro. Aggiornamenti 1992-1993, Bologna, 1993,
pag. 2.
26
F.CARINCI, R.DE LUCA TAMAJO, P.TOSI, T.TREU, op. ult. cit., pag. 100.