ragguardevole. In questo modo si fraziona e si riduce il
rischio dell’investimento e il costo della gestione
professionale è ripartito tra tutti i risparmiatori
partecipanti.
Questo sistema-base può poi essere implementato con modalità
diverse. Può anzitutto cambiare la sua forma giuridica, e
assumere ad esempio la forma societaria, come nel caso delle
SICAV: i risparmiatori diventano soci di una società il cui
oggetto sociale è l’investimento del capitale. Può poi mutare
il tipo di beni verso cui orientare l’investimento, e quindi
si danno fondi aperti (open end), in cui il rimborso della
quota può avvenire in ogni tempo, o fondi chiusi (closed end),
in cui tale rimborso è ammesso solo a scadenze predeterminate.
Può infine essere diverso anche l’obiettivo del fondo: la
tripartizione classica prevede i growth funds, che mirano a
realizzare grandi profitti, e quindi puntano su società in
grande espansione tecnologica, subendone il correlativo
rischio; gli income funds, che tendono a fornire ai
partecipanti un reddito discreto e costante, puntando su
società collaudate e solide; e infine i balanced funds, che
sono la via di mezzo tra i due tipi precedenti.
Dal punto di vista del mercato, inoltre, secondo opinioni
accreditate, il fondo comune risponde ad almeno due tipi di
esigenze: anzitutto, offrendo al risparmiatore un tipo di
investimento conveniente e a basso rischio, riesce a
trasformare il risparmio che abbia esigenze di liquidità in
apporto di capitale alle imprese; in secondo luogo,
costituisce un fattore stabilizzante e antispeculativo del
mercato borsistico, contribuendo, grazie all’elevato livello
di informazione e professionalità dei gestori, a convogliare i
capitali verso le imprese più meritevoli
2
.
Si comprende quindi come la mancanza di una legge che desse
piena cittadinanza ai fondi comuni fosse sentita da più parti
come una grave limitazione.
Gli operatori economici tentavano, dal canto loro, di supplire
al silenzio del legislatore, rivolgendosi a fondi
oltrefrontiera. Un primo passo venne dalla commercializzazione
in Italia di quote di fondi lussemburghesi. Uno dei tentativi
più importanti in questo senso venne esperito dal Banco
Ambrosiano, che insieme ad altre due banche europee costituì
in Lussemburgo il fondo Interitalia, destinato ad operare
prevalentemente entro i nostri confini; ma il successo non
arrise all’iniziativa, anche in ragione della sfiducia
generalizzata nei confronti del mercato borsistico.
D’altro canto anche in altri Paesi, dove pure i fondi comuni
avevano alle spalle decenni di storia, gli anni Sessanta hanno
rappresentato un momento di forte crescita di questo sistema
di investimento. Dopo il 1964, visto l’exploit di Cornfeld
3
che
aveva mostrato le potenzialità fruttifere di uno strumento
come il fondo, numerose società finanziarie americane decisero
di fare il loro ingresso nel mercato italiano. Tuttavia
accanto a soggetti solidi e affidabili, nacquero anche società
2
Si rileva anche che il fondo, offrendo un tasso di rendimento più
favorevole pur mantenendo un basso rischio, è in grado di ridurre
la propensione marginale al consumo, agendo così in senso
moderatamente deflazionistico. V. De Ponti, op. cit., p. 54.
3
Si tratta dello scandalo c.d. I.O.S. (Investors Overseas Service):
l’iniziativa realizzò inizialmente brillantissime performances, ma
finì in un disastroso crollo, che danneggiò una miriade di piccoli
risparmiatori. La vicenda è descritta in De Ponti, op. cit., p. 23
ss.
meno serie, aventi tipicamente sede nei cosiddetti “paradisi
fiscali”, e parecchi furono gli investitori poco avveduti che
ne subirono le conseguenze. Per queste ragioni, unitamente a
motivi valutari relativi al contraccolpo portato alla bilancia
dei pagamenti dal deflusso di capitali, il Governo italiano
decise nel 1969 di sottoporre ad autorizzazione l’acquisto di
quote dei Fondi. Ciò nonostante non si riuscì ad evitare una
forte crisi nel 1970-71, e si faceva sempre più pressante
l’esigenza di una legge italiana che disciplinasse il mercato
mobiliare.
Un primo passo venne fatto con l’emanazione della legge 7
Giugno 1974, n° 216, che da un lato dettava per la prima volta
norme speciali per la disciplina delle società con azioni
quotate, e dall’altro istituiva la Consob, gettando così due
pilastri importanti per il governo del mercato mobiliare.
2. La legge 77/83: caratteristiche e limiti
Quanto ai fondi comuni, numerosi furono i disegni di legge,
sia governativi che di iniziativa parlamentare
4
, ma solo il 23
Marzo 1983, dopo travagliata gestazione, si giunse
all’approvazione della legge n° 77, intitolata “Istituzione e
disciplina dei fondi comuni di investimento”. Il titolo,
invero, pecca sia per difetto che per eccesso: per difetto in
quanto contiene anche una corposa seconda parte che regola la
raccolta di risparmio tra il pubblico
5
, per eccesso in quanto
disciplina un solo tipo di fondi comuni di investimento, e
cioè quelli mobiliari di tipo aperto.
La legge introduce un modello necessariamente trilaterale,
costituito dai partecipanti, dalla società di gestione e dalla
banca depositaria. Quest’ultima è incaricata della custodia
dei titoli, a tutela dell’integrità del fondo, e di un
controllo sulle operazioni poste in essere dalla società di
gestione, affinché siano conformi alla legge, al regolamento
del fondo e alle prescrizioni dell’organo di vigilanza.
4
V. ad es. gli artt. 72-86 del progetto di riforma delle società
commerciali elaborato dalla commissione De Gregorio, in Riv. Soc.,
1966, p. 93 ss. e il d.d.l. presentato dal Governo il 23 aprile
1969.
5
Maffei Alberti, ”in Commentario alla legge 77/83“, a cura di
Maffei Alberti, in Le nuove leggi civili commentate, 1884, I, p.
380
La società di gestione viene autorizzata alla costituzione di
uno o più fondi comuni dal Ministro del Tesoro, in presenza di
determinati requisiti (forma di S.p.A., capitale minimo,
oggetto sociale esclusivo, professionalità e onorabilità di
amministratori e sindaci). La costituzione avviene con
deliberazione dell’assemblea ordinaria, la quale
contestualmente approva il regolamento del fondo; questo è il
documento in cui si rinvengono le norme organizzative del
fondo, nonché il contenuto dei contratti con i partecipanti.
Il regolamento deve rispettare i requisiti previsti dall’art.
2 ed è soggetto all’approvazione dell’organo di vigilanza, che
in questo caso è la Banca d’Italia. Una volta approvato il
regolamento, il fondo può dirsi istituito e si può procedere
al collocamento delle quote, nel rispetto delle norme relative
alla sollecitazione al pubblico risparmio previste dalla
citata legge n° 216/74.
La società specializzata è l’unico soggetto legittimato a
compiere le operazioni di gestione e ad esercitare i diritti
relativi ai titoli, che sono ad essa intestati, pur essendo di
pertinenza del fondo. Nello svolgimento di queste attività, la
società di gestione è soggetta a norme dettate dalla legge e
dalla Banca d’Italia, tendenti sia a ridurre la possibilità di
conflitti d’interesse, sia ad assicurare al fondo la liquidità
indispensabile per garantire il rimborso delle quote in ogni
tempo, secondo il modello di fondo open end.
In genere tutto l’istituto è dominato da un penetrante
controllo delle autorità di vigilanza, in particolar modo
della Banca d’Italia e del Ministro del Tesoro, ai quali è
demandata anche una certa potestà regolamentare, al fine di
garantire sufficiente elasticità al sistema.
3. Il dibattito dottrinale
La legge 77 si limita a definire il fondo “patrimonio distinto
a tutti gli effetti” da quello della società di gestione e da
quello dei partecipanti. Non risolve, quindi, l’annosa
questione che ha appassionato intere schiere di giuristi sin
dagli anni Sessanta, ossia quale sia la natura giuridica del
fondo.
E’ comprensibile infatti come davanti all’ingresso di un
fenomeno nuovo nel sistema giuridico italiano la nostra
dottrina si sia interrogata a lungo intorno ad esso, e
soprattutto abbia cercato di incasellare il fondo comune in
categorie conosciute dall’ordinamento. L’indagine, prendendo
le mosse dalla necessità di tutelare il risparmiatore, aveva
lo scopo di inquadrare la garanzia di autonomia del fondo
rispetto alle vicende del gestore, a fronte del fatto che ogni
potere di disposizione del fondo è sempre e comunque affidato
in via esclusiva alla società specializzata, la quale deve
agire nell’interesse dei partecipanti. Quindi, il patrimonio
gestito si situa all’esterno di quello del gestore, e a
margine di quello del partecipante, dal momento che i
creditori del primo non possono in nessun caso soddisfarsi sul
fondo, e quelli del secondo possono agire solo sui certificati
di partecipazione. Risulta quindi chiaro come incasellare
questo fenomeno nell’ambito delle categorie proprietarie
tradizionali non risulti agevole, sembrando prima facie che il
diritto di proprietà sul fondo - quale risulta dalla lettera
dell’art. 832 c. c.- non sia attribuibile con certezza a
nessuno dei soggetti che intervengono nel rapporto.
3.1 Il modello dell’investment trust
Il modello cui veniva naturale guardare, nella ricostruzione
del fenomeno in esame, era quello del trust di diritto
anglosassone, a cui i nostri fondi comuni venivano spesso
assimilati dalla dottrina.
Il trust si basa su un rapporto fiduciario
6
: nel modello più
semplice, il disponente (settlor) trasferisce la proprietà di
beni o diritti al trustee affinché questi, in genere dietro
compenso, li amministri in favore di un beneficiario (che può
essere lo stesso settlor, o addirittura non essere
specificato).
Lo strumento del trust viene usato nei sistemi anglosassoni
anche per gestire il risparmio in monte: nell’investment trust
- o unit trust - trustee è una società specializzata in
investimenti finanziari, e beneficiario è inizialmente il
promotore, che poi suddivide il proprio equitable interest in
unità (da cui unit trust) che colloca presso il pubblico. Le
somme versate dai sottoscrittori delle quote divengono di
proprietà del managing trustee, incrementando il trust fund, e
i titoli acquistati sono depositati presso una banca, che ne
diviene custodian trustee
7
.
E’ fondamentale, per capire cosa sia il trust e quindi per
poterne misurare la compatibilità con il nostro sistema,
chiarire che il vincolo del trustee è un vincolo di natura
6
V. Lupoi, Introduzione ai trust, Giuffrè, 1994, p 74 ss.
7
V. ancora Lupoi, op. cit., p. 38.
personale, non reale
8
: il beneficiario non ha un diritto sui
beni in trust, ma solo un equitable estate nei confronti del
trustee. I beni in trust entrano a tutti gli effetti nel
patrimonio del trustee; l’Equity, lungi dal costituire diritti
reali, impone vincoli personali, intervenendo a limitare non
già il diritto del trustee, ma solo l’esercizio di tale
diritto. E lo fa perseguendo il suo obiettivo naturale, che è
quello di garantire il rispetto dei principi di coscienza
9
.
Il contenuto del rapporto fiduciario sta nella convinzione del
disponente che il trustee amministrerà il patrimonio come
farebbe lui e come farebbero i beneficiari cui il patrimonio
verrà consegnato al termine del trust. Infatti il disponente
non ha alcun mezzo di tutela nei confronti del trustee, il
rapporto che da vita al trust non è contrattuale, ma di
fiducia: il trustee “risponde” non al disponente, ma allo
scopo del trust. E i beneficiari non hanno un diritto sui beni
in trust, bensì un equitable estate nei confronti del
trustee
10
.
8
V. anche la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, in Webb c.
Webb, 1994. Il testo della sentenza è riportato da Lupoi,
Introduzione ai trusts, op. cit., in Appendice.
9
Sulla base di questo principio, “l’Equity considera avvenuto ciò
che sarebbe dovuto avvenire”: Lupoi, op. cit., p. 38
10
E’ emblematica a questo proposito la soluzione adottata dalle
corti inglesi nel caso di alienazione di un bene in trust da parte
di un trustee infedele: l’acquirente non in buona fede, che cioè
abbia avuto notice del trust, diventa a sua volta trustee. In altre
parole, l’acquisto è valido, ma l’Equity impone che non sia tradita
la fiducia che era alla base del trust: v. ancora Lupoi, op. cit.,
p. 57.